Roma, Esquilino / Paesi e città
Dai tetti dell'Esquilino, a Roma, la chiesa di San Vito, a fianco dell'Arco di Gallieno, può far pensare alla prua di un vecchio naviglio arenato nella nuova Chinatown. I fedeli che partecipano alle funzioni religiose sembrano naufraghi riuniti attorno all'imbarcazione tirata a riva dopo il fortunale. È un effetto dello strapiombo storico che l'Urbe imperitura sa dispensare agli animi inquieti. Nella parete destra, accanto alla “Pietra scellerata”, sulla quale la tradizione vuole che fossero stati uccisi molti cristiani, risplende, dopo i restauri, l'edicola sacra rinascimentale attribuita ad Antoniozzo Romano, nel cui preciso disegno avverti ancora con forza la lezione dell'angelo impartita allo scolaro diligente da Melozzo da Forlì.
Nel piazzale retrostante l'ingresso i secoli hanno scavato un vortice di memorie: volti, nomi e date si affollano dentro di me insieme ai ricordi di quand'ero bambino e giravo intorno alla chiesa con la bicicletta numero dodici pedalando sui marciapiedi come oggi sarebbe impossibile fare. Alla fine sei stanco di questo mondo antico. Il verso, in cui mi sono rispecchiato, affiora alle mie labbra alla maniera di una litania. Non ho il tempo di collocarlo nei registri letterari: la Mercedes scassata di un nero africano chiede spazio per parcheggiare. Mi sposto e mentalmente proseguo: Ne hai abbastanza di vivere nell'antichità greca e romana / Qui perfino le automobili hanno l'aria di essere antiche.
Da quali profondità arriva questa voce?
Ma sì, come ho fatto a non ricordarlo? È Zone, il folgorante esordio di Guillaume Apollinaire. Quel poemetto, che realizzava il mirabile auspicio di Rimbaud (“Bisogna essere assolutamente moderni”), uscì novant'anni fa a Parigi, compreso in Alcools, e ricevette subito sul “Mercure de France” la feroce stroncatura di Georges Duhamel. Il titolo era stato scelto all'ultimo minuto, quando il libro stava per andare in stampa. Nella prima intenzione dell'autore avrebbe dovuto chiamarsi Eau de vie. Acqua di vita. Nel 1902 Apollinaire, per sfuggire alla solitudine, aveva visitato la cattedrale di San Vito a Praga dove, nel segno del martire cristiano fatto uccidere da Diocleziano, sembrò percepire una cupa premonizione a proprio danno: Ti sei visto disegnato nelle agate di San Vito / Eri triste da morire ne sei rimasto atterrito. Molti anni dopo, il 17 marzo 1916, alle quattro del pomeriggio, nella boscaglia di Berry-au-Bac, il poeta, sottotenente del 96mo reggimento di fanteria dell'esercito francese, verrà colpito alla tempia da un frammento di granata che, in seguito, gli costerà la trapanazione del cranio.
Tutte le strade conducono qui, in Via Carlo Alberto, nei pressi dell'antica Porta Esquilina. Era la fine dell'estate nel 1880. I piemontesi avevano appena riedificato il quartiere ricreando in questo colle della nuova capitale la classica scacchiera urbanistica sabauda coi palazzoni squadrati, le piazze e le vie intitolate ai protagonisti risorgimentali. Diversi cantieri saranno stati ancora aperti, gli operai circolavano nei dintorni, i materiali edilizi andavano e venivano, la polvere dei lavori avrà intriso l'aria quando, la mattina del 29 settembre, alla Chiesa di San Vito bussa una ragazza di ventidue anni. Ha l'aria affannata, il cipiglio deciso. Nel fagotto che stringe tra le braccia dorme o piange il futuro poeta, nato un mese prima. L'acqua benedetta sgocciola sulla fronte del bimbo.
La giovane donna si chiama Angelica Alessandrina Kostrowicka. Nata a Helsinfors, nella Finlandia russa, da padre polacco e madre italiana, vive da parecchi anni a Roma, dove la sua famiglia si era rifugiata in seguito al fallimento dell'insurrezione polacca. Educata nel convento delle Dame francesi del Sacro Cuore a Trinità dei Monti, Angelica ha un carattere impetuoso e, come si diceva allora, appassionato. Espulsa dal collegio per i suoi atteggiamenti ritenuti provocatori, la ragazza comincia a frequentare i salotti aristocratici romani dove conosce un gentiluomo napoletano molto più anziano di lei, Francesco Costantino Flugi d'Aspromonte, ex ufficiale borbonico, di cui diventa l'amante.
Il figlio di Angelica e Francesco vede la luce il 26 agosto 1880 a Trastevere, in una casa oggi scomparsa nei pressi di Piazza Mastai. Pochi giorni dopo una levatrice ne dichiara la nascita all'anagrafe del Comune di Roma, registrando il piccolo con il nome di Guglielmo Alberto Dulcigni. La donna dichiara altresì che i genitori vogliono restare sconosciuti. Ma il 26 settembre Angelica si presenta proprio qui, dove oggi ambulanti, barboni e turisti affollano la strada, chiedendo al parroco di battezzare Guglielmo Apollinare, in origine senza la i.
Entro nella sala rettangolare della chiesa di San Vito accompagnato dai versi del grande scrittore. Il padre andrà in America e di lui non si saprà più nulla. La madre proseguirà la sua esistenza equivoca e randagia in giro per i casinò di gioco europei. Guillaume Apollinaire diventerà famoso: sopravvissuto alla tremenda ferita di guerra, muore di febbre spagnola il 9 novembre 1918, a soli trentotto anni, all'ospedale italiano di Parigi, nel segno della terra da lui definita “madre dei miei pensieri”. Davanti al luogo dove venne battezzato il grande poeta ripeto dentro me stesso: E tu bevi quest'alcool che brucia come la tua vita / La tua vita che bevi come un'acquavite, così tradusse Giorgio Caproni.