Isole recluse

21 Giugno 2011

Isola è un termine che incarna talmente tanti significati e metafore, anche contraddittori, che il solo pronunciarla fa desiderare di chiudere gli occhi e lanciarsi in immagini lontane. Chi ci guarda forse capisce, dalle nostre espressioni, se le visioni che si proiettano all’interno delle nostre palpebre siano positive o negative. Tutto sommato tutti ogni tanto abbiamo il desiderio di isolarci, ma nessuno vuole rimanere isolato.

 

 

Isola è autonomia, "identità", similitudine e diversità. Le coste possono essere sabbiose o pietrose, ma tutte sono bagnate dall’acqua.

 

Tutti noi siamo isole. Isole che compongono un arcipelago immenso. Dalla nostra consapevolezza di esserlo dipende la floridezza del nostro stato.

 

L’isola è una meta utopica, segnata sulle antiche carte, ma sempre sfuggente all’orizzonte.

 

È il luogo dell’immaginario che incarna l’idea romantica della fuga. Verso l’isola, versus isola. Luogo esotico del desiderio, luogo crudele della coercizione.

 

 

Il progetto Isole recluse. Ottologia della villeggiatura deriva da un lavoro del 1988, L’invisibile informa il visibile, in cui delle carte topografiche in scala 1:25.000 dell’Istituto Geografico Militare sono montate su plexiglas al contrario, con la parte stampata verso la parete e la carta bianca a vista verso chi la guarda. Il visitatore si trova di fronte a un monocromo che rivela, grazie alla luce riflessa dal muro che illumina la superficie stampata, una stratificazione di segni paragonabile alle numerose mani sovrapposte da Ad Reinhardt sulle sue tele con la differenza che qui l’unica mano è quella del tipografo. L’osservatore a seconda della sua attenzione rileva dei segni relativi a un territorio, a una geografia, a un luogo. Voleva essere un lavoro dedicato all’attenzione con cui ci dedichiamo a un argomento, un percorso di conoscenza, una riflessione sull’idea di interpretazione, un approccio all’ermeneutica. Un pensiero dedicato alle nostre origini, al territorio che abitiamo, alla geografia come disciplina che pone le basi della nostra storia esistenziale sia in senso collettivo sia individuale. Disciplina che come la memoria si estingue perché oggi un decreto governativo ha deciso la sua inutilità.

 

 

Isole recluse è costituito da sette opere, di cui cinque singole, un dittico e un trittico, che parlano di otto isole definite ultimamente "della villeggiatura". La citazione attuale si rifà a una definizione di comodo/fuorviante, per definire dei luoghi coercitivi istituiti in luoghi ameni bagnati dal mare italico, di un’ottantina di anni fa.

 

Questo richiamo mi rimanda a quella Villeggiatura goldoniana che accompagna la Trilogia e che racconta, drammaticamente col sorriso, di una becera attitudine atemporale tipica della nostra italianità, ma forse particolarmente presente nell’ultimo ventennio. Come quel ventennio che abbiamo scelto di vivere e/o subito nella prima metà del secolo scorso che ha destinato quelle isole meravigliose al confino politico. Isole, di cui alcune simboleggiano altre memorie drammaticamente attuali, come Ustica e Lampedusa.

 

Forse è un tornare a un grado zero della visione, come feci all’inizio del mio percorso in opposizione alla superficiale abbondanza di colore degli anni ottanta italiani, così oggi una presa di posizione nei confronti di una spettacolarizzazione becera della vita e della politica che dalla vita si abbevera, o forse viceversa. E forse necessita una pausa di riflessione.

 

 

Una riflessione sulla situazione culturale italiana che oggi rasenta la categoria della carestia. Ma non in senso biblico, inteso come punizione divina, proveniente da un’entità astratta, avulsa da ogni responsabilità terrena. In questo caso si intende una di quelle carestie sfruttate, promosse e dirette dall’uomo, come quelle di matrice vittoriana del XIX secolo, per soggiogare ingenui o fragili paesi lontani. Qui, approfittando di un ambiente divenuto sterile a seguito di un’annosa overdose catodica che ha indirizzato le coscienze a un’inconsistenza critica e una latitanza partecipativa, si è potuto sviluppare uno sradicamento di interessi e responsabilità che ha trasformato il sapere culturale da valore fondativo di una nazione, in pericolo per il potere di una consapevolezza civica del cittadino.

 

Ma, per rimanere in ambito disciplinare, anche una riflessione sul monocromo che da queste superfici bianche arriva alle polveri, gli agenti atmosferici, le ceneri che caratterizzano alcuni progetti degli ultimi miei anni di lavoro. Un uso del monocromo come meta ultima della pittura attraverso la sua negazione, ovvero l’uso del non colore, del non pigmento anzi dell’anti pigmento per eccellenza. Si parla di materiali apparentemente labili, ma ineliminabili da un luogo e quando si posano, e nel tempo si stratificano, si chiede la mano salvifica del restauratore. Questi antipigmenti si propongono come superamento dell’a-colore manzoniano, desiderano disfarsi dell’oggetto pittorico, vogliono azzerarne lo statuto.

 

 

Un percorso che porta a riflettere su una zona di confine dell’idea di quadro come simbolo del modernismo che ha determinato il dominio occidentale negli ultimi secoli e che oggi volge al tramonto. Come al confine c’è l’isola , al di là della costa ma in mezzo al mare. Metafora della nostra esistenza, relegata in un angolo dal potere, ma a cui ci si può ammutinare per sovvertirlo con una determinata consapevolezza del proprio essere. Isola fisica come oggetto quadro, isola politica come idea dell’arte.

 

Abbiamo bisogno di ammutinamento (Leo Punto)

 

Didascalie


1 - Veduta della mostra Isole recluse, Ottologia della villeggiatura, Galleria Cesare Manzo, Roma, febbraio 2011.

2 - Invisibile informa il visibile (Favignana), 1988-2010, trittico

3 - Invisibile informa il visibile (Lipari), 1988-2010, dittico

4 - Invisibile informa il visibile (Ustica), 1988-2010

5 - Veduta della mostra Isole recluse, Ottologia della villeggiatura.

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