Lamezia Terme, 18 marzo 2011
Ci ritroviamo al Teatro Umberto, nel cuore della città. È il primo incontro di Capusutta, così l'abbiamo chiamato il nostro progetto di teatro con gli adolescenti di Lamezia, e il nome in dialetto lametino ("a testa in giù") me l'ha suggerito Dario Natale, regista di Scenari Visibili, traducendo alla lettera "arrevuoto" dal napoletano. Sono presenti 85 adolescenti, tra cui una decina di rom. A salutarli ci sono anche Tano Grasso e l'assessore alla cultura di Ravenna, Alberto Cassani, che ho convinto a seguirmi in questo primo incontro. I due augurano buon lavoro ai ragazzi e a noi, e poi si allontanano a ragionare di un possibile gemellaggio Lamezia-Ravenna.
Guardo gli adolescenti davanti a me, seduti in platea, guardo il palco alle mie spalle, molto piccolo, sia come larghezza che come profondità. Non ho voglia di parlare... e poi la platea è stretta e lunga, io manco li vedo quelli che sono là in fondo. Non ho voglia di parlare, abbiamo già parlato abbastanza in precedenza, abbiamo già raccontato a questi ragazzi le nostre intenzioni in alcuni incontri fatti tra gennaio e febbraio, quando sono andato nelle scuole con i "corsari" napoletani per raccontare di Capusutta, e questi 85 che abbiamo di fronte sono il risultato di quegli incontri. Li abbiamo interessati, sono qui. Non abbiamo fatto provini o audizioni, nella non-scuola non ci sono mai, l'accesso è sempre libero. La selezione la faranno la disciplina nel lavoro e la voglia di starci dentro.
Non ho voglia di parlare, vorrei già cominciare a lavorare. Ma come si fa in una situazione del genere? Mica ci stanno questi 85 sul palco. Sei sicuro? Non c'è che un modo per saperlo. Li invito a salire sul palco. Ma non ci stiamo, protesta qualcuno. Salite e vediamo.
Salgono. Si stringono, si siedono sul palco, si accovacciano, ridono perché sono ammassati, vicini vicini. Ma ci stanno. Bene, si può cominciare. Perché ora li vedo tutti in faccia, non perdo gli occhi di nessuno. E comincio intonando un'ottava di Matteo Maria Boiardo tratta dall'Orlando innamorato.
Tutte le cose sotto della luna
l'alta ricchezza e i regni della terra
son sottoposti a voglia di Fortuna
lei la porta apre d'improvviso e serra
e quanto più par bianca divien bruna
ma più se mostra a caso della guerra
instabile voltante e roinosa
e più fallace ch'alcuna altra cosa.
È un gioco che faccio sempre, all'inizio del lavoro. Canto a mo' di ottava toscana il primo verso, e in coro i ragazzi lo ripetono, poi subito il secondo e subito la ripetizione del coro, e così via. In dieci minuti la imparano a memoria. A quel punto comincio a trasformare l'ottava in un canto rap: è una mutazione naturale, perché tra le strutture dell'improvvisazione dell'ottava e quelle del rap c'è una parentela profonda, sono modalità che appartengono alla cultura "popolare" (pop), e i ritmi del rap rendono incandescente l'italiano quattrocentesco del Boiardo. Non solo: ma permettono al corifeo (chi guida il coro, chi canta il verso che il coro ripete) di inventare liberamente, mantenere il ritmo inserendo nel corpo dell'ottava variazioni create lì per lì. Passo il testimone del corifeo a Tonino, "corsaro" di Scampia, che improvvisa usando il suo dialetto napoletano, e mostra quanta libertà e fantasia siano possibili in un gioco simile. Il coro non si limita a seguire solo i versi-in-musica del corifeo, è tenuto a imitarne anche i gesti e i cambi di voce, e a sua volta rimanda l'energia centuplicata al corifeo. In mezz'ora il divertimento cresce, come l'affiatamento, e ti trovi davanti a un coro che a sentirlo ti sembra che stia lavorando insieme da giorni.
Chiamo i ragazzi stessi a fare da corifeo. All'inizio c'è timidezza, poi si lanciano. Mi colpisce un'improvvisazione: è contro i "polentoni" che vengono dal nord. È un saluto alle "guide", a me in particolare? Tutti ridiamo, io pure. È un saluto irriverente, a testa in giù, capusutta appunto. Ma è anche un segno sottopelle di cui dovrò tenere conto. Ci sono, nella lunga storia delle relazioni tra il nord e il sud dell'Italia, troppe ferite.
Finito l'incontro, si va tutti a Palazzo Panariti, dove Tano Grasso, insieme al sindaco e a Cassani, inaugureranno la struttura appena restaurata, che sarà un palazzo delle arti per questa cittadina di 70.000 abitanti (il terzo comune della Calabria), e nel quale ci ritroveremo ogni settimana per Capusutta. Prima dell'inaugurazione parecchi ragazzi stanno attorno a me e ai "corsari" napoletani, vogliono saperne di più di Capusutta, su che cosa lavoreremo, eccetera. Si parla di tutto, di teatro, di cinema e televisione, a un tratto uno di loro comincia a dire battute tratte da film e telefilm. I suoi compagni ridono, io sorrido ma solo per gentilezza, perché in quelle "imitazioni" non c'è niente di autentico e divertente. Forse il ragazzo se ne accorge, forse no, sta di fatto che cambia registro e comincia a imitare i suoi professori, toni di voce, andature, tic, e il divertimento si fa irresistibile. Mentre prima si imitava un'imitazione, e il risultato era sterile, ora il comico sgorga crudele dalla realtà, dalle cose, e quell'adolescente svela la teatralità insita nella vita stessa. D'altronde un certo Alfred Jarry cominciò proprio a quell'età a parodiare insieme ai suoi compagni il suo professore di fisica - liceo di Rennes fine Ottocento - e da lì nacque Padre Ubu, un personaggio diventato poi leggendario, un'icona del teatro mondiale. Parodiare, ovvero fare il controcanto, mettere a testa in giù: capusutta, appunto.