Oliviero Toscani fotografo frainteso

13 Gennaio 2025

Toscani non mi ha parlato per dodici anni, dal 14 aprile del 2000 al 2012. Negli anni precedenti - lo avevo conosciuto nel 1988 - ci sentivamo quotidianamente, due, quattro, sei volte. Per molto tempo ci siamo visti tutti i giorni. Il nostro era un dialogo continuo, alimentato non solo da questioni di lavoro, ma oggi mi rendo conto che non esiste niente come il lavoro a cementare un rapporto che, da professionale, fa presto a diventare amicizia, con la stima che diventa affinità di vedute, la complicità confidenza, la familiarità affetto. Quel 14 aprile del 2000 c'ero solo io mentre Oliviero metteva in una scatola le poche cose che aveva nel suo grande ufficio a Fabrica, il centro di ricerca sulla comunicazione che lui stesso aveva contribuito a fondare nel 1993: se ne andava dalla Benetton, dopo diciotto lunghi anni di lotte. Non avrei mai creduto che fare pubblicità per una grande azienda multinazionale volesse dire combattere battaglie quotidiane, all'interno, con i colleghi, e fuori, con i media e un'opinione pubblica schierata, il più delle volte ostile. Ripercorrendo le sue campagne di quegli anni, è facile intuire che non fosse stato facile far passare quelle immagini: sul razzismo, sulla tragedia dell'Aids, sulla mafia, sulla guerra, sulla pena di morte. Quell'aprile del 2000 veniva dopo l'ultima campagna, lanciata nel gennaio precedente, con i ritratti di undici condannati a morte, fotografati da Oliviero nelle carceri americane. Una pubblicità che aveva di nuovo riportato la Benetton sui telegiornali e sulle prime pagine dei quotidiani di tutto il mondo, ancora una volta per chiedersi quali erano i limiti etici di un'impresa quando usava i budget destinati alla pubblicità per promuovere cause sociali. Ero solo io a stargli appresso quel fatidico giorno, nel silenzio, mentre svuotava un cassetto, prendeva un libro, chiudeva il pc. Prima, quando si muoveva a Villa Minelli, a Ponzano, o a Villa Pastega, a Villorba, aveva sempre qualcuno che lo rincorreva, uno stuolo di allievi, le ragazze dell'ufficio stampa, giornalisti. Quel giorno non c'era nessuno. Faceva tutto velocemente, come se avesse fretta di andarsene. Oliviero faceva sempre tutto velocemente, lavorava velocemente, pensava velocemente: aveva la capacità di rivoltare il senso comune in un attimo, spiazzandoti e mostrandoti un avvenimento, una frase, una fotografia da un altro punto di vista, il suo, che non era mai scontato. Ci siamo abbracciati con le lacrime agli occhi. Non lo avrei più visto né sentito per dodici anni: qualcuno doveva essere andato a riferirgli che in quell'ufficio che era stato il suo mi ero installato io.  Repubblica scrisse che Fabrica passava nelle mani del dirigente preposto alla pubblicità e fece il mio nome: Oliviero ebbe per certo la conferma di una nuova vittoria della burocrazia dei manager, contro cui si era sempre scagliato. Come se qualcuno potesse mai anche soltanto immaginare di sostituirlo. Ma io ero stato graziato da lui dall'inizio, fu lui che mi aveva portato in Benetton: mi regalò la copertina del mio primo libro e mi disse da subito che non gli sembravo un manager come gli altri e che in Benetton c'era bisogno di persone come me. Non mi ero mai sentito così gratificato. E ora non mi parlava più, ma io non ero cambiato, ero sempre lo stesso. Non mi prendeva al telefono. Gli scrissi. Non mi rispose mai. Una volta lo incontrai per caso in aeroporto, gli andai incontro: si voltò ostentatamente dall'altra parte. Non mi aveva chiesto di andare a lavorare con lui ma si aspettava evidentemente che io lasciassi la Benetton, per solidarietà. Io, che mi sentivo ingenuamente investito della missione di portare avanti il lavoro che lui aveva iniziato, stavo tra l'altro per avere il terzo figlio, che sarebbe nato a ottobre. Dove andavo? Cosa avrei fatto? Cosa sarebbe successo di quel campo che lui aveva seminato per diciotto anni? Benetton coincideva con Toscani, la sua impronta era stata talmente profonda per quasi vent'anni che il marchio non aveva perso soltanto il suo direttore creativo, rischiava di perdere la sua identità. Ma Oliviero avrebbe preferito che quell'esperienza si chiudesse per sempre con il suo addio. Per uno strano scherzo del destino, in questi ultimi giorni della sua vita, Benetton annuncia la chiusura di Fabrica, che era comunque finita da quando lui lasciò. 

 

 

C'è la mitologia sul suo carattere impossibile, che sarebbe secondo il luogo comune la caratteristica dei geni, ma è il rivendicare di essere un fotografo commerciale, senza complessi, che testimonia della sua grandezza. Ci sono altri, famosi, che hanno dedicato parte della loro professione alla fotografia pubblicitaria, ma sempre con il distacco dell'artista che si considera tale e che si concede una parentesi per fare cassa. Oliviero si applicava a un marchio di moda pronta con la precisione del tecnico ("Ricorda: quando si fotografa una scarpa, mai dal lato interno"): sono un fotografo - ripeteva - non mi interessa nobilitare il mio lavoro con l'arte, non cerco il salto di qualità nel cinema. I maglioni sono tutti uguali, diceva per convincere Luciano Benetton, che per altro lo capiva alla perfezione: se vuoi continuare a vendere i tuoi devi raccontare alla gente qualcosa di interessante. Così lo convinse a costruire Fabrica, chiamando Tadao Ando per l'architettura, Godfrey Reggio come direttore, Marco Muller come capo della sezione cinema, Michael Galasso e poi Andrea Molino per la sezione musica, Tibor Kalman come direttore di Colors, una rivista-palestra per giovani talenti del giornalismo, della grafica e della fotografia. In quegli anni giravano a Fabrica scrittori come Tahar Ben Jelloun, David Grossman, Aldo Busi, Predrag Matvejevic', Gilles Lipovetsky; Susanna Tamaro e Banana Yoshimoto, che scrissero le introduzioni a due cataloghi; registi come Aleksandr Sokurov, Gianfranco Rosi, Samira Makhmalbaf, Danis Tanovic (che vinse l'Oscar come migliore film straniero con No Man's Land, co-prodotto da Fabrica), musicisti come Peter Gabriel, designer come Philippe Starck. Toscani indirizzava la Benetton verso la produzione di cultura come forse si era visto solo, nel passato, con il caso di Olivetti. E lo faceva con uno sguardo rivolto alla cultura internazionale. Molti degli allievi di Fabrica di allora sono oggi celebri: James Mollison nella fotografia, Jaime Hayon nel design, Nico Vascellari, Adam Broomberg e Oliver Chanarin nell'arte. Fuori, i pubblicitari scrivevano libri con titoli ridicoli: Jacques Séguéla, che passava per essere un genio, aveva pubblicato  Non dite a mia madre che faccio il pubblicitario. Lei mi crede pianista in un bordello. Oliviero non sopportava la retorica del pubblicitario "disruptive", come si diceva allora, sfotteva la professione e i direttori creativi "manco fossero il Padre eterno", lo infastidiva la pubblicità tradizionale che sprecava denaro e possibilità per convincere i consumatori a comprare qualsiasi cosa. I consumatori - odiava questa parola - per Toscani erano persone, esseri umani con cui parlare, non gli interessava convincerli a fare alcunché. Non aveva niente contro le merci e il loro consumo, se consumare era una delle attività della vita, non la principale. 

La sua più celebre campagna, nella quale utilizzò una foto non sua, fu quella del malato di Aids sul letto di morte, circondato dalla sua famiglia (1992). L'immagine, della fotografa americana Therese Frare, era stata pubblicata su Life e aveva vinto un Pulitzer. Ma sembrava che nessuno l'avesse vista prima che Oliviero la scegliesse per promuovere la Benetton, mettendoci sopra il marchio verde dell'azienda. Sfruttare il dolore per vendere maglioni, cattivo gusto, mercificare qualunque cosa: le accuse piovvero violente, in tutto il mondo. Pierre Guislaine scrisse su Le Monde Diplomatique che eravamo "anarchici di destra", che l'unica differenza con i fascisti alla Le Pen sarebbe stata "la valorizzazione del negativo" che la Benetton operava con le sue scelte di comunicazione. Tra i commenti più conformisti si distinsero gli inglesi, con il Sunday Times in prima linea a istigare al boicottaggio della Benetton: "The only way to stop this madness is to vote with our cash". E il più sarcastico tra gli scatenati detrattori – che annoveravano nomi importanti del giornalismo dell'epoca come Miriam Mafai in Italia o Françoise Giroud in Francia – fu appunto un giornalista inglese trapiantato in Italia, Tim Parks, uno di quelli che arrivano nel nostro paese con il complesso di superiorità dei colonizzatori, quelli che hanno capito di più e meglio di tutti gli altri e scrivono libri sulle abitudini degli italiani "visti da un inglese", mettendo in fila stereotipi per noi rimasticarli fino alla noia, la pizza, le corna, la Vespa per intendersi: ci eravamo sbagliati scambiandolo per uno fuori dal coro e lo portammo con noi a Corleone, dove Oliviero scattava un catalogo con i giovani corleonesi, per ribadire che le nuove generazioni di quella città siciliana non avevano nulla a che spartire con la mafia. Ma l'antropologo british vide nella pubblicità Benetton, tra tutto quello che avrebbe potuto vederci, il contrario di quello che il mondo intero ci vedeva: "solo immagini afflitte da una omologazione ossessiva" e lo scrisse addirittura in un libretto Adelphi, dove più che altro si esercitava nell'adulazione del suo editore, del quale il nostro traduceva i libri in inglese e che aveva evidentemente trovato il modo di ringraziarlo pubblicandone uno suo. Facemmo in tempo a sorriderne con Oliviero: con Le Monde, Il Times e perfino Adelphi la triviale pubblicità aveva infranto il muro della cultura alta, il pamphlet era uscito poco prima che lui chiudesse con Benetton. Toscani era spesso frainteso, non solo dagli inglesi, perché è sempre difficile abbandonare le convenzioni a cui siamo abituati per spostarci nei territori più impervi di quello che ancora non conosciamo: si preferisce rifugiarsi in ciò che sappiamo già, per esempio sulla pubblicità, molto più rassicurante se fatta poggiando sui cliché che la innervano da sempre e che perdurano anche oggi. Ma intanto scrivevano di lui, tra gli altri, Toni Negri, Régis Debray, Peter Halley, Spike Lee, Roy Lichtenstein, Andres Serrano, Harald Szeemann: sessantotto interventi di rappresentanti della cultura francese, tedesca, italiana, americana raccolti nel volume Benetton par Toscani edito dal FAE (Muséé d'Art Contemporain Pully/Lausanne, a cura di Chantal Michetti-Prod'Hom,1995), David Bowie incominciò la sua canzone Black tie white noise così: "Getting my facts from a Benetton ad...". Non fu un caso che toccasse ai Musei e ai curatori internazionali capire l'impatto che la pubblicità di Toscani aveva nell'arte. Per tutti vale ricordare Achille Bonito Oliva che lo chiamò a esporre alla Biennale di Venezia nel 1993. Giovanni Agosti scrisse invece una splendida introduzione a Facce pubblicato da Castelvecchi (1997). Sue mostre poi nei musei di arte contemporanea a Losanna, a Parigi, a Milano e, recentemente, nel 2024, a Zurigo. Non si può non ricordare la passione civile che ha sempre animato il lavoro di Toscani, sia che salisse giovanissimo a Barbiana per fotografare don Milani con i ragazzi della scuola, accompagnato da suo cognato, Giorgio Pecorini, sia che fotografasse per Benetton o Prenatal o che si recasse a Sant'Anna di Stazzema per scattare primi piani ai sopravvissuti della strage nazifascista avvenuta in quel paesino nell'agosto del 1944 (è un volume fotografico di Feltrinelli). Tra i suoi libri Casting Livorno (Electa, 1998), il ritratto di una città che amava attraverso i suoi abitanti, e l'autobiografia Ciao Mamma (Mondadori, 1995).

  

All'inizio del 2013 mi feci coraggio e chiamai Oliviero proponendogli una campagna per un cliente importante. Mi rispose. Ripresero i nostri rapporti di lavoro, di amicizia e di affetto come se quei dodici anni di vuoto non fossero mai esistiti. Di quel lungo silenzio, non ne abbiamo mai parlato. Il 1° dicembre del 2024 - l'anno scorso, ma è poco più di un mese fa - sono stato a trovarlo a Casale Marittimo. Kirsti, sua moglie, mi ha portato subito da lui. Non me lo aspettavo: pensavo avremmo fatto prima due chiacchiere tra noi, non ci vedevamo da molto tempo. Non ero preparato e quando me lo sono trovato davanti penso di non essere riuscito a nascondere la mia commozione. Aveva perso oltre quaranta chili, gli si erano imbiancati i capelli e parlava a fatica. Gli ho tenuto a lungo la mano nella mia, la sua mano inerte, ormai incapace anche di fare clic sul telefono per rispondere. Ma poi abbiamo parlato di tante cose, gli ho portato i saluti di molti amici, gli ho letto il pezzo che avevo scritto su "Testimonianze", uno dei fascicoli sulla Nuova Fotografia che rimane il suo ultimo lavoro e che aveva voluto affidare a me e a Marco Montanaro per le parole, gli ho raccontato della mostra di Fiorucci e di quella di Gae Aulenti alla Triennale, l'ho intervistato per il Foglio della Moda sul concetto di forza e mi ha detto come al solito cose non scontate. Mi sono sforzato di portargli un po' di vita da fuori. Sono passate più di due ore durante le quali ha pranzato - pastina in brodo, yogurt e banana - poi ci siamo salutati con la promessa che sarei tornato presto a trovarlo. 

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