La leggerezza della Pimpa

21 Gennaio 2014

La Pimpa è il personaggio italiano dei cartoni animati rivolti all’infanzia per antonomasia. Nata dalla penna del grande Altan, compare nel 1975 sul Corriere dei Piccoli e da quel momento, prima con i fumetti e, successivamente (1983), con le serie tv prodotte dalla Rai, non smette di riscuotere consensi. Il successo delle sue avventure arriva fino ai giorni nostri, facendola entrare di diritto nella programmazione di Rai YoYo che, non a caso, la ripropone ininterrottamente nel palinsesto insieme a Peppa e ai Barbapapà.

 

La Pimpa è una cagnolina a pois rossi e abita in una casetta tranquilla insieme al suo padrone Armando. L’ambientazione casalinga è a misura di bambino. Essa è pacificata, vive un eterno presente, popolata di oggetti tanto ordinari quanto, in fin dei conti, mitici: sofà, orologi a cucù, fornelli, ci chiedono di essere pensati come idealtipi di una perfezione reificata e a portata di mano, quella a cui ogni bambino può ambire in una famiglia qualunque che abbia la qualità di essere banalmente serena. Così, la Pimpa, la sera, alla fine delle sue avventure, torna da Armando, contenta di ritrovare il suo scenario familiare esattamente come l’aveva lasciato.

 

 

Vale la pena di prendere atto, non senza qualche sorpresa, che questo orizzonte tranquillo è, però, costruito su uno schema non tradizionale. La famiglia della Pimpa non è formata da papà, mamma e figli ma da lei e dal suo padrone Armando che le fa, lo ricorda lo stesso Altan, da papà e da nonno contemporaneamente. In questa famiglia sui generis, manca quindi la mamma, senza che ciò peraltro possa in alcun modo far pensare male. La sua assenza viene, infatti, perfettamente spiegata nell’univocità della relazione cane/padrone, che ci libera da ogni presagio di trauma per la perdita della figura materna. Anzi, del passato della Pimpa e di Armando non sappiamo nulla, se non il fatto che si incontrano nel bosco e si scelgono vicendevolmente per vivere insieme come papà e figlia. Un espediente perfetto, sembrerebbe, che permette di guardare alla serie come un grande racconto sulla paternità in positivo.

 

E come vivono, allora, Armando e la sua cagnolina? Essi interagiscono, come è noto, all’inizio e alla fine di ogni puntata. Di solito, la Pimpa ogni mattina si sveglia e, dopo aver provveduto alla propria igiene, si reca a far colazione con il suo padrone. La colazione è importante nel loro rapporto perché rappresenta il momento in cui, insieme, programmano l’attività della giornata. Una volta raggiunto un accordo sul da farsi, Armando può uscire di scena e lasciare che la Pimpa parta per le sue avventure. Il problema della partenza è, quindi, alla base della proposta del format: Armando vuole che la sua Pimpa esca di casa, che si metta alla prova nel mondo. Ecco perché non mostra affatto un atteggiamento protettivo nei suoi confronti. Al contrario, va per la sua strada, esce anche lui per assolvere alle proprie faccende quotidiane, senza curarsi di cosa possa accadere alla sua cagnolina nel frattempo.

 

 

Ogni genitore menefreghista, indipendente, libertario dovrebbe essere grato ad Altan per avere dato dignità a un modello di paternità alternativo rispetto alla figura autoritaria ereditata, ma anche e soprattutto rispetto alla ben più pericolosa volontà di onnipresenza che i genitori di oggi proprio non riescono a contenere nei confronti delle vite dei loro figli. Armando si propone, allora, alla sua Pimpa non come intransigente destinante né come invadente compagno ma, al contrario, come facilitatore di avventure. E le avventure, per definizione, stanno fuori di casa. Metterei in relazione questo deficit di destinazione con un’altra particolarità della serie.

 

Laddove non c’è una missione chiara e un orientamento di partenza, laddove il papà non si preoccupa di indicare la via, il mondo prende il sopravvento. Senza Armando, fuori da casa, Pimpa non si ritrova, infatti, sola. Agisce in un mondo vivo, tutto da decifrare, in cui animali, vegetali, oggetti e perfino agenti atmosferici suppliscono all’assenza paterna, assumendo una soggettività propria e aiutando la cagnolina a orientarsi nel mondo.

 

 

Ecco allora che la serie si popola di amici: Gatta Rosita con la quale sperimenta la differenza (sono cane e gatto!), Coniglietto con cui, invece, si ritrova complementare, Olivia Paperina con la quale realizza il suo istinto materno e tanti altri. Ma il risultato forse più eclatante della pedagogia di Armando è che la Pimpa guarda il mondo senza paura, “gioca a pallone con il leone” senza che esso assuma un’aria di minaccia, arriva in Africa con il suo amico aeroplano, vola perfino a cavallo di un razzo, compie sempre avventure incredibili ma rigorosamente a lieto fine. La libertà di azione concessale da Armando è quindi il vero privilegio della Pimpa che, grazie a questa apertura paterna, si ritrova a guardare il mondo con fiducia e senza paura. E si capisce quanto una tale libertà, che è innanzitutto emancipazione dal controllo, nello scenario attuale sia sempre più difficile da garantire ai piccoli spettatori, così precocemente muniti di telefonino da genitori sempre più ossessionati dall’apprensione.

 

C’è un secondo momento, però, in cui emerge la figura del papà, quello del ritorno a casa. La Pimpa torna per cena e reincontra, per nulla turbato dalla sua assenza, Armando. Egli, lettore accanito, aspetta che la sua cagnolina, mandata in avanscoperta durante il giorno, possa raccontarle (racconto nel racconto!) le sue avventure. Anche qui: da parte di Armando, nessun giudizio di valore ma, al contrario, complicità e stupore. Del resto, i racconti della Pimpa sono molto diversi da quelli tipici delle storie dei bambini: essi non hanno morale. Sono assurdi e inverosimili e non contengono nessun insegnamento. Parlano di coccodrilli che mangiano le mele dell’albero sotto casa, di pizze ghiacciate mangiate insieme a un pinguino, di partite a calcio con il granchio che con le sue chele buca il pallone.

 

Non insegnano nulla ma valgono per il loro valore fantastico, per la loro bizzarria, per il fatto stesso di essere racconti indipendentemente da qualsiasi morale, che, non a caso, il sessantottino Armando si rifiuta puntualmente di trarre. La qual cosa non può che avere una conseguenza: la Pimpa, nonostante le sue mirabolanti avventure, non si trasforma, rimane uguale a se stessa, senza che la sua condizione le desti, in alcun modo, noia o disappunto. Come l’amorevole Karenin di kunderiana memoria rimane perfettamente appagata nel suo tempo canino che è, per definizione, circolare, scandito dal ritorno e dalla ripetizione.

 

Oltre che a misura di serial. Saranno, piuttosto, i suoi piccoli telespettatori che, in preda a quell’insostenibile leggerezza dell’essere, un giorno o l’altro si stancheranno della sua felicità. Dopo avere chiuso la porta dietro di sé, essi, al contrario della Pimpa, non faranno ritorno, consegnandola al mondo dei ricordi d’infanzia, il tempo dorato in cui la loro esistenza somigliava tanto a quella di uno spensierato cane a pois.

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