Le ceneri di Abbado

29 Gennaio 2014

In presenza della musica, la potenza dei simboli si accresce in misura esponenziale. (Il che si deve forse allo speciale regime semiotico della musica, alla sua capacità – da sempre invidiata dalle altre arti – di trasmettere senso senza dover per forza ricorrere a significati.) E così ha avuto una clamorosa forza icastica la scelta del Teatro alla Scala, la sera del 27 gennaio, di ricordare a una settimana dalla morte colui che era stato suo Direttore musicale dal 1969 al 1986 – Claudio Abbado, scomparso a Bologna, appunto, lo scorso 20 gennaio – facendo eseguire dalla sua orchestra, diretta da Daniel Barenboim, la Marcia funebre dall’Eroica di Beethoven, nella sala vuota con le porta aperte e il pubblico fuori, nella piazza antistante il Teatro. Più di ottomila persone, dicono le cronache (saranno cifre fornite dalla Questura o dagli organizzatori?). Per fortuna la RAI ha dato una diretta dell’esecuzione, che si può vedere su You Tube. Ignoravo che si trattasse di una precisa tradizione scaligera: nel ’57 l’Eroica venne suonata per Toscanini diretta da De Sabata, nel ’96 da Muti per Gianandrea Gavazzeni e nel 2005 per Carlo Maria Giulini da Myung Whun Chung. Ma l’episodio più suggestivo resta senz’altro quello del 1967: quando per ricordare Victor De Sabata l’orchestra eseguì il brano senza direttore (Gavazzeni quella sera non poté o non volle? o fu una scelta degli orchestrali?).

 

L’effetto della sala vuota, mentre l’orchestra suona al gran completo e con la massima partecipazione, è di un surreale degno di Ionesco; e risulta ulteriormente accentuato dalla scelta della RAI di isolare i suoni della sala rispetto a quelli provenienti dall’esterno. Cosicché l’applauso del pubblico, alla fine, resta muto (con un effetto acquario che non dispiace: evitando che retroagisca l’usanza burina, da tempo invalsa, di applaudire alle esequie il passaggio della bara). Come accolto dal silenzio, anziché dalle consuete ovazioni preventive, era stato all’inizio l’ingresso in sala di Barenboim.

 

Non capivo perché questa prossemica inusuale mi colpisse tanto, finché non mi sono ricordato la scena di un filmaccio che a sua volta mi colpì molto quando lo vidi – ero allora un tredicenne letteralmente fanatico di musica classica –: Bolero di Claude Lelouch (Les uns et les autres, 1981). Si tratta di un mélo abbastanza efferato, che affronta in chiave musicale – con tutti gli stereotipi del caso – le tragedie della guerra e della persecuzione razziale (ma si riscatta, alla fine, con una memorabile coreografia di Béjart del pezzo di Ravel che al film dà il titolo italiano e inglese). A un certo punto uno dei personaggi, il pianista e direttore d’orchestra tedesco Karl Kremer (interpretato da un Daniel Olbrichski adorno di chioma debitamente fiammeggiante), che in patria aveva continuato la sua carriera sotto il nazismo ricevendo gli apprezzamenti di Hitler, fa il suo esordio a New York. Solo che, la sera del concerto, trova appunto la sala vuota. Gli ebrei della città hanno acquistato tutti i biglietti e boicottato la serata, per protesta contro il suo collaborazionismo. A quel punto Kremer e i suoi orchestrali fanno buon viso a cattivo gioco: ed eseguono lo stesso il programma concordato.

 

La scena di Lelouch allude a quella che pare sia solo una leggenda metropolitana, legata alla biografia di Herbert Von Karajan. Il cui esordio newyorkese, nel 1955, fu effettivamente contestato dagli ebrei della città, i quali organizzarono un picchetto fuori dalla Carnegie Hall. (Che essi fossero stati addirittura in grado di comprare in blocco tutti i biglietti, se è una trovata scenicamente irresistibile, a ben pensarci è anche un’idea sottilmente antisemita.) Karajan era stato in effetti il cocco di Hermann Goering, si era iscritto per ben due volte al Partito Nazista, e ne aveva diretto l’inno Horst Wessel in diverse manifestazioni ufficiali; nel ’35 eseguì il Tannhäuser di Wagner al compleanno di Hitler.

 

Quando nel ’38 trionfò col Tristano alla Staatsoper di Berlino, il critico Edwin von der Nüll scrisse un pezzo dal titolo Das Wunder Karajan, che esaltava la nuova stella del firmamento musicale germanico – e che sin dal titolo (parafrasando quello che aveva lanciato la carriera di Furtwängler) lo poneva in contrapposizione a chi continuava a tenere in pugno i Berliner Philharmoniker, appunto Wilhelm Furtwängler, che notoriamente non era iscritto al Partito (e che in più d’una occasione, anzi, ad esso si era opposto) ma che ciò malgrado restò sempre il direttore prediletto da Goebbels e, pare, dallo stesso Hitler. Cosicché poté restare sul podio più importante del Reich sino alla caduta del regime (guadagnandosi a sua volta non poche grane nel dopoguerra, col processo di denazificazione: la storia l’ha raccontata István Szabó in A torto o a ragione, Taking sides, un film del 2001 con Harvey Keitel e Stellan Skarsgård).

 

Che la carriera di un direttore d’orchestra potesse contare così tanto, per un potere assoluto com’era quello nazista, potrà sorprendere qualcuno. Ma anzitutto i Berliner svolgevano nel mondo il ruolo di inattaccabile ambasciatore della Kultur tedesca, e a Goebbels non poteva sfuggirne l’importanza: a dispetto, e anzi a ben vedere in virtù, della loro relativa indipendenza dal regime (usando insomma l’autonomia della cultura a fini eteronomi, come da noi faceva il Bottai di Primato; è un meccanismo che si capisce bene leggendo il libro di Misha Aster, L’orchestra del Reich. I Berliner Philharmoniker e il nazionalsocialismo, Zecchini 2011). E poi la figura del direttore d’orchestra non poteva e non può non affascinare chiunque, in posizioni di potere, coltivi tentazioni autoritarie (pare che tra i fan più scatenati di Karajan, tanti anni dopo, si annoverasse Margaret Thatcher…).

 

Lo ha scritto per primo, e meglio di tutti, Elias Canetti in Massa e potere: «Non esiste un’espressione del potere più ovvia dell’esibizione di un direttore d’orchestra. Ogni particolare del suo comportamento in pubblico è significativo; qualunque cosa egli faccia, getta luce sulla natura del potere. Chi non ne sapesse nulla, potrebbe dedurre l’una dopo l’altra tutte le caratteristiche del potere da un attento esame del direttore d’orchestra».

 

Fra i miei ricordi televisivi più indelebili, in effetti, due hanno contribuito in misura decisiva a instillarmi qualche sospetto sul potere incantatorio della musica sinfonica, e dei suoi stregoni assisi sul podio: in uno Riccardo Muti, durante qualche festival estivo, dirigeva con piglio ducesco, in camicia nera, un’orchestra in cui tutti gli strumentisti, al contrario, vestivano di bianco (Canetti: «Il direttore d’orchestra sta in piedi. La posizione eretta dell’uomo è ancora importante, quale antica memoria, in molte rappresentazioni del potere. Il direttore sta in piedi da solo. Intorno a lui siede l’orchestra, dietro di lui siedono gli ascoltatori: egli sta in piedi, da solo, in modo appariscente. Il direttore sta in piedi in luogo elevato ed è visibile davanti e dietro.

 

I suoi movimenti agiscono in avanti sull’orchestra e all’indietro sugli ascoltatori»). Ma soprattutto in un altro Von Karajan, proprio, sfrecciava a duecento all’ora al centro della Foresta Nera, al volante di un’inscalfibile Mercedes metallizzata, con la Marcia dei pellegrini del Tannhäuser a palla sullo stereo. Mai come in questo fermoimmagine mi si è rivelata l’essenza trans-storica del fascismo (quello ideale eterno incarnato a perfezione da un nazista storico come lui). Ancora Canetti: «Per l’orchestra il direttore rappresenta effettivamente l’intera composizione nella sua simultaneità e nella sua sequenza; poiché durante l’esecuzione il mondo non deve consistere d’altro che della composizione, il direttore è, finché essa dura, il sovrano del mondo» (traduzione di Furio Jesi in Id., Opere 1932-1973, Bompiani 1990, pp. 1461-4).

 

Proprio per questo ho amato Claudio Abbado, pur senza averlo mai conosciuto (e nemmeno ascoltato dal vivo), come un padre fantasma. Un padre sostitutivo, rispetto a quello problematico nel cui fantasma psichicamente permanevo (e permango). Un padre la cui indiscutibile autorità si conciliava con una genuina, autoevidente democrazia. (Lo si guardi rispondere a Fabio Fazio o a Luciana Littizzetto, in uno dei tanti documenti che la televisione, alla sua morte, ha mandato in onda per celebrare se stessa, anziché lui; tutti gli intellettuali del suo livello che per un qualche tiro della sorte si trovino in quel tipo di situazione sono accondiscendenti, snobisticamente servili o al contrario vanamente provocatorî, imbarazzati di sé e dell’interlocutore, insomma si vergognano; lui no: è a suo agio, si diverte, è tranquillo e determinato a trasmettere i contenuti che gli interessa trasmettere, al pubblico più ampio possibile) Abbado apparteneva a quella generazione di intellettuali che non avevano complessi nell’educare il pubblico: quelli che, con sprezzo del ridicolo, e con la stessa serenità con la quale si sottoporranno a Fabio Fazio, andavano a suonare Luigi Nono agli operai in fabbrica. Se non un padre (al netto delle tare psichiche di chi ne è ossessionato), Abbado era insomma un capo. Ma non era un fascista – anzi, il contrario.

 

Che la sinistra abbia avuto esattamente questo problema, dopo il Sessantotto (toccò proprio ad Abbado – nominato direttore appena trentacinquenne, con scelta molto nello spirito del tempo – dirigere la prima del Don Carlo scaligero la sera di Sant’Ambrogio del ’68, quella delle uova di Mario Capanna alle signore impellicciate del pubblico), lo capì Federico Fellini nell’annus terribilis. Prova d’orchestra esce nelle sale all’inizio del ’79, ma viene concepito e realizzato l’anno precedente. A posteriori confesserà, Fellini: «non sentivo l’urgenza di fare questo. Non corrispondeva a un bisogno. A un certo punto il bisogno l’ho sentito, quando hanno ammazzato Moro. […] Che cosa avevano voluto fare quelli che l’avevano ammazzato? Che ci era successo a tutti noi che viviamo in questo Paese? Perché eravamo ridotti a questo punto? Tra questo e il film non c’è stata nessuna connessione diretta, o almeno io non me ne sono reso conto.

 

Il nesso l’ho percepito molto tempo dopo, quando il film era già finito, anzi quando era già in programmazione» (cit. in Franca Faldini e Goffredo Fofi, Il cinema italiano d’oggi, 1970-1984. Raccontato dai suoi protagonisti, Mondadori 1984, p. 258). Il film presenta appunto le prove di un’orchestra, all’interno di un antico oratorio. Una troupe televisiva intervista i vari orchestrali, ciascuno narcisisticamente chiuso nella propria idiosincrasia aneddotica. Quando arriva il direttore, un tipo autoritario dall’accento caricaturalmente germanico, scoppia la contestazione. Tutti litigano con tutti, scritte di protesta vengono tracciate sulle mura, risuonano dei boati dall’esterno. Finché la gigantesca palla d’acciaio di una gru sfonda il muro; viene giù una parete della sala, nel crollo muore l’arpista. Dopo qualche istante di confusione e di silenzio, il direttore torna sul podio. Stavolta, tutti gli obbediscono ciecamente.

 

Risponde a un caso la prossemica dell’altra sera alla Scala (che discende, come detto, da una specifica tradizione). Come a un caso, evidentemente, risponde la concomitanza col Giorno della Memoria (ci si ricorda come proprio a Barenboim sia toccato, nel 1990, dirigere i Berliner Philharmoniker in Israele: per la prima volta, cioè, da quando la loro direzione era stata affidata a Karajan, dal ’55 alla sua morte nell’89 – sino al 2002, a succedergli sarà proprio Abbado – nel 2001 riuscirà anche, fra mille polemiche, a far cessare il bando all’esecuzione di brani di Wagner; oggi, per ironia della sorte, fuori dalla Carnegie Hall si manifesta contro l’Orchestra Filarmonica di Israele esattamente come sessant’anni fa contro Karajan…).

 

Diceva Canetti, sempre in Massa e potere, che se l’Italia si è conservata tutto sommato abbastanza immune al morbo totalitario del Ventesimo Secolo, ciò si è dovuto alla sproporzione schiacciante fra la grandezza del passato (anche in senso fisico, architettonico) e le circostanze prosaiche del presente: «Gli edifici di massa dell’antichità sorgevano ancora intorno, vuoti; l’anfiteatro era una rovina molto ben conservata. Ci si poteva sentire in esso privi di diritti e ripudiati». Non a caso, prosegue Canetti, il fascismo mussoliniano si baloccò con l’iconografia classica e «si gettò nel costume genuino ed antico. Ma non gli stava affatto a pennello, era troppo largo, ed esso vi si agitava dentro con tale veemenza che lo ruppe tutto» (cit., pp. 1188-9). La sala vuota e muta della Scala, l’altra sera, fotografa a perfezione una sfiducia atavica quanto salutare, nei confronti di Capi che si agitano troppo. E, al contempo, il pubblico che si assiepa fuori rappresenta il miglior omaggio a chi, come Abbado, senza mai agitarsi è stato capace di fare cultura anche fuori dal tempio, appunto: di portarla, cioè, là dove ce n’è davvero bisogno.

 

Sarà il caso di ricordarsene, oggi che la nostra sedicente sinistra con un brivido si scopre ipnotizzata (non per la prima volta, certo; ma mai, mi pare, con tanta catastrofica spensieratezza) dal culto per la leadership. Concetto che in tedesco, in modo appena meno glamour, potrebbe suonare Führerprinzip.

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