Kamala, Trump e il gatto

16 Settembre 2024

Bianco/nero. Uomo/donna. Città/campagna. Qui non si parla di diritti o di riforme. In casa democratica la partita si gioca su piano più sfuggente, che delude chi ancora considera la politica una cosa seria ma ogni giorno sui social delizia milioni di persone. Non c’è niente da capire, almeno a prima vista. Si scrolla, si guarda, si ride. Kamala e Tim si fanno i selfie. Si scopre che lei adora i Doritos e a Natale cucina le verdure. “Bacon e aceto”, raccomanda. Lui divora una costoletta di maiale. “La colazione dei campioni”, garantisce. Il grasso cola, i like fioccano, i meme si moltiplicano. E sul filo del sorriso un nuovo linguaggio si fa strada e una girandola di pregiudizi finisce in cenere.

L’obiettivo è rosicchiare le fette più coriacee dell’elettorato: gli uomini, soprattutto i giovanissimi che le statistiche mostrano assai più conservatori delle coetanee; la working class massacrata dalla deindustrializzazione; gli over 40; le zone rurali e le periferie; il Sud e la Rust Belt; i bianchi conservatori e la variegata galassia delle chiese. In altre parole, l’America di Trump. Quella metà del paese che si sente ignorata da Washington, è stufa marcia di essere governata dalle élite di Yale e Harvard. Quella che oggi considera Harris troppo progressista e poco credibile su questioni cruciali come i prezzi alle stelle o l’immigrazione.

All’indomani del primo e forse ultimo dibattito presidenziale, gli opinionisti hanno aggiudicato la vittoria a Kamala Harris e le donazioni al partito democratico si sono impennate. Vincere un dibattito non significa però vincere le elezioni, come ha imparato a sue spese Hillary Clinton che nel 2016 era uscita vittoriosa dai confronti con Trump. Ed è sempre meglio non dimenticare che Trump è stato il 45esimo presidente degli Stati Uniti: metà del paese ha votato per lui e oggi potrebbe rifarlo. I sondaggi, che fino al giorno prima davano i due candidati stretti in un testa a testa, oggi danno uno spostamento a favore dei democratici. A sette settimane dall’Election Day, mentre in molti stati già si vota, la corsa però rimane aperta: lei è in vantaggio ma lui ce la può fare. Lui scommette sulla rabbia. Lei sulla speranza.

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Ma se il copione di Trump è risaputo, quello di Harris è un work in progress fresco e irriverente, che potrebbe riservare parecchie sorprese. Nella rincorsa alle definizioni, l’hanno chiamata “la politica della gioia” dove per noi italiani il rimando è alla gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto che allora non era finita gran che bene. Se n’è parlato come di un’ottima strategia “antinfiammatoria” per un paese spaccato, l’arma migliore contro il fascismo: un’elisir di lunga vita contro l’umor nero di Donald Trump e la cupezza neo-patriarcale di JD Vance. I dubbi però non mancano. “Perché Trump è ancora competitivo negli swing states nonostante tutta questa ‘gioia’ emersa dalla Convention democratica?” si domanda sul New York Times Bret Stephens. “Per me, continua questo suggerisce che gli americani hanno ancora molti dubbi su cosa potrebbe portare una presidenza Harris e che Trump ha un profondo bacino di sostegno nascosto che i sondaggi non catturano”. Il problema suggerisce, è che Kamala Harris non ha un programma preciso. Anzi, è vaga al punto da risultare vacua.

Ma forse è proprio questo il punto e il dibattito è la conferma. Il programma di Harris è così scarno e generico da richiamare ampie fasce di moderati: tutela dei diritti riproduttivi, difesa della middle class, no a Trump. I temi più controversi, dal cambiamento climatico alle politiche energetiche ai diritti Lgbtq, trovano traduzioni morbide come il diritto all’aria e all’acqua pulite o la libertà di amare chi si vuole. Il resto, dal costo della vita all’immigrazione, sfuma nella nebbia delle buone intenzioni e in un appello all’unità del paese. Siamo tutti americani, è il leit motiv. We’re all in this together.

In questa chiave la politica delle identità, finora imprescindibile, fa un passo indietro e così il bagaglio arcigno del woke, con le sue censure e i tormentosi processi alle intenzioni. I toni si alleggeriscono e i riferimenti cambiano. “We're not going back” è lo slogan, “Non torneremo indietro”. E in direzione del futuro si fa appello a un’America finora trascurata dalla narrativa dem il Sud e le aree rurali. L’America che sulle coste spesso si liquida con disprezzo come la “flyover country”, quella che si vede solo dall’aereo perché non c’è alcuna ragione di andarci, quella che lo stereotipo dipinge arretrata, razzista, retrograda: il mondo di Trump, un pianeta senza speranza.

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Per agganciarla entra in scena la musica country, finora associata ai comizi di Trump e ai bianchi conservatori. Insieme alle star del pop e del rap, sul palco della Convention democratica salgono Mickey Guyton e Jason Isbell, che si esibisce con l’inconfondibile accento strascicato del Sud davanti all’immagine di un fienile su cui splende la bandiera americana. “È difficile non pensare che questo rappresenti una nuova comprensione da parte democratica, del fatto che i liberali non si limitano ad ascoltare i successi pop in streaming e che la gente del Sud, i residenti dell'Appalachia e in generale quanti nelle piccole città ascoltano musica country e roots spesso credono anche in cose come i diritti umani fondamentali”, nota Marissa R. Moss su Rolling Stone. Se si considera che il country quest’anno ha trionfato nelle classifiche pop è anche un capolavoro di tempismo.

E in omaggio alle infinite piccole città di cui è fatta l’America che non sono New York né San Francisco ma coltivano con orgoglio il senso di comunità, le radici e la speranza, Tim Waltz, già assistente allenatore di football alle superiori, diventa il “coach” nazionale. Dove il rimando è al popolare protagonista di Friday night lights (1990), il best seller di H. G. Bissinger da cui è stata tratta l’omonima serie tv, che racconta una sperduta cittadina nel nordovest del Texas in cui l’unico sogno è la partita di football del venerdì sera.

A un quarto di secolo dalla pubblicazione, resta uno dei libri più letti dagli studenti di high school e uno dei testi che meglio catturano quel misto di isolamento, dignità e voglia di futuro che anima tanta parte del paese. A sottolineare il concetto, Tim Waltz alterna giacca e cravatta alla divisa working class: giaccone sdrucito, camicia di flanella e il cappellino mimetico subito diventato parte del merchandising democratico. Viene dal mondo rurale e come milioni di americani, racconta, è stato un cacciatore. E con buona pace di Trump, secondo cui Harris “confischerà le vostre armi”, anche lei possiede un’arma da fuoco (“per ragioni di sicurezza personale”). Negli Stati Uniti, dove 40 per cento della popolazione vive in una casa dove ci sono delle armi, la portata del messaggio è immensa.

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In questa dimensione, l’identità di Harris anziché il cardine della candidatura diventa un semplice dato di realtà. È donna, è di colore. Io sto bene così e per il resto fate voi, aveva annunciato lei a Vogue dopo l’elezione a vicepresidente. Sarò il presidente di tutti gli americani, ribadisce appena può e la mente corre alla lezione di Obama, il primo presidente afroamericano degli Stati Uniti.

Non per caso, nel discorso alla Convention democratica Harris si riferisce alle origini solo in via indiretta: evocando la madre Shyamala immigrata dall’India e il padre di origini giamaicane. Eppure, è il sottinteso, eccomi qui. L’immigrata di seconda generazione che oggi si propone alla carica più alta e prestigiosa del Paese – l’incarnazione vivente dell’American Dream. E se nel 2016 Hillary Clinton si era ripromessa di mandare in frantumi l’ultimo soffitto di cristallo, Harris declina la carta del genere in altro modo.

In quel discorso la parola donna non è mai evocata anche la difesa dei diritti riproduttivi, uno dei suoi leit motiv, torna con vigore. Qui non si tratta di rovesciare il patriarcato né di decidere se eleggere un uomo o una donna, è il sottinteso, ma di scegliere la persona migliore per il lavoro da fare.

Quando Hillary, allora aspirante First Lady, aveva annunciato nel 1992 che non andava alla Casa Bianca a fare i biscotti, l’aveva pagata cara in termini di popolarità: una certa America fatica a schiodarsi dal cervello l’immagine più tradizionale della donna la mamma, moglie, regina dei biscotti. Harris imbocca dunque un’altra strada. È stata pubblico ministero, senatrice, vicepresidente ma non  ne fa un proclama. Lascia che la sua carriera parli per lei. S’inoltra senza batter ciglio in territori considerati “maschili”, difesa, politica estera, criminalità, ma nessuno può accusarla di scimmiottare gli uomini.

La sua divisa sprizza femminilità: perle, camicie con il fiocco, messa in piega. Usa il sorriso, il garbo, il calore degli abbracci. Parla della famiglia, del marito, delle nipotine, disquisisce di ricette. È arrivata al top ma come Tim è una come noi e si districa tra vita, lavoro e impicci quotidiani.

Nulla di più lontano dallo stereotipo della “angry Black woman”, la donna nera arrabbiata, ostile e aggressiva una delle accuse più spesso rivolte in passato a Michelle Obama. Nulla di più lontano dalle gattare senza figli a cui secondo JD Vance sono affidate oggi le sorti del paese. In tutta questa storia, la sola Childless Cat Lady è la popstar Taylor Swift che così ha firmato il suo endorsement a Harris. A ribadire il concetto, una foto di lei in posa con il suo favoloso gatto Benjamin Button. Risultato, 11 milioni di like alla faccia di JD Vance e una colossale strizzata d’occhio ai gatti di Springfield, Ohio – dove, dice l’ultima bufala di Trump, gli immigrati haitiani divorano i cani e i gatti.

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