Chiude la Biennale di Architettura / L’assenza del passato e il principio di precauzione

21 Novembre 2021

Si è appena conclusa la XVII Mostra internazionale di Architettura di Venezia, con un incremento del numero di visitatori rispetto al 2018 che da una parte conferma la tendenza delle ultime edizioni, dall’altra il successo di molti altri eventi e mostre di questa estate. Emerge un diffuso desiderio di prossimità, normalità, e di certi riti, rassicuranti, come ad esempio suggerisce il caso del Salone del libro di Torino dello scorso ottobre.

 

Le istituzioni culturali non sono state le uniche a beneficiare del ritorno alla apparente normalità che ha contrassegnato l’estate scorsa. Negli stessi mesi della Biennale di Architettura, ad esempio, l’Architecture Billings Index (ABI), un indicatore economico che misura l’attività edilizia nel settore non residenziale negli Stati Uniti, risulta in continua ripresa, nonostante il progressivo aumento dei costi del lavoro e dei materiali da costruzione. Tutto questo con grande soddisfazione di molti architetti e delle diverse componenti del settore delle costruzioni, un settore che si caratterizza per la sua vasta impronta ecologica, il suo consumo energetico, e la sua considerevole produzione di rifiuti. L’andamento dell’ABI confermerebbe l’ipotesi che quello a cui la maggior parte di noi aspira dopo, o nonostante la perdurante pandemia, sia un ritorno alla normalità, alla normalità del 2019, se normalità potessimo definirla, e non già stato di crisi generale. La tesi di chi prevedeva che la crisi sanitaria sarebbe stata solo una interruzione, e auspicava un rapido ritorno al “come prima”, sarebbe in questo caso confermata.

 

Ma è proprio contro questa ipotesi e questo desiderio che tutta la XVII Biennale di Architettura si mobilita, riconoscendo la necessità di profondi cambiamenti, resi ancor più evidenti dalla situazione attuale. Il posticipo di un anno, e la perdurante crisi sanitaria, hanno offerto uno sfondo drammatico alla domanda del curatore Hashim Sarkis, Come vivremo insieme?, How will we live together?.


L’idea di crisi che alleggia su questa biennale non riguarda tanto, o solo, l’odierna emergenza sanitaria, ma risulta ben più profonda. La sequenza che ha portato alla attuale situazione comprende ad esempio le due precedenti crisi sanitarie (MERS e SARS, nel 2012 e nel 2002), la crisi finanziaria del 2008, la crisi della sicurezza  del 2001 (la distruzione del World Trade Center), e la persistente crisi ambientale  che contrassegna gli ultimi decenni. Potremmo anche risalire agli anni Settanta, con la crisi energetica del 1973, e il breve periodo dell’austerità, da una parte; e con il progressivo smantellamento del welfare state e la messa in atto delle politiche neoliberiste dall’altra.

 

Si potrebbero considerare questi anni che stiamo attraversando con grande sofferenza come la chiusura di un ciclo, e un possibile momento di rifondazione (anche dell’architettura), paragonabile a quello che segnò l’Europa nei primi decenni del XX secolo. Quella che venne poi definita l’architettura moderna emerse in quegli anni nell’Europa centrale come risposta alla nuova società industriale. Essa affrontò i problemi posti dalla crescita urbana, dalla richiesta di abitazioni di massa, e dalla necessità di fornire servizi e infrastrutture alla crescente classe operaia, con l’ambizione di offrire nuove condizioni abitative e di lavoro. I quartieri, le scuole, i servizi, i parchi, realizzati nel primo dopoguerra possono essere oggi considerati come un vero e proprio monumento alla socialdemocrazia europea di quegli anni. 

 

Le crisi contemporanee richiedono nuove domande e nuove risposte, suggeriscono nuovi ruoli e responsabilità per gli architetti, impongono nuove riflessioni e la definizione di nuove premesse, valori e obiettivi per l’architettura. Nonostante le generose ambizioni, o forse proprio per questo, la XVII Biennale più che un manifesto per un futuro prossimo, o una presentazione di casi studio significativi a cui ispirarsi, si presenta come una rappresentazione della crisi stessa, un enciclopedico racconto sulle nostre società e sul nostro drammatico rapporto con l’ambiente. 

 

Tutta la XVII edizione della Biennale, sia negli spazi centrali che nei padiglioni nazionali, conferma la crescente attenzione verso i temi di carattere sociale e ambientale. Nelle sezioni curate da Hashim Sarkis troviamo nelle Corderie dell’Arsenale il didascalico tentativo di ripercorrere i processi di costruzione di una nuova società, con un crescendo di esempi che partono dai nostri “nuovi” corpi, e dalla nostra convivenza con altre forme viventi, per continuare con la casa, gli spazi comuni, i villaggi, i quartieri, per arrivare ai servizi, ai parchi, alle istituzioni pubbliche, fino alla complessità delle città, e delle metropoli, dall’India a Beirut, dalla Nigeria a Venezia. Nel Padiglione Centrale ai Giardini si accavallano invece i racconti delle nostre catastrofi, dallo scioglimento dei ghiacciai e l’innalzamento dei mari alla vita nei campi profughi, dall’estinzione delle specie alle diverse forme di segregazione, economica e sociale. Una immersione nei problemi che mira a muoverci e commuoverci, mentre molte delle risposte ci lasciano insoddisfatti o indifferenti. 

 

Si possono tuttavia registrare due profondi e positivi cambiamenti. Da una parte i veri protagonisti sono cambiati: non sono più i nomi già famosi e riconosciuti ad attirare l’attenzione ma i gruppi di lavoro, o di ricerca, che spesso operano all’interno delle università, anche se le ricerche si sono spesso tradotte in astratte rappresentazioni grafiche, o in installazioni velleitarie, così che gli interventi di artisti come Giuseppe Penone (un esile e spoglio albero che sostiene un macigno) o il Museo Aero Solar, della Aerocene Foundation e Tomás Saraceno, risultano molto più efficaci e significativi.       , 

 

Dall’altra parte viene confermata una tendenza  già emersa nelle ultime Biennali. I nuovi temi sociali e ambientali sono oggi interpretati da una architettura che ha abbandonato gli eccessi degli ultimi decenni, rivalutando una dimensione ordinaria, ma nello stesso tempo sofisticata, che pone al centro dei suoi interessi l’esperienza degli abitanti più che le sperimentazioni formali. La presenza del lavoro di Anne Lacaton e Jean-Philippe Vassalle (recenti vincitori del Pritzker Prize), con i loro interventi di riqualificazione dei grandi complessi di abitazioni delle periferie francesi (dove hanno suggerito una alternativa ai radicali processi di demolizione e ricostruzione), o il padiglione belga, ben rappresentano questa nuova sobrietà.

 

Tuttavia, più che da una comune volontà di azione, i lavori presentati in questa biennale sono caratterizzati da una grande assenza. Quasi tutti  i progetti e le installazioni sono calati in un presente carico di presagi di catastrofi future. Ma sorprendentemente sono assenti le riflessioni su ciò che ha portato a questa situazione, sulle scelte, sugli errori commessi, e sulle prevedibili, o sulle inaspettate conseguenze delle nostre azioni sul territorio, l’ambiente, le città. La storia, o le storie, sono bandite da una Biennale che spesso preferisce concentrarsi sulle proprietà dei materiali, sulle proposte di nuova ingegneria sociale, o rinnovare la cieca incrollata fiducia nella tecnologia, come nel progetto di colonizzazione lunare proposto da SOM.

 

Pavillion of Israel. Land. Milk. Honey. Photo by Francesco Galli. Courtesy: La Biennale di Venezia.


Ma è proprio grazie alla ricostruzione storica che siamo in grado di comprendere, ad esempio, le ragioni della riduzione della biodiversità o della povertà del suolo. Nel bellissimo padiglione israeliano (Land. Milk. Honey.), prima di trovarci di fronte ad una macchina scenica che ci presenta l’evidenza dei fatti, cioè i corpi stessi degli animali, comprendiamo come le drammatiche trasformazioni ambientali che oggi siamo chiamati a riparare non siano altro che le inaspettate conseguenze dei processi di ottimizzazione della produzione agricola, dagli interventi di bonifica all’allevamento intensivo, dettati dalla incrollabile fiducia nelle capacità della tecnica di offrirci un futuro sempre migliore. Il padiglione israeliano ci consegna così il filtro necessario per osservare tutta questa Biennale. Si tratta di adottare, nei confronti  delle proposte e dei progetti presentati dagli architetti, quel principio di precauzione che non è molto distante da ciò che Machiavelli già osservava nelle pagine de Il Principe “perché si trova questo, nell’ordine delle cose, che mai si cerca fuggire uno inconveniente che non si incorra in un altro.”

 

Pavillion of Japan. Co-ownership of Action: Trajectories of Elements. Photo by Francesco Galli. Courtesy: La Biennale di Venezia.


La storia riappare anche nel padiglione giapponese, anche se si tratta di una storia del tutto diversa, quella di una modesta casa in legno, smontata nelle sue componenti. Trasportate a Venezia esse sono destinate ad essere riusate per altri scopi. Una proposta che rovescia la predilezione verso il nuovo, suggerendo, anche in Giappone, una attenzione verso il riuso, il riciclo dei materiali, e l’emergere di una nuova estetica. Si tratta di un primo concreto cambiamento nella maniera di concepire l’architettura, legato ad una attenta considerazione dei costi ambientali del costruire, e quindi all’importanza della durata dell’edificio, come dimostra la ricerca condotta da O(U)R e MIT su una casa unifamiliare recentemente completata a Seattle. 

 

L’assenza di ogni considerazione storica riguarda anche gli architetti, e il ruolo che essi hanno svolto negli ultimi decenni. Questa Biennale ripropone infatti in maniera acritica il ruolo dell’architetto come il vero interprete del nostro mondo, e il nostro salvatore. Solo l’architetto sarebbe in grado di superare (secondo le parole di Hashim Sarkis) i limiti posti ad esempio all’azione politica, e offrirci le soluzioni di cui abbiamo bisogno. Si potrebbe quindi interpretare questa Biennale come un grande sforzo per rilegittimare il ruolo dell’architetto e dell’architettura attraverso la riappropriazione di tutte le nuove istanze, e delle parole d’ordine correnti, dalla sostenibilità alla giustizia sociale. Ma ciò di cui abbiamo bisogno oggi non è una architettura delle buone intenzioni, ma di idee e strumenti adeguati. Perché è molto difficile affrontare i problemi con le stesse idee e gli stessi strumenti che hanno contribuito a crearli. 

 

Il primo cambiamento dovrebbe riguardare il ruolo stesso degli architetti. Paradossalmente dobbiamo risalire ad una mostra della Biennale del 2012 per comprendere quanto radicale sia la trasformazione richiesta dopo decenni di esaltazione dello starchitect. In quella precedente edizione della Biennale di Architettura Rem Koolhhaas e Reinier de Graf (con OMA-AMO) avevano presentato quello che forse è stato uno dei più significativi contributi alla discussione sull’architettura contemporanea. Si trattava di una piccola mostra Public Works: Architecture by Civil Servants che, con una certa nostalgia, presentava progetti di edifici e piani urbani risalenti agli anni Sessanta e Settanta. Sviluppati per conto delle amministrazioni pubbliche come quelle di Londra, Amsterdam, Berlino, le foto, i disegni e i modelli raccontavano la stagione del felice impegno di alcuni architetti, non certo famosi, nel lavoro per le pubbliche amministrazioni, in uno degli ultimi sprazzi della costruzione del welfare state europeo.

 

Era stato quindi proprio Rem Koolhaas nel 2012 a registrare la fine di una stagione, quella che potremmo definire, prendendo a prestito un termine coniato dal presidente della Federal Reserve Alan Greenspan per descrivere l’economia degli anni Novanta, l’architettura dell’euforia irrazionale. Una stagione, quella dell’architettura dello starchitect, profondamente legata al neoliberismo che aveva contrassegnato gli ultimi decenni del XX secolo, e l’inizio del XXI. Già allora i critici più preveggenti, ad esempio Manuel de Solà Morales, avevano abbandonato al loro effimero e trionfale destino i sempre più spettacolari edifici, sedi delle grandi istituzioni e delle grandi corporations (dal Museo Guggenheim di Bilbao di Frank Gehry alla sede della televisione centrale cinese, la CCTV, a Pechino di OMA-Rem Koolhaas), auspicando un ritorno ad una architettura che fosse in grado di interessarsi di abitazioni, scuole, parchi, servizi sociali.

 

La crisi finanziaria del 2008 può essere simbolicamente considerata come la fine di questa stagione, e l’inizio di un lungo periodo di riflessione, o autoriflessione, su quello che potrebbe, o dovrebbe, essere il ruolo dell’architetto. Gli architetti, a partire da quelli moderni, hanno spesso suggerito un’automatica capacità dell’architettura di migliorare la società. Dobbiamo invece riconoscere come l’architettura non sia la soluzione dei problemi, ma sia essa stessa parte dei problemi, parte dei processi e dei conflitti, e non un arbitro esterno ed imparziale. 

 

Il particolare contesto della XVII Biennale non ci costringe soltanto a riflettere sul ruolo e il mandato degli architetti, o sui valori e le premesse su cui opera l’architettura, ma anche sul formato stesso della mostra, e della Biennale.

L’attuale Biennale di Architettura riproduce il modello proposto da Paolo Portoghesi nel 1980 con la prima mostra di architettura, La Presenza del Passato, che sancì l’affermarsi del postmoderno in architettura, e che vide nelle Corderie dell’Arsenale la scenografica ricostruzione di una strada, la Strada Novissima, attraverso le facciate progettate dai diversi architetti, da Oma/Rem Koolhaas a Michael Graves e Frank Gehry, da Osvald Mathias Ungers a Charles Moore a Arata Isozaki.

Il modello proposto da Portoghesi ricalcava quello della Biennale d’Arte. Non a caso si sovrapponeva agli sforzi compiuti dai nuovi musei e centri dedicati all’architettura che nascevano in quegli anni, tesi a vedere riconosciuta all’architettura una dignità pari a quella delle altre manifestazioni artistiche, in particolare quelle dell’arte, e quindi pronti a riprodurne i meccanismi espositivi e museografici.

 

Il modello Portoghesi non è però l’unico che abbiamo a disposizione. Risale a pochi anni prima, al 1975 e 1976, l’edizione zero della Biennale, organizzata da Vittorio Gregotti e articolata in una serie di mostre tematiche. Il ritorno alle mostre tematiche permetterebbe oggi di affrontare, in maniera più chiara, strategica e produttiva, i temi che attraversano la nostra società, e che riemergono in questa biennale in maniera frammentata e contraddittoria.

 

Pavillion of Germany. 2038 The New Serenity. Photo by Francesco Galli. Courtesy: La Biennale di Venezia.


Il problema del formato si pone per la stessa istituzione, la Biennale. Molto critiche sono state fatte in questi mesi alla Biennale, ad esempio applicando le valutazioni di sostenibilità ambientale ad una mostra come quella di architettura, o riesaminando il ruolo della Biennale stessa, che continua ad alimentare i tradizionali flussi e meccanismi del turismo, ormai problematici in una città come Venezia. Molti padiglioni in questi mesi non hanno aperto. Alcuni tra quelli chiusi, come ad esempio quello canadese, o aperti, come quello tedesco, hanno demandato alla dimensione digitale la comunicazione dei loro progetti. Il padiglione che ha in maniera radicale trasformato questi mesi di sospensione in una nuova strategia è stato quello russo, che ha prodotto una serie di incontri e contenuti disponibili online lungo tutto il 2020 e 2021, suggerendo non una risposta ad hoc alla particolare situazione prodotta dalla pandemia, ma una diversa condizione permanente di produzione e comunicazione.

 

Una mostra e una istituzione in grado di operare al di fuori dei consueti meccanismi, capaci di costruire un progetto a lungo termine, legato alla ricerca, agli archivi (ora ricollocati a Venezia, all’Arsenale), con una rete internazionale di collaborazioni, con una produzione che si svolga lungo tutto il corso dell’anno, e una rafforzata presenza editoriale ed online potrebbero offrire alla Biennale una nuova collocazione, forse più adeguata alle nostre nuove condizioni.

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