Storie che svaniscono / La guerra di Instagram, Snapchat e Facebook
Quasi due anni fa, qui è stato pubblicato un mio articolo su Snapchat, un social network all’epoca non molto conosciuto in Italia che ho scelto di analizzare per la peculiarità delle sue storie, brevi testi sincretici composti da video e immagini, dalla durata e dalla permanenza limitata, copiate neanche troppo velatamente da Instagram e Facebook, grazie a cui sono diventate di dominio pubblico. Negli ultimi tempi, infatti, le storie sono diventate il canale comunicativo preferito dei personaggi pubblici, tanto che la stampa spesso e volentieri le usa come fatti oggetto di notizia.
Dopo un boom iniziale, le storie di Snapchat hanno registrato un declino di visualizzazioni attestato attorno al 40% causato dall’avvento di quelle di Instagram che, dal canto suo, in 25 settimane dal lancio, da agosto 2016 fino metà gennaio 2017, ha raggiunto i 150 milioni di utenti giornalieri dopo un periodo di magra, probabilmente dovuto al social di Spiegel e Murphy. I primi a venire meno agli aggiornamenti di Snapchat sono stati gli influencer, che hanno immediatamente appurato il calo di visualizzazioni spostandosi sul più fruttuoso Instagram. Il maggior volume di condivisioni di storie su Instagram è dovuto alla componente demografica, ovvero al target di utenti dai 25 ai 35 anni, la cui maggior parte non si è resa conto della clonazione coatta di Snapchat, dato che, come abbiamo fatto presente prima, la maggioranza degli snapchatters ha dai 18 ai 24 anni. Instagram si conferma più trasversale alle varie fasce di età, come dimostra il confronto tra le visualizzazioni delle storie del brand Nike sui due social media: quella più popolare di Snapchat ha raggiunto 66.000 visualizzazioni, mentre la prima condivisa su Instagram ha raggiunto le 800.000 in 24 ore.
I dati appena esposti servono a tratteggiare un quadro della situazione e a individuare i protagonisti principali di queste storie che possono essere anche guardate attraverso lenti particolari, ossia dei filtri da apporre alle immagini o ai video, ovvero l’altra innovazione realizzata da Snapchat con dignità di copia da parte di Facebook e Instagram. Le Lenti lanciano una sfida al reale incidendo sullo statuto ontologico e culturale dei testi sincretici social mediali; la visualità di massa acquisisce una nuova prassi figurativa incentrata sull’apposizione di maschere che distorcono il volto e la voce. In questo modo si offre al pubblico un simulacro istantaneo di se stessi, una simulazione di esistenze ed esperienze ulteriori, spettacolarizzando il contenuto creato perché, alla fine dei conti, se di messa in scena si tratta, bisogna sorprendere chi guarda.
Snapchat ha instaurato un regime scopico mutuato da una forma della cultura popolare, quella della parodia, dei meme, per fare auto-ironia e suscitare empatia, o solo ilarità, nei follower.
Il volto si deforma e assume fattezze inconsuete, i connotati vengono ricostruiti su tratti stereotipati o non umani. Il tocco sullo schermo rende possibile il riconoscimento del viso dell’utente, a cui le maschere-lenti aderiscono quasi alla perfezione, separandolo dal resto del corpo e donandogli nuova unità, temporalità, spazialità e forma. La maschera ingloba lo sguardo, che penetra l’osservatore installando un débrayage attoriale e spazio-temporale, ma soprattutto, come hanno scritto Deleuze e Guattari in Mille piani, “non nasconde il viso, è essa stessa un viso”, significa un divenire garantendo la “viseificazione della testa e del corpo”. Seppur per un tempo limitato, le Lenti contribuiscono a fondare l’identità della comunità di utenti, offrendo una griglia di lettura simile a quella delle funzioni riconosciute alle maschere dall’antropologia culturale e dall’etnologia. La Lente si rivela essere un attivatore di antropo-poiesi, un modello di costruzione dell’uomo, di fabbricazione del suo fare, che rimette in gioco relazioni sociali e individuali. Mediante le lenti lo snapchatter realizza se stesso sulla dicotomia velamento/svelamento, o simulazione/dissimulazione, dove da un lato trascende la sua reale identità per manifestarsi in una certa condizione, mentre da un altro esplicita ciò che generalmente nasconde. Esibizione e occultamento sono due facce di una stessa medaglia, che si richiamano costantemente nella narrazione di modelli di vita.
La creazione di esseri zoomorfi, metà frutta, oppure mascherati da hippie o clubber, appaga il desiderio di trasformarsi, di mimetizzarsi, accrescendo l’universo di senso dell’individuo. A tale proposito Francis Affergan (2005, p. 314) ricorda che “le maschere spazio-temporalizzano una storia vissuta o traiettorie di vita particolari, mettendo in scena e contribuendo a visualizzare degli eventi che, diversamente, resterebbero invisibili o muti”. Le lenti possono essere inquadrate rispetto a una presa di coscienza del presente, del momento di vita, tanto che potremmo definirle con Lévi-Strauss (1985, p. 179) “finzioni socializzanti”, un inganno per piacere e piacersi, per essere accettati e condivisi. Possiamo pensare alle lenti come a un compromesso a cui scendere per trasfigurare l’identità in modo socialmente desiderabile, un bricolage immaginario delle reinvenzioni del reale, in cui la distruzione e ricostruzione costante delle storie costituisce una dimensione ludica della quotidianità, finalizzata a trasformarla in evento.
Chi condivide il proprio vissuto sui social, inforca delle lenti, indossa delle maschere che operano un processo di estetizzazione dei loro comportamenti.
Alla fine dei conti, le storie sono lo specchio del byt lotmaniano, del conglomerato di pratiche del quotidiano, che, come afferma Franciscu Sedda (2012, p. 118), consiste in uno “spazio di una ambivalenza fondamentale, di una costante tensione fra familiarità e straniamento, automatismo e invenzione, ripetizione e differenza”. Familiarità perché le storie raccontano del decorso della vita, della routine e delle sue piccole e grandi variazioni, mentre straniamento e invenzione descrivono l’arricchimento del quotidiano con maschere e filtri, quegli effetti che rendono speciale la normalità. Il tutto è reiterato in blocchi scanditi da un massimo di tempo, diversi tra di loro per forma e contenuto, ma ridondanti in quanto ricchi di elementi formulari.
La denominazione “storia” pone alcune questioni di ordine concettuale sulla sua definizione da un punto di vista teorico. Secondo Gérard Genette (1976, p. 75) la storia è “il significato o contenuto narrativo”, dove il significante è il racconto, mentre il discorso, la narrazione, è l’atto che lo produce.
Rispetto alle categorie paradigmatiche di tempo e persona, per Émile Benveniste (1971) la storia, o racconto storico, include il passato e la terza persona, mentre il discorso si caratterizza per il presente, l’imperfetto e il futuro, declinati in prima e seconda persona. Le storie social appartengono alla dimensione del presente durante la loro enunciazione, però cessano istantaneamente di farne parte quando vengono pubblicate. Chi realizza una storia può farlo in prima persona, parlando di sé, o riprendere eventi a cui partecipa, presenziandovi come narratore omodiegetico. In entrambi i casi il tempo della storia, del racconto e della narrazione coincidono, e i crononimi sono ben specificati da marche, espresse in ore, che indicano il momento in cui è stato pubblicato il contenuto e, a volte, da filtri recanti data e orario della ripresa. Il discorso si trasforma in storia perché si instaura un dialogo, pur se schermato e a distanza, tra soggetto della narrazione e destinatari, mirato a innescare una serie di reazioni e a generare un circolo virtuoso di interazioni.
Le storie dei social media sollevano un problema ermeneutico al pari del racconto, perché non si tratta di imitare l’azione in accezione aristotelica, ma bensì di narrarla nel suo farsi, di registrarla sic et simpliciter nella sua autenticità, di documentare il discorso. Parafrasando Giovanni Manetti (2013) “la grande operazione manipolativa” di Snapchat, Instagram e Facebook trasforma il discorso in storia e viceversa, tempi e persone incluse. Gli attori dell’enunciato sono colti mentre stanno agendo, momento che viene cristallizzato e ripetuto in loop per un giorno, operando una continua celebrazione dello scorrere del tempo. Ecco che la storia dei social assume significato proprio rispetto al tempo, potremmo intenderla come l’atto di bloccare quell’istante lungo trenta secondi facendolo diventare durativo, prolungando la sua breve vita in extremis, per altre 24 ore.
Se inquadriamo la rapida consunzione delle storie nel discorso di moda operato dai brand, ci rendiamo conto che siamo innanzi a una metafora dei consumi. Consumo e consunzione non hanno in comune solo il rapporto di sinonimia, la loro relazione serve a esplicitare l’atto di usufruire di un bene fino alla sua distruzione e, allo stesso tempo, all’annullamento del consumatore nei confronti del bene stesso. Dunque le storie condivise dai profili griffati possono valere come presa di coscienza della realtà effimera delle cose, del loro ciclo di vita sempre più breve e veloce.
Pertanto le storie di Instagram condivise da brand e influencer incarnano strettamente la loro forma di vita, cristallizzata nel momento stesso in cui accade, producendo un surplus di senso, un supplemento prezioso che rende più efficaci le immagini “permanenti” pubblicate sul social network. Le storie sono più intime e private delle fotografie degli outfit, raccontano di famiglia e amore, di situazioni comuni a tutti, come ad esempio pranzo e cena, di risvegli romantici e di attese aeroportuali. Sottraendo lo sfavillio del lusso resta la quotidianità delle persone, ciò che basta a rendere credibili i contenuti a milioni di seguaci. La scansione temporale è sempre uguale, quel tanto che basta a rendere familiari, intime e rassicuranti le storie, dove la ridondanza delle situazioni soddisfa le attese dei follower, rimarcando la schematicità della forma di vita in chiave pedagogica e informativa. Gli oggetti e gli eventi del sistema moda sono rappresentati senza illusioni, senza sovrastrutture metafisiche, esplicitando la loro durata limitata per poter gioire della pienezza della loro esistenza.
Nel mio volume Social Moda. Nel segno di influenze, pratiche e discorsi (Franco Angeli, 2017) ho ampliato la disamina delle storie evanescenti perché le considero di fondamentale importanza nell’ambito del sistema della moda e dei discorsi digitali in generale. Perciò ho deciso di condividere con i lettori un brano tratto dal mio ultimo lavoro, rimaneggiato per l’occasione, per aggiungere un tassello al mosaico analitico nato proprio su Doppiozero.
Nota di lettura
Le storie e le loro lenti costituiscono un terreno di indagine congeniale alla semiotica e ad altre discipline quali l'antropologia strutturale, l'antropologia filosofica, la linguistica e la narratologia. A partire da tre concetti cardine quali maschera, storia e discorso, ho fatto riferimento a una costellazione di teorie che hanno contribuito a comporre le categorie d'analisi presentate in questo brano. Per ulteriori approfondimenti sulle maschere consiglio la traduzione italiana de La via delle maschere di Lévi-Strauss (Einaudi, 1985), e del contributo di Francis Affergan nel libro corale Figure dell’umano. Le rappresentazioni dell’antropologia (Meltemi, 2005), a cui aggiungo le osservazioni di Deleuze e Guattari in Mille piani. Capitalismo e schizofrenia (Castelvecchi, 2003). Benveniste e Genette si sono a lungo occupati della problematizzazione concettuale di storia e discorso, specialmente nei rispettivi volumi Problemi di linguistica generale (Il Saggiatore, 1971) e Figure III. Discorso del racconto (Einaudi, 1976). Per quanto concerne la semiotica rimando all’excursus storico di Giovanni Manetti dal titolo In principio era il segno: momenti di storia della semiotica nell’antichità (Bompiani, 2013) e alla semiopolitica delle culture di Franciscu Sedda, autore di Imperfette traduzioni (Nuova Cultura, 2012).