Italia mia
Più che commentare questa famosa pagina di Primo Levi, contenuta in uno dei capitoli finali dei Sommersi e i salvati, dal titolo Stereotipi, mi piacerebbe riuscire a riviverne lo spirito. Ecco perché ho deciso di festeggiare a modo mio il centocinquantenario dell’unità nazionale chiamando Irina e Alì, Mohamed e Hafiz, Paulo e Abdullah a recitare in pubblico alcuni celebri versi della letteratura italiana. Prima dell’anniversario ci siamo preparati perché per loro non è facile decifrare quelle parole, del resto così difficili e distanti anche per molti di noi. Eppure, mentre ascoltavo un ragazzo bengalese leggere a voce alta: “Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai / silenziosa luna?” o una ragazza ucraina: “Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo / di gente in gente, mi vedrai seduto / su la tua pietra, o fratel mio, gemendo /il fior de’ tuoi gentili anni caduto…”, mi sono emozionato. Nel timbro di voce di questi adolescenti smarriti, che vivono accanto a noi, mi sembrava tornare a risplendere una luce oscurata. Absalem, fuggito dal regime dittatoriale imposto da Ahmadinejad, dopo aver scelto Petrarca, mi ha confidato con gli occhi sgranati: “Non credevo che gli italiani fossero così tristi!” Si è messo in tasca il foglio protocollo come se fosse un trofeo e la sera, prima di addormentarsi nel Centro di pronta accoglienza della Caritas, dove è ospite, se lo sarà riletto non so quante volte, quasi per impararselo a memoria. Immaginando lui declamare ad alta voce, “Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno”, ho avuto l’impressione che la Patria non fosse più uno stereotipo.