Artpod / Jannis Kounellis, "Senza titolo", 1961

6 Maggio 2021
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Di questo dipinto a olio di Jannis Kounellis ci manca il titolo, come accade per la maggior parte delle sue opere: Senza titolo, distinte solo dall’anno di realizzazione. Ma se non possiamo nominarlo, possiamo sempre leggere le lettere e i numeri che sono riportati sulla sua superficie :  Z, 3, 3, S nella banda superiore, e E, S, S, 3 nella banda inferiore. Alcune lettere e alcuni numeri sono rovesciati, rendendo così difficile dire se quella che somiglia a una S sia veramente una lettera e non il numero 2. L’ambiguità non è sciolta. Non si tratta insomma di un esercizio di calligrafia, su questo Kounellis è chiaro, ma di una scrittura, di un esperimento verbo-visivo, del tentativo di scrivere su una tela in verticale e non sulla pagina di un taccuino.

 

Tuttavia, che si tratti di una S o di un 2, che tentiamo di leggere numeri e lettere in ordine inverso o, ancora – come una scrittura dell’Estremo oriente - dall’alto verso il basso, la sequenza alfanumerica non genera alcuna parola e il suo senso resta segreto – oggi diremmo criptato. Un segreto però che, anziché nascondersi, anziché sottrarsi, è esposto in bella mostra su una superficie lunga oltre un metro e mezzo e alta un metro e trenta, grande come una lavagna. Un segreto pubblico, visibile da ciascuno di noi spettatori che, oltre a recitare quanto è scritto sulla tela, riconosciamo nella fattura delle lettere e dei numeri un’estetica urbana: è quella dei cartelloni stradali, delle pubblicità, delle insegne dei negozi, della segnaletica stradale, della tipografia della stampa. Forse riconosciamo anche un’estetica archeologica, se pensiamo alle iscrizioni latine scolpite sulle facciate dei palazzi o sui basamenti, quei resti archeologici in cui s’inciampa ovunque a Roma e con cui l’artista greco aveva imparato a familiarizzare anche attraverso la mediazione delle stampe dell’amato Piranesi. 

 

Che siano vestigia del passato o frammenti del contemporaneo poco importa, in entrambi i casi il mondo esterno fa irruzione nello spazio dell’atelier dell’artista al centro di Roma e, di rimbalzo, sulla superficie bidimensionale della tela di lino bianca. 

Eppure questi segni, costretti all’interno di un medium classico quale la pittura, si spogliano di ogni necessità comunicativa e non significano nulla, non rinviano ad altro da sé, non danno accesso a uno spazio che si spalanca oltre, come il paesaggio attraverso una finestra. Che questi segni provengano dalla realtà metropolitana è evidente ma qui, stampati sulla tela dall’artista, si sono fatti pittura, e in quanto tale affermano la loro presenza. Una presenza così forte, così magnetica che resiste a sciogliersi in un senso compiuto. Kounellis è troppo legato a una visione dialettica della storia per risolvere l’immagine in modo univoco.

Come ci accorgiamo presto, complici di questa presenza sono i colori verde, giallo, rosso e blu, slavati come pastelli. Un uso cromatico raro nel giovane Kounellis che, in un primo momento, realizza una serie di dipinti usando solo il nero, colore dell’inchiostro. Il nostro Senza titolo risale al 1961, un periodo cruciale in cui nella capitale gravitano artisti che, cercando una via al di là di Fautrier, Burri e Fontana, diventeranno presto i protagonisti della stagione pop italiana.

 

A Kounellis non piaceva spiegare le sue opere. Ciononostante, sui suoi primi dipinti, ha lasciato alcune dichiarazioni in cui tiene a precisare che lettere, numeri e segni non vanno semplicemente osservati come qualsiasi figura che si staglia sullo sfondo di un dipinto ma vanno cantati, cantati ad alta voce. Così nella pittura s’insinua la temporalità, quella durata negata dal modernismo. La pittura diventa una cosa che si legge, un rituale se non una performance o un happening, e non è un caso l’interesse che mostrerà presto Kounellis per lo spazio della scena teatrale e per l’elemento drammaturgico.

In questo dipinto, la teatralità prende la forma di un canto. Un canto non melodico, che suona come una poesia dada di Kurt Schwitters, di quelle registrate dall’artista tedesco mentre s’impegna – e si diverte a morte – a disarticolare il linguaggio con cui commerciamo col mondo ogni giorno. Un canto che intona il giovane Kounellis quando, nel suo studio e alla galleria La Tartaruga, realizza quadri da indossare, recitare e suonare. Se abbandonerà presto la pittura, Kounellis si ostinerà per tutta la vita a voler essere considerato un pittore, uno sui generis, la cui pittura richiama, oltre alla vista, anche la parola e l’ascolto.

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