La vita lenta di Lucia Calamaro
È stata una serata di novità quella che ha visto il debutto del nuovo lavoro di Lucia Calamaro, Diario del tempo: l’epopea quotidiana. Novità perché dopo quasi due anni ha riaperto finalmente i battenti il Teatro India, polo del contemporaneo della Capitale, dopo una chiusura per lavori di ristrutturazione. Difficile pensare che questa sia una soluzione definitiva per il Teatro nuovamente riconsegnato alla città: per arrivare alla sala, che all’apparenza di nuovo sembra avere poco, si attraversa un mezzo cantiere per ritrovarsi in un foyer un po’ striminzito. Pesa anche l’assenza del bar, temporaneamente sostituito da una macchinetta dell’acqua, poco aggregante.
Diario del Tempo: l’epopea quotidiana racconta le giornate di una donna, Federica (interpretata da Federica Santoro), oramai disoccupata cronica che vede passare lentamente i suoi quaranta anni. Una teoria di giornate che si ripete sempre uguale; non ci sono più scossoni o imprevisti a rivoluzionare l’ordine del proprio tempo; non c’è più nemmeno quella predisposizione al lasciare invadere il proprio tempo da ciò che è imprevedibile. Lo sport diventa un rifugio possibile in grado di solleticare l’orologio e di riempire il vuoto. Vediamo allora la protagonista affannarsi su un vecchio e macchinoso tapis roulant: la corsa è l’occasione anche per mettere in moto riflessioni su un mondo dal quale va autoescludendosi. Alla lentezza della propria vita Federica contrappone la frenesia degli altri, quelli che, dal suo punto di vista annoiato, osserva e che hanno sempre “da fare”: i mille impegni, le riunioni, le agende piene, le telefonate che non finiscono mai.
ph. Alessandro Carpentieri
L’unica compagnia è quella di un vicino di pianerottolo, interpretato da uno strabiliante Roberto Rustioni: un impiegato, anch’egli sulla quarantina, costretto a un part-time e lo stesso oberato di lavoro che non riesce a chiudere nei tempi stabiliti. Lo vediamo dietro a una scrivania da ufficio che abita il suo salotto: scartoffie, faldoni, carte da archiviare, cassetti pieni di cancelleria e il tempo cadenzato dalle etichette appiccicate. Il loro è un rapporto particolare, quasi Roberto fosse un rifugio per la solitudine di Federica: un luogo dove poter essere se stessa e dove potersi mostrare nel pieno delle proprie fragilità. Sono due animi solitari, influenzati dalle dinamiche del nostro tempo: per l’autrice e regista essi rappresentano uno dei riflessi della generazione dei quarantenni di oggi, di quelli che non riescono a trovare una propria posizione all’interno del sistema sociale, pur lottando per farcela nel caso di Roberto e arrendendosi invece troppo facilmente nel caso di Federica.
ph. Alessandro Carpentieri
È nel secondo atto che entra in scena un terzo personaggio, interpretato dalla stessa Calamaro, insegnante precaria e svogliata di educazione fisica, re-iscrittasi nuovamente all’università, alla facoltà di Filosofia, e alle prese con un esame su Lacan. Su un anonimo treno che attraversa Roma all’alba avviene l’incontro con Federica che, dopo una discreta osservazione, capisce essere la sua vicina di casa. Non c’è la voglia di conoscersi reciprocamente, la situazione di incontro è abitata da una certa apatia rispetto all’altro; la “novità” dell’incontro spinge più a ritrarsi che a esporsi, ad allontanarsi e a cercare la quiete nella solitudine piuttosto che nell’avvicinamento e nel dialogo.
ph. Alessandro Carpentieri
È in questo secondo atto che è mancato qualcosa: personalmente ho avuto l’impressione che poco sia stato aggiunto a ciò che era già stato detto durante il primo. Poco è stato aggiunto all’affresco di questo modus vivendi che abita Diario del Tempo. Non parlo solo di un problema di lungaggine (oltre tre ore di spettacolo); rifletto su un percorso che non va avanti e che si arena in una sorta di continuum con l’apatia dei personaggi che ci vengono presentati. È in questa seconda parte dello spettacolo che ho sentito molto la mancanza del gesto, dei gesti che accompagnano le parole e che danno spessore alla dimensione drammaturgica. Una montagna di testo che a volte si fatica a seguire, in cui ci si distrae e che in un certo senso impedisce l’ascolto della propria immaginazione di spettatore. È come se da questo punto di vista mancasse una rottura tra primo e secondo atto. Rottura che invece da un punto di vista scenico è presente ed è lodevole: di fatti, da un palco risicatissimo della prima parte (davvero posto a rappresentare l’angustia di uno spazio personale come la stanza da letto) si passa all’apertura della scena del secondo atto che ci regala un immenso palco con una profondità che ricorda un parco dove correre o la grandezza di una città che fa sentire piccoli i propri abitanti.
Lucia Calamaro torna a partorire uno spettacolo sull’oggi così come aveva fatto due anni fa con il pluripremiato L’origine del mondo e ne continua immaginariamente l’asse poetico. Si tratta infatti di un lavoro incentrato sul “nostro vivere globale” in un mondo, quello personale, che è sempre più minuscolo perché abitato solo da noi e da pochissimi altri che ammettiamo all’interno. Il tema è affascinante, così come lo sono le tre storie presentate: a tutta l’operazione teatrale manca, però, un certo vigore. Un vigore che avrebbe preteso si andasse avanti nella riflessione o, meglio, nell’autoriflessione portata avanti dai personaggi in scena. Un andare oltre che potesse essere in grado di generare domande nello spettatore e non di fermarsi un metro prima del traguardo. Non è forse questo uno dei propositi del teatro?
“Diario del tempo: l’epopea quotidiana” è una produzione del Teatro di Roma e del Teatro Stabile dell’Umbria, in collaborazione con PAV e Rialto Sant’Ambrogio, con la partecipazione del Teatro Franco Parenti.
Sarà in scena al Teatro India di Roma fino al 19 ottobre 2014 e poi al Teatro Franco Parenti di Milano dal 21 ottobre al 3 novembre 2014.