La caponata, Masterchef ed Expo
Ci sono dei piatti che non si possono apprezzare appena cucinati. Bisogna aspettare che si freddino. Che “riposino”. Solo così saranno in grado di “esprimersi” al meglio. E noi di capirli fino in fondo. La caponata siciliana è uno di quelli. Chissà che non abbia senso allora tornare sulle questioni che la riguardano, come quella della pubblicità del dado Star che qualche settimana fa ha infiammato il web e non solo. L’idea della campagna pubblicitaria era molto semplice: una serie di spot, ognuno dei quali incentrato sul piatto tipico di una regione italiana, in cui si mostrava il ruolo chiave che giocava il prodotto. Niente grandi chef o ristoranti stellati: in scena doveva andare la tradizione, dunque la gente comune, la cucina di casa. Ovviamente tutto “tipicizzato” il più possibile, grazie alle inquadrature di famosi monumenti e agli accenti dialettali marcati al limite della caricatura. L’immancabile testimonial doveva essere qualcuno che fosse a metà fra questi due mondi, fra la casa e la cucina. E allora ecco Tiziana Stefanelli, vincitrice della seconda edizione di Masterchef. Lei che, con una trasformazione degna del miglior contrappasso dantesco, da avvocato (qual è nella vita) diventa giudice (negli spot), siede finalmente a tavola, ma soprattutto segue il ruspante cuoco ai fornelli, sottolineando con le sue domande i passaggi chiave di uno spot-ricetta tutto da provare. Gli elementi per il successo della campagna c’erano tutti. Eppure qualcosa è andato storto, il popolo è insorto. Dapprima sul web, poi nei giornali, in televisione e, peggio, in ogni tipo di salotto o corridoio che si rispetti. I guai sono arrivati quando, dopo il risotto alla milanese e lo spezzatino toscano, è toccato fare da protagonista alla caponata siciliana.
La questione è seria, declinare le generalità temo pertanto sia necessario. Chiariamolo subito, io sono siciliano. Ho una nonna siciliana come me, e non ho paura di usarla. Il problema è molto semplice: il dado, nella caponata, ci va o non ci va? No, no, no e no. O almeno, questo è quello che tutti i siciliani hanno detto a gran voce usando tutti i mezzi di comunicazione a disposizione. Tanto che, dalla sera alla mattina, lo spot è sparito da YouTube e la Stefanelli si è trovata a rispondere a imbarazzanti domande circa la sua competenza in merito ai piatti siciliani. Un accanimento che non è venuto meno neanche quando ha deciso di tentare il tutto per tutto sfoderando il marito siciliano, le vacanze in Sicilia e, infine, come sempre, gli “altri problemi più seri” di questa terra. Avete notato? Quando qualcuno non siculo viene colto in flagrante a parlare in modo ambiguo dell’Isola tira fuori (nell’ordine) un parente siciliano, le vacanze, la mafia. Forse l’omertà non riguarda solo chi parla ma anche chi ascolta. A ogni modo, dal punto di vista culinario la difesa migliore rimane quella fatta propria dal servizio clienti Star che, ovviamente, è stato immediatamente coinvolto dall’immancabile lettera puntualmente riportata sul sito di Repubblica il 20 gennaio: quella riprodotta nello spot era un’“interpretazione” della ricetta, e come tale poteva presentare differenze rispetto a un’altra. Antropologicamente ineccepibile: le ricette sono la testualizzazione di una cultura orale e dunque ognuno prepara la caponata come gli pare. È proprio il caso di dire che “un colpo di dadi mai abolirà il caso” (Mallarmé).
La notizia però, a pensarci bene, non è questa. O almeno non solo. La vera novità è che a sentirsi in dovere di prendere parte al dibattito sono stati tutti i siciliani. Ma proprio tutti. Dagli chef ai comici, dalle casalinghe ai giornalisti, dall’aristocrazia al più umile proletariato, tutti hanno voluto dire la loro come potevano: scrivendo, elaborando filmati, aprendo gruppi su Facebook (citerei l’eloquente “La caponata siciliana non va profanata”, ma anche “No al dado Star nella caponata”), intervistando autorità di ogni tipo, dalle immancabili nonne agli chef stellati, dai critici gastronomici alla gente qualunque. Se l’emittente locale TRM sceglie la via dell’intervista all’esperto, lo chef Gaetano Billeci cui viene lasciato il compito di argomentare la posizione anti-dadista; Sasà Salvaggio, noto comico dell’isola, posta un video in cui “commenta” lo spot in stile blob, punteggiandolo con le pernacchie di Giorgio Bracardi e con i “mi faccia il piacere” di Totò (totale visualizzazioni, solo nella sua pagina Facebook, 23.947). Ovviamente la vena comica non si ferma qui. Youtube è una miniera: c’è chi come StrEat Palermo scimmiotta lo spot inventandosi un’intervista impossibile a un mevusaro (venditore di pane con la milza, street food palermitano per stomaci forti) che, anche lui, metterebbe il dado nella sua specialità; chi come LaLaPa.it, propone un video intitolato “Il più grande problema di Palermo” andando in giro per la città e i suoi mercati a intervistare la più diversa umanità; e ancora quanti aggiungono allo spot scritte di ogni genere. Per quel che riguarda i giornali, accanto al già menzionato Repubblica c’è ovviamente il Corriere della Sera con l’articolo di Alessandra Dal Monte del 21 gennaio, il Fatto Quotidiano che, con la sua giornalista Barbara Giglioli, il 23 gennaio intervista proprio la signora Stefanelli, e naturalmente mille testate on line da Sì24 a diPalermo. Per non parlare dei blog naturalmente, da quelli culinari, al potente Rosalio, i cui post al vetriolo sono corredati da migliaia di “mi piace”. È qui che Claudio Mussolin ricorda giustamente quella scritta che campeggiava qualche tempo fa su un muro della città: “godo quando mangio la caponata”. Se la Francia ha trovato la sua unità con l’attentato terroristico alla redazione di Charlie Hebdo, la Sicilia lo ha fatto grazie a quello alla caponata. Ci vuole un nemico per scoprirsi fratelli, e, paradossalmente, non conta tanto la reale gravità del pericolo, ma l’efficacia che esso dimostra nel farci guardare intorno con occhi diversi. Il caso caponata insomma va visto non per quel che è ma per quel che significa.
E così abbiamo anche noi qualcosa su cui riflettere a pochi mesi dall’inaugurazione dell’Expo, ma soprattutto a non moltissimi mesi dalla sua chiusura. Perché, diciamocelo, se l’Expo può essere una grande occasione per l’Italia, uno straordinario catalizzatore di attenzione, quando chiuderà questa attenzione verrà quasi certamente meno. Forse succederà addirittura il giorno in cui aprirà le porte. Il problema è che per gli italiani, e in questo la Sicilia è veramente uguale al Piemonte, il cibo è una cosa seria. Quanto seria non credo sia chiaro a sufficienza, perché sono davvero pochi quelli che lo hanno studiato approfonditamente. La gastromania, come la chiama Gianfranco Marrone, ovvero la dilagante frenesia per tutto ciò che ha a che fare con il cibo, dalle trasmissioni tv ai libri di ricette, fino alla passione per pentole e padelle, se da un lato è certamente una moda, dall’altro è qualcosa di più, una passione autentica del popolo italiano. Una delle poche davvero comprensibile a tutte le latitudini della penisola. Ha ragione allora chi, capendone la forza, ci ha costruito supermercati di lusso, presidi ma anche università. Ci vuol gente capace per gestire questo capitale, che non è fatto solo da storia, tradizione, biodiversità, cultura e quant’altro, ma soprattutto da sentimento.
So a cosa state pensando: con tutte queste chiacchiere la Star ha finito per farsi molta più pubblicità di quella prevista. Varrebbe insomma il solito adagio “parlane come vuoi ma parlane”. Forse. Non sarei troppo sicuro però che in un caso come questo valgano facili mantra come quello della ripetizione. Quando una questione colpisce così nel profondo, le dinamiche che si innescano non hanno a che vedere con gli aspetti quantitativi della comunicazione, ma con qualcosa di più profondo come la simpatia e l’antipatia. E non solo: a ben guardare la passione di cui parliamo ha una precisa configurazione, quella dell’ira. È in preda a essa che, novelli Orlando (il paladino, non il politico), i siciliani hanno messo mano alle tastiere e ai mouse e sono scagliati con veemenza contro il famigerato dado, contro l’improbabile accento della sedicente signora Farrugio (dopo tanto Montalbano!), contro la signora Stefanelli. Una pulsione incontenibile che gli ha impedito di guardar bene quello che la presunta donna sicula stava cucinando. Nella pubblicità Star in effetti il problema non è il dado, è che quella nella padella, molto semplicemente, non è una caponata. Non ne ha gli ingredienti. Non si può fare un pollo al forno senza il pollo (con buona pace di Massimo Bottura). Sì, ci sono le melanzane e le olive, a occhio e croce c’è anche il sedano, ma il peperone? Che ci fa il peperone nella caponata? E a proposito di melanzane: che ci fanno nella padella insieme a tutto il resto? Lo sanno anche i bambini che prima vanno fritte. E poi scusate, alla fine, la caponata è bianca? Niente pomodoro? Niente concentrato? Sapete come si chiama in Sicilia quella cosa che viene servita nello spot? Canazzo. Il nome si adatta perché si riferisce a una generica preparazione realizzata con verdure in tegame o al forno (e, qualche volta, in parte fritte). Un piatto che è tipicamente mediterraneo ma che può prendere molte forme, come ad esempio la ratatouille. Vi ricordate il topino Remy del cartone Disney? Il piatto che prepara alla fine è un cugino del canazzo. Certo, detta così, un topo che fa un canazzo, sembra una barzelletta, ma se quel cartone animato ci insegna qualcosa è che “chiunque può cucinare” a patto che abbia la passione sufficiente. Ma soprattutto, ci dice che anche un critico arcigno come Ego, in nome di quel sentire comune, può diventargli amico. Un uomo e una pantegana! L’integrazione passa attraverso un sentimento prima ancora che la solita batteria di somiglianze fisiche, valori, tradizioni e quant’altro. Proprio come i fatti terribili di Parigi hanno dimostrato. Lasciare riposare un po’ caponate e attentati forse ci può consentire di far diventare un’unione insperata qualcosa di più di un sentimento legato a un fuggevole momento. E allora: je suis caponata!