La Resistenza di mia madre
Ogni 25 aprile, appena mi sveglio, telefono a mia madre per farle gli auguri e ogni volta mi viene in mente una storia che lei mi ha raccontato tante volte. Un piccolo episodio avvenuto nei giorni successivi al suo undicesimo compleanno, il 25 aprile del 1945. Ai quei tempi lei viveva insieme ai tre fratelli più grandi in via Terraggio a Milano, in un microappartamento con bagno comune alla turca nell'ammezzato. Il padre, mio nonno Dante, era un socialista perseguitato dal regime e ormai da tre mesi non rientrava a casa, anche se non faceva mai mancare sue notizie che arrivavano alla nonna tramite l'amico Piero. Il quale, oltre a tranquillizzare, portava qualche chilo di farina per polenta, un po' di latte fresco e le immancabili castagne secche, alimenti fondamentali per chi non poteva usufruire della tessera annonaria.
Quel 25 aprile mia nonna Angela era molto preoccupata, soprattutto a causa di un vicino al piano di sopra, un fascistone che per anni era stato il terrore di famiglia. In ringhiera si diceva che l'avevano visto giù in cortile mentre scappava con un fazzoletto rosso al collo. Chissà cosa sarebbe successo se qualcuno dei suoi figli lo avesse incontrato? E se si fossero messi a denunciare una simile vigliaccheria ad alta voce? Chissà che confusione poteva venirne fuori. Quel giorno la nonna decise quindi di chiudere la porta e pure le persiane alle finestre, bloccando dentro tutti quanti, compresa mia madre che invece aveva una gran voglia di fare festa, con tutte quelle grida di felicità che sentiva giungere dalla strada.
Mia madre era nata nel 1934, per undici anni aveva vissuto in estrema povertà e nel costante panico per i ricatti e le minacce dei nazifascisti. Ma non solo, come i suoi fratelli era stata costretta a frequentare le scuole dei preti, all'epoca le uniche possibili per le famiglie antifasciste. E siccome tutte le sue amiche indossavano la divisa delle Figlie della lupa, negli ultimi anni l’era sembrato un torto il fatto che non se la potesse mettere anche lei. Una volta l'aveva accennato a casa e naturalmente nonno Dante era andato su tutte le furie. Già odiava i preti, figuriamoci la figlia più piccola in divisa da fascista.
Qualche giorno dopo, prima di andare alla messa della domenica, s'era sparsa la voce di un raduno in una famosa piazza di Milano. Era venuto anche il Piero che l'aveva confermato. Suo fratello Basiglio si stava già preparando per uscire e mia madre voleva assolutamente seguirlo. Vista la situazione ormai tranquilla, Nonna Angela non fu contraria.
Me la vedo mia madre a undici anni, splendida, mentre si veste in fretta trattenendo a stento la gioia. Me la vedo uscire finalmente da casa, giù a mozzafiato per le scale. Camminare veloce nella primavera, camminare veloce in mezzo al trambusto di una gran festa. Me la immagino con la mano stretta a zio Basilio, cantare contenta perché non si vedevano più le bambine con indosso la divisa delle Figlie della lupa. Nell'avvicinarsi alla piazza avrà saltellato non poco per stare dietro alle gambe lunghe del fratello sedicenne. Probabilmente pensava a quali giochi avrebbe potuto fare appena fosse arrivata nel posto dove tutta quella gente stava andando. Senz’altro sperava di incontrare suo padre, già si sapeva che sarebbe stato là, Basilio l’aveva ripetuto all'infinito. Purtroppo, una volta raggiunta la piazza, si sapeva anche che il papà avrebbe avuto un sacco di cose da fare. Però l'avrebbe rivisto e, dopo aver giocato con le amiche, sarebbe tornata a casa per gridare alla mamma che il papà stava bene, che l’aveva incontrato e che l'aveva presa in braccio. Avrebbe sommerso la mamma di baci saltandole sul collo, le avrebbe detto che l'aveva visto, che l'aveva visto come al solito, no anzi l'aveva visto finalmente contento, fumare e bere tanto vino rosso con gli amici, quei vecchi amici che da una vita non vedeva tutti insieme, tutti in una volta. Quel giorno mia madre volava altissima.
S'infilarono in una via molto larga piena di gente che acclamava la fine della guerra, arrivarono in una piazza grande che mia madre non aveva mai visto prima. Cercarono nella folla il nonno Dante, ci misero tanto tempo a ritrovarlo. L'abbraccio, gli amici e le bottiglie di vino ci furono davvero, ma ciò che colpì di più mia madre e tutto il resto della gente, furono i corpi appesi a testa in giù di Mussolini e della Petacci. Era il 29 aprile del 1945 e si trovavano in piazzale Loreto.
A questo punto il racconto di mia madre finisce sempre bruscamente. “Fu una cosa terribile, una scena che non voglio neanche ricordare...” A nulla servono le mie insistenze. “Con tutto quello che avete sofferto, almeno lo zio Basiglio era contento?” “Ma che dici? Fu una cosa spaventosa. Per fortuna qualcuno aveva stretto con una cintura la gonna di quella poveretta.” Una volta gli ho ricordato i primi dieci minuti del film Novecento, quando i contadini si lanciano con i forconi contro due poveracci in fuga per i campi. “Alla fine del film non ti viene anche a te la voglia di prendere in mano quel forcone e infilzarlo in gola a Donald Sutherland e Laura Betti?” “Non dire stupidaggini...” Mi ha risposto lei.
Oggi, dopo gli auguri di buon compleanno, provo a farmi raccontare la storia dell'olio di ricino che il nonno Dante era stato costretto a bere spesso durante gli interrogatori dei gerarchi. Ma ho già tentato tante volte. Non funzionerà.