Kill Bill (Viola)
Un fiore caduto
Che tornava sul ramo?
Era una farfalla
Arakida Moritake (1473-1549)
Oggi
Bill Viola è senza dubbio il video-artista più amato dai musei italiani. Delle loro collezioni la sua opera sembra essere un simulacro. In questi ultimi anni, ad esempio, non ha esposto soltanto al Museo Gucci di Firenze (Amore e morte, 2011) o a Villa Panza (2012). A Capodimonte (2010) e al Museo Tuscolano di Frascati (About Caravaggio, 2012) dialogava con Caravaggio; a Palazzo Te a Mantova con Giulio Romano (The Raft, 2013); a Palazzo Fortuny con Wagner (Fortuny and Wagner, 2013); nell’ex chiesa di San Pier Scheraggio e in seguito negli Uffizi coi ritratti del corridoio vasariano. Senza dimenticare il Duomo di Milano (2004), la Chiesa di San Gallo di Venezia (Ocean Without a Shore, 2007), lo Spedale di Santa Maria del Buon Gesù a Fabriano (Poiesis, 2009). All’estero sembra prevalere un approccio più profano, come dimostra la retrospettiva organizzata dal Grand Palais di Parigi (fino al 21 luglio).
Real time
Sono andato troppo di corsa. Nella linearità del tempo s’insinua infatti un’altra temporalità, quella della memoria e dell’esperienza soggettiva. Il 2014 è abitato da fantasmi che reclamano d’essere considerati, fosse pure in forma di flashback.
Al tempo di TV Buddha (1974), Nam June Paik affermava: “La vecchia teoria della ‘mimesi’ secondo cui la scultura imita le forme, la pittura gli idoli, la musica il canto degli uccelli m’impensieriva. Così mi sono chiesto: ‘Cosa imita l’arte del video?’ e ho capito che non imita altro che l’essenza del trascorrere del tempo”. Non il tempo lineare, sembra rispondergli Gary Hill in un’intervista del 1993, ma “un movimento legato al pensiero, una topologia del tempo accessibile”. Insomma, per citare il titolo di una mostra del 1996 sulla proiezione video all’Albright-Knox Art Gallery nonché il primo libro di Heidegger, Essere e Tempo. Sulla stessa lunghezza d’onda Bill Viola, che nel 2003 confida ad Hans Belting: “Una delle cose che il video mi ha insegnato […] è che non lavora soltanto con la natura e la funzione delle immagini visive. L’essenza del medium è il tempo. La ‘forma-tempo’ di un lavoro è indefinibile ma reale. E’ qualcosa di viscerale, un carattere che viene all’esistenza ogni volta che realizzo immagini in movimento”. Di affermazioni simili abbondano i suoi scritti e le interviste.
Ascension, 2000
Il video è in grado di registrare il tempo reale e di trasformarlo in immagine, di offrire una continuità incessante, senza intervalli, agli antipodi del montaggio cinematografico. E la temporalità qui in gioco è quella propria del video ma anche quella del nostro tempo biografico. Che i video di Bill Viola restituiscano, di riflesso, le fluttuazioni delle nostre inclinazioni estetiche, dello sguardo che portiamo su queste immagini in movimento?
Primo flashback (1993)
Primi anni novanta. Allora consideravo Le porte regali di Pavel Florenskij come il caposaldo per comprendere l’astrazione pittorica. Nel 1995 Bill Viola espone alla Biennale di Venezia (Buried Secrets). All’epoca esisteva per me: da una parte la storia dell’arte – più il fatto che l’arte avesse una storia che la disciplina universitaria – e quello che vedevo nei musei, dall’altra il cinema dei cineclub o dei VHS che affittavo per passare l’esame di storia del cinema o il fine settimana. Intuivo che queste due esperienze visive andassero pensate congiuntamente ma non sapevo come articolarlo. Scoprire Bill Viola mi fece così una grande impressione.
Secondo flashback (2003)
Primi anni duemila. Allora consideravo Painting as Model di Yve-Alain Bois come il caposaldo per comprendere l’astrazione pittorica. Nel 2003 The Passions di Bill Viola apre alla National Gallery di Londra dopo la tappa al Getty di Los Angeles.
In allegra trasferta con un gruppo di amici, storici dell’arte italiani oggi naturalizzati parigini, visitammo la mostra da bravi scolari. Giunti davanti a The Quintet Series, la nostra attenzione fu rapita dai cinque personaggi che si muovevano con movimenti appena percettibili. Finché scoppiammo all’unisono in una risata fragorosa. Un po’ per esorcizzare la stanchezza del nostro tour de force londinese, passammo la serata impegnatissimi ad improvvisare diversi remake del tableau vivant, con variazioni sempre più goliardiche e dementi che avrebbero dispiaciuto molto Viola. Come se Tony Oursler realizzasse una sorta di Erasing Bill Viola. Il ricordo è così vivo che ancora oggi, alla pronuncia del nome dell’artista, ci mettiamo tutti a sghignazzare.
Fire Woman, 2005
La visita londinese, l’ho capito col tempo (per l’appunto), segnò uno spartiacque fondamentale se non il manifestarsi di una schizofrenia produttiva. Da una parte, i video di Viola erano la continuazione più riuscita della pittura con altri mezzi. Leggere le pagine di Jean-Luc Nancy sulla Visitazione di Pontormo (Visitation (de la peinture chrétienne), Galilée, 2001) e vedere The Greeting (1995) di Viola esposto nel 2001 vicino all’originale a San Michele a Carmignano, oppure vedere Emergence (1995) di Viola e la Deposizione di Masolino faceva parte dello stesso regime estetico.
Dall’altra parte, c’era una vocina malefica, una resistenza o uno straniamento rispetto all’esperienza estetica – ed estatica – in cui Viola voleva coinvolgerci, mista a una voglia pazza di sconsacrare l’Altare sacro con una dissacrante risata dada. Sobillatore di questo secondo atteggiamento era, nel mio caso, la cricca di “October”, da cui non ho smesso d’imparare a pensare le immagini. Qui Bill Viola, come la Spinaceto di Nanni Moretti, viene sempre introdotto nei discorsi per parlarne male: “determinismo tecnologico”, “romantico sublime”, “sublime tecnologico”, “risublimazione del pittorico”, “bewitching mysticism” o misticismo incantevole.
Going Forth By Day, 2002
Tradotto, Viola ricostituisce un’esperienza auratica attraverso un dispositivo digitale o un medium derealizzato, uno sviluppo inatteso delle installazioni minimaliste e dei loro effetti fenomenologici. Usando il video come un pennello, Viola imbocca la strada del pittorialismo. Come se la massima ambizione di questo nuovo mezzo di registrazione del tempo fosse quella di tornare alla tradizione degli affreschi, di ricreare la cappella degli Scrovegni, non a caso modello d’installazione per l’artista. Neanche lo slow motion dei suoi video passa inosservato: ritardando l’azione, inchiodando lo spettatore, strutturando una temporalità sospesa tra cinema e pittura, l’effetto visivo è quello “di irrigidire la superficie dell’immagine in un involucro impenetrabile, come un corpo blindato che sembra deviare il nostro sguardo” (Branden Joseph).
Sono critiche poco inclini ad analizzare le reazioni degli spettatori – e quelli di Viola sono legioni –, il rapporto stretto che instaurano con i suoi ambienti video. Se prendono delle scorciatoie, considerando che l’opera di Viola rilevi da una sostanziale mistificazione, mostrano ciononostante un nervo scoperto.
Tecno-misticismo
Presto cominciò a sorprendermi il fatto che, in sintesi, più le soluzioni tecniche si fanno sofisticate, più il lavoro di Viola si rinsalda alla tradizione artistica. Siamo agli antipodi di una tensione arte/tecnologia, di un discorso nostalgico sull’aura dell’opera d’arte minacciata dal plesso mediatico, di un contraccolpo artistico alle spinte alla modernizzazione nelle società capitaliste. Al contrario, le due vanno a braccetto, si sostengono a vicenda, in un “tecno-misticismo” che risale almeno all’invenzione della fotografia e conosce una declinazione utopica nelle pratiche artistiche degli anni sessanta-settanta. Per semplificare, l’opera di Viola sembra funzionare grazie all’equazione “più tecnologia, più spiritualità”. La sfera estetica, tecnologica e mistica si fondono una nell’altra per offrire un entertainment spirituale ad altissima definizione e indubbiamente ammaliante.
Going Forth By Day, 2002
Rispetto ad altri artisti che usano il video, persino rispetto ai fanatici dell’alta fedeltà (da Gary Hill a Sam Taylor-Wood), Viola mostra una fede incrollabile nelle possibilità espressive – e spettacolari – del suo medium. L’apparato tecnologico non è mai tematizzato in sé in quanto è supposto funzionare alla perfezione, come se si trattasse di un interfaccia. E il mito dell’interfaccia è di rendersi invisibile, di smaterializzarsi, di compiere pienamente la sua virtualizzazione in modo da non interferire con l’esperienza del suo utente. Le superfici video di Viola – assieme schermi e specchi – sono tra le più “user friendly” che conosca. Di conseguenza, quelle in cui si rendono più evidenti le ambiguità dell’immersione delle installazioni video, o quello che ho chiamato altrove “il corpo perverso del flâneur”.
È assente l’esitazione critica, anti-modernista, circa le possibilità e i limiti del medium, su cui ha insistito ad esempio Anne Wagner a proposito di Vito Acconci (“Video, and the Rhetoric of Presence”, in October, 91, inverno 2000), o quella che Gary Hill ha chiamato “techknowledgy”, la fallibilità della conoscenza tecnologica. Di rado s’insinua il dubbio che i dispositivi tecnologici falsifichino, compromettano, alienino o perlomeno trasformino il messaggio apertamente spirituale veicolato da Viola.
Così presi ad interessarmi ai lavori di Viola in cui questo rapporto con la tecnologia è allentato, in cui si apre una fessura nella glaciale aderenza tra il medium e l’immagine, o in cui sembrano affiorare piccole incongruenze. Penso agli esordi a Firenze con art/tapes/22 tra il 1974 e il 1976; a un’installazione come Il Vapore (1975); all’artista che spara col fucile nelle strade deserte di Manhattan una domenica mattina (Truth Through Mass Individuation, 1976); a Reverse Television, quarantadue video di trenta secondi ciascuno in cui la telecamera inquadra delle persone sedute sul divano del salotto mentre guardano sommessamente lo schermo della televisione, a Boston e dintorni; ai video per il tour dei Nine Inch Nails nel 2000.
Terzo flashback (2005)
Nel 2005 il Théâtre de l’Opéra di Parigi mette in scena un Tristano e Isotta coi video di Viola, due pannelli laterali simili a Surrender. Ricordo un’intensa conferenza a Palais Garnier, sotto la volta kitsch di Chagall, in cui il regista Peter Sellars non riusciva a trattenere l’emozione raccontando la storia di Tristano e Isotta, come se parlasse di suoi amici d’infanzia. In un breve reportage scrivevo, non so con quanto trasporto, che “l’aspetto tecnologico è teso non al raffinamento degli strumenti di registrazione visiva, quanto all’auscultazione dell’esperienza e del sentire umano”. Ma la mia impressione era che il matrimonio tra Wagner e Viola non funzionasse fino in fondo.
Quarto flashback (2008)
Si trattava di una premonizione. Nell’inverno 2008 – l’anno della mostra Tracés du sacré al Pompidou, un fourre-tout in cui figurava ovviamente Viola –, di passaggio a Roma visitai la personale di Viola, Visioni interiori, al Palazzo delle esposizioni. Kira Perov, nel triplo ruolo di compagna dell’artista, suo executive director nonché curatrice della mostra romana, così spiegava il titolo: “Entrare nello spazio di Bill Viola vuol dire rientrare nel proprio spazio interiore: un luogo insieme pubblico e privato”. Di seguito rivelava al lettore momenti indimenticabili trascorsi col compagno, quali: “rimanere seduti insieme a una mandria di bisonti immobili come l’eternità sulle lussureggianti colline verdi; sollevare un pesce morto dalle acque di un lago per farlo volare in estasi al di sopra delle montagne nei suoi ultimi momenti prima di dissolversi nella terra” e così via.
Già, quanti bisonti, quanti estatici pesci volanti, quanti ricordi – del resto il percorso iniziatico della mostra romana era “un viaggio creato per chi è alla ricerca del Sé”. Si cominciava con The Crossing: “Per questa ricerca il corpo non serve più, possiamo bruciarlo o annegarlo. Dopo esserci spogliati del corpo possiamo arrenderci alla nostra missione (Surrender) e alla consapevolezza di potere nello stesso tempo morire e nascere (Emergence)”. “Ecco di nuovo il tema della resurrezione e del rinnovamento: immerso in un utero d’acqua, contenitore dell’incontenibile, in Ascension il Sé nasce e rinasce. E’ molto fragile”. Finché il corpo si disintegra per davvero (Bodies of Light), “ma questa volta tutto scompare in un lampo di luce. La prima parte si è conclusa, noi siamo davvero qui?”.
Presente, Signora Perov! io c’ero tutto, in carne ed ossa. Che spettatore sciocco, fatuo e disubbidiente che fui. Il mio corpo ottuso non fu bruciato, annegato, spogliato, arreso, morto, rinato, scomparso. Nessun utero acquoso purtroppo mi si parò davanti per rigenerarmi. Riprovai il rito di passaggio con la seconda parte della mostra, ma le cose non andarono meglio: “Talmente fragile quest’esistenza, talmente fragile varcare la soglia, solo un passo oltre una parete d’acqua, trasparente (Ocean Without a Share), ed eccoci di nuovo tornati al principio”.
A coloro che avevano mancato l’attraversamento della Soglia, infradiciati dalla cascata d’acqua battesimale, restava comunque aperta la chance di un doppio recupero intellettuale. Salvatore Settis insisteva sulle “radici salde e remote” dell’arte di Viola, che “pensa se stesso come un pittore, vive la propria arte nel dialogo con l’arte del passato”. Per lasciar affiorare la dimensione religiosa delle sue macchine multimediali, Valentina Valentini mobilitava invece l’icona di Florenskij, la mistica di Meister Eckhart, la teologia di Pavel Evdokimov, nonché “il valore paradigmatico che assume la figura dell’eskaton (il simbolo costruttivo-distruttivo dell’apocalisse), il doppio movimento di ascesa e caduta, che l’arte si fa carico di esprimere legando il visibile all’invisibile”. “Inquadrata in questo contesto, la visione dell’arte di Bill Viola trova una naturale collocazione e una parallela distanza concettuale dalle estetiche ciniche, abiette, appropriazioniste del mondo dell’arte contemporanea”.
Uscito dal museo-tempio sulla zozza via Nazionale – dove Pasolini girò nel 1968 La sequenza del fiore di carta –, girovagando per il rione Monti senza marciapiedi, i gomiti sfiorati dagli specchietti delle macchine, mi ritrovai con lo stesso corpo di sempre, giusto attraversato da un fremito, un’irrefrenabile e intrascendibile incazzatura.
Quinto flashback (primo decennio del XXI secolo)
Primo decennio del XXI secolo. Allora pensavo che per comprendere l’astrazione pittorica si dovesse passare per l’esperienza cinematografica, perché in fondo l’epoca di Malevič era meno quella delle icone che dello schermo cinematografico, e per ogni icona in una chiesa ortodossa c’è un finestrino dell’aereo.
E se il lavoro di Viola soffrisse ad essere interpretato esclusivamente attraverso il discorso stringente quanto vincolante dell’artista? Riflettere sul “tecno-misticismo” permetterebbe forse di costruire altre genealogie rispetto a quelle dei suoi accoliti. Penso alla psichedelia, all’expanded cinema, a quello che Gene Youngblood chiamava “cinema cosmico” riguardo ai film-mandala di Jordan Belson.
Ma anche, per restare nell’ambito della pittura, alle zone di sensibilità pittorica immateriale di Yves Klein, e di cui bisognava impregnarsi come spugne. La sua intuizione fu di ritenere che presenza e immaterialità non fossero inconciliabili e che si poteva quindi mettere in atto una teatralizzazione dell’invisibile. Come ha osservato Denys Riout: “Anche quando non c’è niente da vedere – l’immateriale resta per sempre inaccessibile agli occhi del corpo – bisogna mostrare che in effetti non c’è niente di visibile, se non fosse il contesto, i gesti di un cerimoniale”. E’ un preciso “double bind, la necessità di non mostrare niente per restare fedeli allo spirito del suo progetto, e quella di produrre delle ‘immagini’, per quanto periferiche, per diffonderlo nel mondo dell’arte, avido di visualità” (Yves Klein. Manifester l'immatériel, Gallimard 2004).
In tale contesto va compresa la presenza fisica dell’artista, l’impiego di differenti medium (foto, cinema, musica), il valore di mercato che permette di cedere zone di sensibilità pittorica immateriale come se fossero solide come l’oro, l’appropriazione della città come scena delle sue azioni (place de la Concorde, il bordo della Senna, o Saint-Germain-des-Prés in cui lancia dei palloni). La sensibilità pittorica non è una “qualità del soggetto percipiente” ma una “realtà invisible iscritta nel cuore dell’opera stessa”. Rispetto a Viola, i tentativi di Klein sono attraversati dall’ironia, la stessa che persino un artista crucciato come Mark Rothko considerava come un ingrediente necessario dell’opera d’arte.
Di nuovo oggi
E’ tempo di tornare al giorno d’oggi. Marzo 2014, Grand Palais di Parigi: apre una retrospettiva su Bill Viola intitolata “Bill Viola”. Quando vedo l’affiche a Gare d’Austerlitz sobbalzo. Mi si ripresenta intatto lo choc di tanti anni fa. Penso ai libri letti troppo tardi (più interessanti dei libri letti troppo presto), perché facciano veramente effetto, perché dischiudano il loro potenziale utopico. Sento che devo prendermi in contropiede e visitarla il prima possibile, prima che se ne cominci a parlare, prima delle recensioni e delle parole degli amici, non più tardi del primo week-end d’apertura.
Sabato mattina, alla buonora, stropiccio gli occhi e, con la bocca ancora impastata, scandisco ad alta voce: “O-G-G-I B-I-L-L V-I-O-L-A”. Come Uma Thurman in Kill Bill, risvegliata dal coma grazie al pizzico di una zanzara. Ma anziché scatenare furie vendicative e omicide, il mio “Oggi Bill Viola” ha un effetto sedativo, come se a pungermi fosse stata la mosca tze-tze. La mattinata va a rilento, temo di non riuscir a valicare l’uscio di casa. Interminabili incombenze mi rimbalzano nello spazio domestico, pieno di nemici: i piatti, la polvere, la lavatrice, il telefono, il frigo, la doccia.
Cosa accadrà oggi? Dopo l’infervoramento giovanile, il primo distacco, l’indifferenza annegata dai cromatismi atonali della musica wagneriana tritatutto, dopo il fastidio epidermico? Come rovesciare il freddo tavolo analitico del ricercatore, pronto solo a cogliere i rapporti tra cinema e arti visive, tra questa retrospettiva e quella bellissima di Steve McQueen visitata l’estate scorsa allo Schaulager di Basilea? tra il Viola di oggi e quello dei suoi esordi sperimentali, tra questa mostra e Dynamo esposta lo scorso anno nello stesso spazio, tra le opere e gli scritti dell’artista?
Come considerare l’uso della tecnologia, dagli schermi al plasma in The Greetings (1995) alla quadrifonia di Going Forth By Day (2002)? E’ tempo di fare un bilancio, riconoscendo il ruolo fondamentale di Viola nell’estetica video ma denunciandone, elegantemente ma fermamente, la ricerca dell’effetto? E soprattutto, penso legando la bici con due catene a un palo della luce, come posso visitare una mostra pieno di riserve che calcificano le pareti della mia testa come il calcare in uno scaldabagno? Che il bagaglio critico sia d’impaccio anziché d’ausilio all’esperienza delle immagini? Che sia giunto il momento di deporre le armi, di allentare le resistenze? che sia giunta insomma l’ora d’immergermi “in Utero” (come cantavano i Nirvana già nel 1993, all’epoca del primo flashback)?
Entro?
In fila alla cassa due signore estraggono dalla borsa il comunicato stampa scaricato dal sito del museo e sottolineato con l’evidenziatore giallo; signori con Le monde di domani e un livre de poche in tasca; tre amici che somigliano ai miei studenti di Arts plastiques; i soliti turisti, volenterosi, pieni d’energia, indistruttibili, capaci di restare tre ore in fila sotto la pioggia e poi commentare ogni opera, leggere ogni pannello. Persino un paio di facce conosciute del “mondo dell’arte” con cui, per il quieto vivere, facciamo finta di non vederci. E altri figuri che si sottraggono a un primo tentativo d’archiviazione umana.
Dopo verifica della foto e della data di scadenza della press card, ho un biglietto. Euro 0,00. Declino l’acquisto dell’audio-guida e rinuncio a spiegare perché avrei piuttosto bisogno di occhiali da sole, creme protettrici, tappi per le orecchie, un ombrello, uno scafandro e così via.
Alle sale espositive del Grand Palais si accede tramite una scala mobile. Non è quella interminabile, irritante, surriscaldata e sfacciatamente panoramica del Centre Pompidou, ma un’appartata scala da aeroporto che connette un terminal con l’altro. Mi offre perlomeno l’occasione di mettere il taccuino nella tasca dei jeans e di lasciarmi inquietare dalle ultime congetture estravaganti (ma non è che a forza di arrotolare la catena hai legato la bici a se stessa anziché al palo?). Alla lettura di una citazione di Ibn Arabi sulla parete d’ingresso – “si tu t’engages dans le voyage, tu arriveras” – sento i piedi volermi portare lontano, al bookshop, alla bici, nel mezzo degli inospitali Champs-Elysées. Oggi mi sento in un mood più beckettiano (“Ever tried. Ever failed. No matter. Try Again. Fail again. Fail better”).
Entro.