Tu chiamale se vuoi emozioni / L'empatia e il processo invisibile
Nei momenti di grande trasformazione come l'attuale sembra che le urgenze strangolino e soffochino ogni spazio. I "saperi sul mondo" si evolvono drasticamente creando difficoltà serie alla conoscenza, i paradigmi consueti si fratturano di fronte a impreviste ‘scintille’, la vita individuale e le relazioni collettive sono sottoposte a stressanti torsioni.
Permangono però negli anni alcune invarianti, talora in auge e talora depresse, talora accettate e talora rifiutate, talora dimenticate e talora approfondite. Lo “stato affettivo” è tra queste: la sua presenza è millenaria, la fortuna oscillante a causa della 'narrazione convenzionale' spesso antagonistica alla ragione, il credito filosofico passato scarso mentre quello presente alto, l’attenzione letteraria-editoriale sensibilizzata, quella psicologica preziosa, quella scientifica innovativa, quella giuridica controversa.
Un po’ tutti, nelle varie discipline, se ne sono occupati ma, ci si chiede: perché questi stati continuano ad interessare? È la domanda che si pone Martha Nussbaum, ormai da decenni impegnata su questi temi sia sul versante individuale che in quello collettivo, e da ultimo con Rabbia e perdono (Il Mulino, Bologna, 2017). E la risposta, forse banale, è che gli stati affettivi rappresentano una costante che appartiene all’essere umano, riguardano la coscienza individuale in relazione con il mondo esterno. Alcuni di essi sono più ancorati alla storia della civiltà, altri più contemporanei, come segnala il non dimenticato volume collettivo I sentimenti dell’aldiquà. Opportunismo, paura, cinismo nell’età del disincanto (Theoria, Roma-Napoli, 1990). I sentimenti sono proiezioni del sé, sono marcatori dell'originalità individuale. E le emozioni, che fanno parte di questa grande famiglia, rappresentano la reazione articolata e complessa agli stimoli, siano essi piacevoli o spiacevoli, come ha ricordato anni prima la Nussbaum (L’intelligenza delle emozioni, Il mulino, Bologna, 2004).
Eppure le differenze esistono, come la studiosa rimarca: il sentimento è durevole nel tempo e non si esaurisce in stimoli momentanei, è mosso da una causa ignota, è direttamente percepibile. L’emozione invece è una condizione intensa, circoscritta, di breve durata, reattiva a fronte di una causa precisa. E poi entra in gioco la 'disposizionalità' del sentimento su cui ha insistito la De Monticelli (L'ordine del cuore, Garzanti, Milano, 2008), cioè quella suscettibilità in grado di generare e formare gli stati affettivi. I primi, cioè i sentimenti, sono inclinazioni-disponibilità del sentire, i secondi, cioè le emozioni, sono situazioni insorte e in atto.
Le emozioni inoltre formano un ampio repertorio di sostegno all’agire e possono accompagnarsi con espressioni del volto. Il loro è un linguaggio universale (esemplare il recente saggio di J. Plamper, La storia delle emozioni, Il mulino, Bologna, 2018) e le risposte che forniscono sono un dato costante e condiviso tra gli uomini al di là di etnie o epoche. Sono i 'sommovimenti del pensiero' di cui parlava Proust, forniscono motivazioni, sono reazioni a quanto spesso sfugge. Pur diverse tra loro, tra loro sono imparentate in quanto, come osservavano gli stoici cui la Nussbaum rinvia, non si tratta di 'venti irrazionali e incontrollabili' ma di approcci ‘cognitivi'. Essi forniscono giudizi, hanno il carattere della ' intenzionalità' in quanto l’oggetto appare nel modo in cui lo vede la persona, informano sul mondo in base a valutazioni che riguardano i progetti personali individuali. Non solo: esprimono ' credenze' sull'oggetto, come a proposito del lutto davanti al quale certi popoli reagiscono felici perché credono che la tristezza conduca alla malattia. Nella stessa situazione altri invece credono l'opposto, e cioè che ci si ammala se non si piange.
E così la studiosa, dopo aver esaminato in passato alcuni stati (Nascondere l’umanità. Disgusto, vergogna e legge, Carocci, Roma, 2011), si occupa ora della rabbia e del perdono.
La prima condizione, e cioè la rabbia, è sempre negativa perché strutturata su una componente punitiva, quindi è distruttiva, carica di odio, fa male agli altri. Non è mai giusta e non può confondersi, né alimentare il senso di giustizia. Né è funzionale al prevenire gli eventi accaduti come i reati, perché nulla restituisce quello che si è perso. Essa cancella in realtà soltanto l’ansia di punire, come quando un fumatore sostiene che il fumo gli fa bene perché lo calma, quando proprio è l’astinenza da nicotina a metterlo in agitazione. Può essere considerata una costruzione culturale che nel passato rivelava segni di inferiorità, ma da sempre anima le civiltà, e soprattutto da quando è esistita la lotta con forze nemiche o sopraffattrici. La rabbia infatti segnala un malessere, scuote le minoranze, le agita e le rinforza. Nel contempo però crea una rivalsa foriera di sviluppi negativi, ma svanita nella rabbia ‘da transizione’, cioè quella che si proietta sul futuro, espressa nella classica frase ‘mai più’.
Per quanto riguarda il perdono, esso va trattato con cautela in quanto implica una gerarchia morale, umilia, denota la superiorità dell’uno sull’altro essendo costruito su un procedimento fittizio in cui uno si addossa il carico dell’altro per usare le parole della Arendt (Ingiustizia, vendetta, riconciliazione perdono, Quaderni e diari 1959-1973, 2007, e in Doppiozero 2018). Il gesto del perdono distrugge l’eguaglianza, il fondamento delle relazioni umane, e nella versione collettiva ' sospende i riflessi della legge'. Ben diversa è la riconciliazione, in cui ci si rassegna all’accaduto ristabilendo l’eguaglianza, in quanto uno si carica volontariamente il fardello che l’altro porta comunque, come l’esperienza sudafricana di Mandela insegna.
La Nussbaum non limita la riflessione ai sentimenti dell’individuo, ma la estende al versante pubblico, come fece già in passato. E ne rileva gli aspetti pericolosi quando si tramutano in ‘pulsioni emotive’ in quanto queste ultime creano stigma, discrimine, antisocialità. Sono invece da valorizzare le emozioni ‘creative’, tra tutte la 'compassione', vero cavallo di battaglia della studiosa.
In questo quadro manca ancora un protagonista, antico e moderno, diffuso e fortunato, dai contenuti sfumati ed eclettici, l’empatia.
Nel 2006 l’allora senatore B. Obama parlando agli studenti segnalava il ‘deficit empatico’, nel 2007 candidato alle presidenziali definì l'empatia un requisito essenziale per giudicare gli altri e ancora nel 2009 confermò la sua opinione in occasione della nomina di un giudice alla corte suprema
Il termine è usato nelle discussioni private, ne parlano studiosi dei primati come De Waal (Età dell'empatia, Garzanti, Milano 2011), futurologi come Rifkin (La civiltà dell'empatia, Mondadori, Milano 2010), studiosi di estetica come Pinotti (Empatia, storia di un’idea, Laterza, Bari, 2017). Se ne coglie il significato generico come 'mettersi nei panni degli altri', ma con poche, ulteriori specificazioni.
La Nussbaum offre un contributo anche al riguardo, sottolineando che l’empatia è uno specchio. Svolge una funzione cognitiva anch'essa, in quanto in grado di rivelare gli stati affettivi altrui controllandoli ma senza investimenti emozionali partecipativi, senza simpatia, come ha ricordato una studiosa italiana (Boella, Empatie, Raffaello Cortina, Milano 2017). Si tratta di ‘sentire’ l’altro, avere con lui una distanza comprensiva in modo da superare l'imperante narcisismo egoista, riaggiornando così le nozioni di giustizia sociale e solidarietà lievemente oggi appannate.
Invero altre opinioni propongono un taglio diverso, quasi opposto, e parlano di "compassione emotiva", di condivisione vicaria delle emozioni altrui, d’identificazione con l’altro attraverso la spontanea e non mediata ‘intuizione in modo da avvicinarsi sempre più alla dimensione umana (tra i filosofi del diritto Di Giovine Un diritto penale empatico?, Giappichelli, Torino, 2009).
Non mancano poi i critici dell’empatia. Tra questi, oltre i lacaniani guidati da Recalcati (“Critica della ragione empatica”, La Repubblica 2014), risalta stentorea la voce dello psicologo P. Bloom, Nel saggio Against Empathy (Harper Collins, 2016) questi considera l'empatia una pseudo-virtù priva di spessore, 'soda zuccherata' che addolcisce la pillola ma è priva di una funzione fondativa. È come un riflettore che illumina solo una parte della scena, illudendo invece di ricomprendere il tutto, per cui scatta l'identificazione solo con chi viene ritenuto simile o similare. La conseguenza è che si concentra solo su pochi individui a scapito dell'auspicato carattere universale. Non solo: può capitare che questa selezione del campo di azione si traduca addirittura in un danno quando taluno, attivando sentimenti collettivi di insicurezza e paura, riesce ad incitare all'antagonismo verso un 'nemico' o, più comunemente, verso un disgraziato capro espiatorio.
In questa rappresentazione sono entrati sulla scena nuovi attori che hanno movimentato i precedenti copioni. Sono le neuroscienze, le cui indagini hanno concluso che le emozioni non sono rivali della mente, ma con lei stabiliscono un intreccio dinamico. Non perturbano l'agire inquinandolo, ma sono un complemento nelle azioni e nelle scelte. Costituiscono la risposta a uno stimolo a livello cerebrale, cui fanno seguito modifiche dell'interno dell'organismo. Come osserva l'ormai noto Damasio, ‘i sentimenti si esibiscono nel teatro della mente, le emozioni in quello del corpo. Del resto non siamo macchine pensanti che si emozionano, ma macchine emotive che pensano'. È uno stesso processo in cui l’emozione rappresenta l’esteriorità di uno stimolo, mentre il sentimento all'interno lo elabora. E poi i neuroni specchio, nella corteccia premotoria, hanno fatto la loro parte. Essi si attivano quando si osserva un'azione compiuta da altro individuo, rendendo ipotizzabile così l’immedesimazione nell'altro. Gli scopritori dei ‘mirrors’ hanno parlato di 'simulazione incarnata' per descrivere questo processo inconsapevole e automatico, grazie al quale si comprende un'azione altrui con la simulazione interna della medesima azione, riscontrabile con l’attivazione dei neuroni coinvolti in quel gesto. Questo approccio individua così uno spazio interpersonale e condiviso, 'noi-centrico', dinamico che comprende il sé e l'altro da sé e coinvolge i vari profili che definiscono l'organismo, e cioè dal corpo alle emozioni.
Il saggio della Nussbaum non si esaurisce nel trattare sentimenti ed empatia, ma s’immerge in un tema cruciale per la salute della vita collettiva, è cioè il diritto.
In sintesi: quale ricaduta hanno questi stati affettivi nel diritto? È auspicabile un diritto senza sentimenti o invece esso deve proteggere i sentimenti? E ancora: se i sentimenti esistono, come si calano nel lavoro del magistrato quando indaga o del giudice quando giudica?
Negli USA si è sviluppata la corrente 'Anti-empathic turn' che considera l’empatia una parola 'dirty', cioè sporca, che consente di aprire spazi alla discrezionalità così violando la sottoposizione del giudice alla costituzione. Corrente opposta è quella 'Law and emotion' di cui fa parte la Nussbaum, secondo cui il giudice deve muoversi con 'compassione razionale’ ma nel contempo con imparzialità, confinando nel passato la figura del magistrato sacerdotale e astratto. L'empatia, mai sinonimo di simpatia, deve essere 'un lettore intelligente della altrui storia', deve consentire di comprendere le motivazioni, i desideri, gli scopi, le intenzioni, le aspettative delle parti per realizzare la giustizia del caso concreto.
I sentimenti, nelle loro varie declinazioni, hanno con il diritto legami ineludibili e molteplici.
Alcuni rapporti sono protettivi, nel senso che il codice penale del 1930 li prevede e li considera. Costituiscono, per esempio, reato i comportamenti che violano la ‘pietà dei defunti’, il ‘pudore’, ‘il sentimento religioso’, oppure costituiscono ‘istigazione all’odio’.
In altre occasioni li prevede per approfondire le modalità del comportamento delittuoso, considerando l’ira e la suggestione come attenuanti o addirittura come scriminanti (art. 62 cp, 599 cp), o per converso la crudeltà quale aggravante (art. 61 cp). Nessuno spazio di interesse invece suscitano ‘gli stati emotivi e passionali’ (art. 90 cp), ritenuti irrilevanti.
Sul versante processuale il codice del 1989 oscura i sentimenti evitando contaminazioni nocive alle vie della razionalità. È ben vero che talora ne prende atto, per esempio evitando di far testimoniare i parenti dell'accusato per il timore della loro scarsa obiettività oppure nelle cause di ricusazione del giudice. Il nocciolo duro però rimane intatto. Innanzitutto non vengono considerati per comprendere il fatto, e cioè quando si ricostruisce l'accaduto, nonostante questo sia ‘incarnato’, cioè rappresenti la narrazione carica di emozioni, di punti di vista, di percezioni. Rilevante ad esempio è il ruolo della vittima, con il peso del risentimento e della rabbia che potrebbe condurre a richiedere pene esemplari in quanto, osserva la studiosa, 'le vittime sono spinte dal sentimento della restituzione e richiedono una sentenza più dura e peggiorativa per l'imputato’. Nel contempo, già in questa fase ricostruttiva come sarà nel momento del verdetto, l'opinione pubblica con la sua pressione emotiva assume un ruolo nuovo, sempre più pressante e attivo, vuole conoscere e poi giudicare con i suoi mezzi, i suoi riti, le sue modalità. Chiede la sua giustizia.
Inoltre sono assenti i sentimenti quando il giudice giudica, e cioè quando si tratta di emettere il verdetto. Secondo la Nussbaum occorre ‘adeguata emotività’, intelligenza, compassione, sorretta sempre dalla ‘ragionevolezza’. Cerca la mediazione per preservare la serenità-razionalità del giudizio, perché quello, non lo si dimentichi, è il momento cruciale in cui lo stato si afferma dicendo 'la verità' (verdetto = dire il ver). E i cittadini devono cogliere l'importanza sociale del momento affidandosi a un magistrato equilibrato, vicino alla bilancia, non per nulla un segno di riflessione.
Ma difficilmente è così, per questioni strutturali e non per cattiva volontà, perché il nostro cervello è sensibile a interferenze, perché i paradigmi per valutare sono incrinati, perché il cervello ‘è emotivo’. Il problema poi si enfatizza quando le emozioni conducono a un conflitto tra le ‘compassioni’ tra parti antagonistiche, talora e spesso a uno spostamento preferenziale inconscio verso la vittima (Forza, Menegon, Rumiati, Il giudice emotivo, Il Mulino, Bologna 2017).
Il rischio esiste, ma è impossibile prescinderne, in quanto secondo la studiosa 'se trascuriamo le reazioni emozionali che legano al mondo, si trascura anche gran parte dell'umanità’. E in generale la stessa compassione può essere 'inaffidabile e parziale', ma può essere impiegata nella sfera pubblica quando la si lega a beni fondamentali e a valori. La società deve sempre e comunque promuovere il rispetto delle persone e tra le persone, e le emozioni devono collocarsi all'interno di un contesto di diritti e doveri.
Nel momento di giudicare l'empatia è strumento efficace ed utile in quanto consente di conoscere i fatti umani. Per evitare i rischi di eccessive invadenze, viene ipotizzata l’empatia ‘negativa’ (Boella, Empatie, cit.) con cui ci si trasferisce nel luogo più distante, si va all'opposto, si vive l'asimmetria con l'empatizzato e l’assenza di immedesimazione, si va all’estremo, distanti.
Nonostante la brillantezza degli argomenti, però, sono annunciate ma non risolte alcune questioni che rimangono cruciali nel mondo del diritto.
Come conciliare l’empatia, pur nelle sue varie sfaccettature, con le regole presenti nella costituzione e non derogabili? Tra queste, come già si osservava, il principio di legalità cioè l’osservanza scrupolosa delle norme così come sono previste per arginare la discrezionalità del decidere. Come si concilia ancora con l’imparzialità del giudice quale sinonimo di terzietà rispetto alle parti quando traspare o si intuisce una inclinazione emotiva verso una di esse? Non solo: come controllare l’operato dei giudici se entrano in gioco elementi soggettivi, quali la compassione anche se razionale o l’intuizione soprattutto se emotiva? E ancor più pressante: come selezionare i giudici se il sapere tecnico, unico patrimonio disponibile e misurabile, può soccombere rispetto alle inclinazioni o ‘disposizionalità’? Onestamente gli studiosi, e tra questi al Nussbaum, mettono l’accento sulla ‘fallacia empatica’, cioè sulla proiezione anche inconscia delle convinzioni e la necessità di tentare di raggiungere una ‘tendenziale oggettività’.
Se le cose stanno così come in effetti stanno, è arduo fornire soluzioni. Probabilmente, come per l’altro tema del libero arbitrio, squassato dalle scienze del cervello e decisivo per il diritto, il punto di equilibrio è un accordo convenzionale e non scientifico. Si accettano, come in un moderno contratto hobbesiano, alcuni valori che rassicurano e garantiscono singolo e collettività, sapendo però che esistono controtendenze, non accettabili al momento perché dotate di minori garanzie di controllo rispetto alle altre.
Accompagnati dal disincanto, compagno di viaggio non disposto a fermarsi, e dal realismo pragmatico, spinoso contraddittore in discussioni preziose, potremmo affidarci a Italo Calvino come interpretato da Cases, e al suo 'pathos della distanza'. Purché i componenti della formula siano squilibrati: poco pathos e molta distanza.