Le belle e le bestie: Zucchi e Ligresti

20 Febbraio 2012

Al giorno d’oggi l’architettura è diventata oggetto dell’interesse di molte persone. Non che negli ultimi tempi sia considerevolmente aumentato il numero degli appassionati o degli esperti. Piuttosto è cresciuta la nostra attenzione nei confronti dell’ambiente in cui viviamo. E con sempre maggiore frequenza il nostro habitat “naturale” è l’ambiente urbano, costituito essenzialmente di edifici.

 

Gli edifici che ci circondano nella maggior parte dei casi ci lasciano indifferenti; in qualche occasione riescono a entusiasmarci; in molte altre hanno la capacità di ferire la nostra sensibilità. Con una forza che solo l’architettura – in quanto “arte” sociale e spaziale – possiede, essa è in grado di comunicarci un senso di esaltazione e di pienezza, ma anche di disturbarci, se non addirittura di urtarci letteralmente, di rovinarci la vita. Se alla prima categoria di edifici appartengono rari ma preziosi splendori, la seconda è invece pullulante di insopportabili orrori.

 

Al di là di ciò ch’è immediatamente intuibile, gli uni sono quegli edifici che, alla bellezza formale, sanno unire l’appropriatezza, la pertinenza, la capacità di non assolvere semplicemente alle proprie funzioni ma anche di “arricchire” i luoghi in cui sorgono, e di conseguenza anche noi; gli altri si distinguono invece per l’invadenza dimensionale, la mancanza di grazia, la volgarità, la banalità, l’erroneità, la stupidità, in una sola parola per la profonda inutilità, che ai nostri occhi costituisce uno sfregio del buon senso e uno spreco di risorse.

 

Dopo la comune battaglia condotta contro il pessimo progetto sull’area ex Enel a Milano, doppiozero e gizmoweb (autore collettivo del volume MMX Architettura zona critica, Zandonai 2010) propongono ora la rubrica “Le belle e le bestie”. Suo intento è quello di segnalare gli splendori e gli orrori presenti nelle nostre città e nei nostri paesi. Edifici meravigliosi ed edifici mostruosi; edifici amabili ed edifici detestabili; edifici provvidenziali ed edifici malefici. Edifici che non si cesserebbe mai di guardare ed edifici che si vorrebbe soltanto veder scomparire.

 


 

Potenzialità milanesi

 

Posti al crocevia tra viale Serra e viale Scarampo e, insieme, a ridosso dell’urbanizzazione consolidata di viale Certosa e piazzale Accursio, gli edifici residenziali progettati da Cino Zucchi nell’area in cui insistevalo stabilimento dell’Alfa Romeo fungono da cerniera tra il sistema di infrastrutture che collega l’autostrada dei Laghi con la circonvallazione esterna di Milano e la spazialità della città di stampo ottocentesco.

 

Zucchi dialoga con tale complessità attraverso l’ideazione di una serie di costruzioni che, grazie alla loro disposizione nello spazio e ai loro caratteri architettonici, costituiscono la rappresentazione dialettica di contrapposte istanze urbane, funzionali, ma anche commerciali. Agli edifici in linea costruiti a ridosso di via Traiano e viale Serra per tracciare una continuità con le cortine edilizie esistenti si affiancano delle costruzioni a torre di cui alcune scandiscono l’asse pedonale pensato da Gino Valle, mentre altre sono disposte liberamente nello spazio.

 

Gli edifici sono pensati come landmark. In una visione fuggevole dal finestrino dell’automobile è la massa dei fabbricati e la tessitura dei fronti a permettere di dotare l’area di diversificati punti di riferimento visivi: alla trasparenza, alla leggerezza e al susseguirsi di grandi vetrate, si predilige la sostanza del costruito attraverso l’utilizzo di rivestimenti in cotto e in pietra. Ma gli edifici non sono solo segni nello spazio: essi devono anche rispondere positivamente alla funzione in questo caso abitativa per cui sono realizzati. Se l’organizzazione degli appartamenti è del tutto convenzionale in aderenza alle attuali richieste degli operatori immobiliari, Zucchi concentra la sua attenzione progettuale lì dove permane un margine d’azione per perseguire una   dell’abitare. Alla scomparsa della “facciata”, che ormai caratterizza molti degli ultimi interventi milanesi, si privilegia così la differenziazione dei fronti e il posizionamento dei diversi locali in relazione all’orientamento solare e al contesto; mentre i profili delle coperture, gli alti porticati in pietra al piano terra, la tessitura dei fronti, i balconi a sbalzo e i sottili telai, nel riproporre il lessico di alcune architetture dei professionisti milanesi del secondo dopoguerra, costruiscono l’immagine di un’architettura che accetta la sua contraddittoria natura di manufatto commerciale, di simbolo urbano e di prodotto culturale e rimane comunque in grado di dimostrare la sua necessità, la sua tradizione e la sua bellezza.

 

Gabriella Lo Ricco

 

 

 

 

 


 

Residui solidi urbani

 

Le ho davanti per cinque giorni su sette, inquadrate dalla finestra dello studio in cui lavoro, sito a sua volta in un edificio costruito dal clan Ligresti una quindicina di anni prima: sono tre torrette per uffici risalenti agli anni Ottanta del secolo scorso, coronate dal famoso piano vuoto, marchio di fabbrica di questo immobiliarista che ha rovinato diverse parti di Milano e, ironia della sorte, porta il nome di Salvatore.

 

E vuoti non sono solo gli ultimi piani, ma gli edifici interi, visto che nessuno vi lavora più: si potrebbero dire cattedrali nel deserto, se avessero la dignità di cattedrali e se attorno non avessero una città. Sono piuttosto ferite aperte in un’area già martoriata da altri edifici simili, dal traffico delle cinture esterne, dai terreni abbandonati e da altre miserie di questo impasto periferico, che sigilla gli interstizi fra la città consolidata e quel che resta della campagna, verso la quale si sta velocemente espandendo.

 

La bestialità di questi edifici sta soprattutto in ciò che simboleggiano: l’uso del territorio come mera risorsa affaristica, luogo di transito dei grandi capitali. Queste ingombranti rovine di calcestruzzo e vetro sono il sedimento di un’operazione finanziaria, e qualcosa di simile continua a succedere, giorno per giorno, in una città che non si ribella abbastanza.

 

 

Mauro Sullam

 

 

 

 


 

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