Le idee non valgono niente
Le idee non valgono niente. Letteralmente. Eppure la retorica delle buone idee prolifera: avere idee sarebbe l’unica strada possibile verso l’innovazione, e quindi per l’uscita dalla crisi sociale ed economica che non sembra volersene andare più. Capita sempre più spesso di sentire frasi come: “Mi alleno ad avere almeno una buona idea a settimana”. Tutti vogliono essere speciali, tutti vogliono avere idee speciali ed una chance di essere un genio, anche solo per 15 minuti.
Questo grande quadro naif della creatività ha come figure centrali i guru-imprenditori della tecnologia: è grazie alle idee che le nuove popstar Steve Jobs, Bill Gates e Mark Zuckerberg sarebbero diventate gli artefici del mondo in cui viviamo.
Quello che sembra sfuggire a molti è il fatto che le buone idee oggi si trovano dappertutto: strabordano dai gruppi di discussione su Facebook; vengono sparate al ritmo di 140 caratteri su Twitter; vengono prodotte e rilanciate dai blog di decine di migliaia di media guru, opinionisti ed esperti. Secondo Kevin Kelly, fondatore di Wired e tra gli osservatori più autorevoli dei mondi digitali, il 90% di quello che si trova online è immondizia. Eppure, sottolinea Kelly sul blog Jewcy, la nostra attenzione si deve soffermare sulla straordinaria qualità del restante 10%, e su come questo stia cambiando la sfera della cultura. Se oggi sono in rete 181 milioni di blog (secondo il report Nielsen sull’uso dei media sociali), vuol dire che quasi 20 milioni producono regolarmente buone idee. È proprio questa abbondanza che le rende senza valore economico immediato. Qualsiasi studente universitario ci può dire che - almeno a partire dagli economisti classici - il valore di un bene viene definito prevalentemente dalla sua scarsità: se vivessimo in un mondo fatto di caviale, nessuno sarebbe disposto a sborsare grandi cifre per averne dell’altro. Noi viviamo in un mondo nel quale basta connettersi ad Internet per essere sommersi dalle buone idee, ed è proprio questa abbondanza che le rende senza valore economico.
È per questo che le nuove forme di economia basate su risorse immateriali - come la creatività e l’innovazione - sono costantemente alla ricerca di definizioni alternative del valore che non si basino sulla scarsità e sull’abbondanza. Non è un tema nuovo. Il dibattito su quella che viene chiamata “post-scarcity” si è sviluppato a partire dalle riflessioni critiche sul senso della proprietà intellettuale riguardo a beni digitali, riproducibili all’infinito, come il software. Già nel 1985, nel manifesto che ispirò il movimento per il software libero, il suo co-fondatore Richard Stallman scriveva che “rendere i programmi liberi è un passo verso un mondo della post-scarsità, nel quale nessuno dovrà lavorare duramente solo per sopravvivere”.
Fin dai suoi albori la fantascienza aveva immaginato realtà nelle quali non si conosce il concetto di scarsità: George O. Smith, nel suo Pandora’s Millions del 1945, aveva descritto un pianeta Terra nel quale si possono duplicare senza sforzo oro e materiali preziosi, mentre il più recente L’Era del Diamante di Neal Stephenson si svolge in un mondo futuro nel quale le città nascono dai semi ed i beni di consumo si replicano gratuitamente con dei macchinari che si trovano in ogni cucina.
Se la fine della scarsità materiale è un tema per la fantascienza, da alcuni anni nel mondo della rete è un fenomeno già in atto, almeno al livello immateriale.Il saggista statunitense Clay Shirky parla a questo proposito di “surplus cognitivo”nel libro omonimo edito in Italia da Codice Edizioni: un’abbondanza senza precedenti di immagini, video, suoni e testi prodotti spontaneamente e gratuitamente dalle masse di utenti della Rete. Secondo Shirky, con il diminuire degli spettatori televisivi - “drogati” passivamente di contenuti proprio come degli alcolisti - aumenterà esponenzialmente il numero di beni immateriali in circolazione.
Lo scrittore Bruce Sterling ha descritto spesso scenari futuri nei quali la scarsità non sarà più un problema. “Sembra logico che le ‘idee’ nel campo della produzione immateriale seguiranno il corso già tracciato dalle ‘idee’ nella musica e nel giornalismo”ci dice; “le ‘idee’ sono abbondanti e facili da cercare, quindi il valore economico si orienta sempre di più verso la performance dal vivo. I concerti sono i nuovi contratti di registrazione, gli eventi sono i nuovi giornali e, in qualche modo, il crowdsourcing diventerà lo strumento per la redistribuzione di beni e servizi”. Secondo Sterling, saranno quindi le folle (“crowd”) organizzate attraverso le nuove tecnologie a fornire ed organizzare le risorse necessarie ad affrontare il futuro. Non è un caso che per i gruppi musicali -emergenti e non - i concerti rappresentino oggi la principale fonte di sostentamento. È il valore dell’unicità dell’esperienza dal vivo che conta sempre di più, in un mondo nel quale ogni cosa può essere sempre di più copiata, riprodotta, simulata.
Ma che tipo di organizzazione può avere una società che si basa sempre di più sull’immateriale e nella quale, allo stesso tempo, questo tipo di risorse sono così abbondanti da avere sempre meno valore? Per Adam Arvidsson, autore del libro Ethical Economy in uscita per la Columbia University Press, la risposta sta nell’articolazione del rapporto tra economia e politica: “perché le idee abbiano veramente un valore, è necessario raggiungere un consenso all’interno delle comunità, stabilire in qualche modo una nuova convenzione del valore. Le idee hanno un valore d’uso (la capacità di un bene di soddisfare un determinato bisogno), ma è difficile trasformarlo in valore di scambio (commerciale): la risposta al problema della loro remunerazione è sostanzialmente politica. L’economia della reputazione è una possibile risposta, anche se non è stata ancora articolata: in qualche modo, il valore economico di un’idea potrebbe essere misurato dal numero di volte che viene citato, linkato, menzionato online”.In altri termini, le idee potrebbero essere sottoposte ad un processo di revisione da parte delle comunità online, proprio come oggi succede agli articoli scientifici: tanto più un articolo viene citato da altri membri della comunità scientifica, tanto più il suo valore cresce. Sembra fantascienza? Eppure è quello che succede già da anni, laddove elementi immateriali (la fiducia, la reputazione e la creatività) vengono scambiati con privilegi molto concreti, come una maggiore banda disponibile per scaricare film in modalità peer-to-peer.
Eppure, ci ricorda Alessandro Delfanti (docente di sociologia dei nuovi media alla Statale di Milano) il problema va inquadrato in modo più ampio: “questo non significa che un mondo senza brevetti e copyright sarebbe un paradiso della post-scarsità. Le dinamiche di potere sono ben più complesse e difficili da scardinare. Per esempio, mettere a disposizione di un paese povero software libero è un obiettivo sacrosanto, dato che il free software è uno strumento fantastico che accresce l’autonomia e apre a maggiori possibilità individuali e collettive. Ma ciò non allontanerebbe di per sé il paese dalla periferia dello sviluppo tecnologico ed economico”. Un processo di innovazione sociale più ampio, insomma, che sia in grado di ragionare nei termini di una sostenibilità a più livelli.
L’ipotesi dell’economia della reputazione è uno dei possibili sviluppi per il futuro: un sistema in grado di strutturare un’ecologia delle idee, nel quale sia possibile convertire il pensiero creativo in una forma tangibile di benessere. Una moneta virtuale in grado di misurare quanto le idee (ed il modo di comportarsi, la fiducia che si ripone in noi) siano ritenute valide dalle comunità nelle quali si è inseriti. Una valuta che consenta di usare le idee - questa materia preziosa che non vale niente - per pagare finalmente l’affitto di casa.
Questo testo è apparso in versione ridotta su IL di Settembre. Lo riproponiamo qui in forma integrale, nel quadro degli interventi curati da doppiozero all’interno del premio cheFare.
Bertram Niessen
Twitter @bertramniessen