Il mio lavoro non è ancora finito / Ligotti, macabro e sontuoso

10 Novembre 2020

Il mio lavoro non è ancora finito, uscito nel 2002 e vincitore dello Stoker Award, categoria long fiction, nello stesso anno, è l’ultimo volume della serie di pubblicazioni di Thomas Ligotti di il Saggiatore, dopo le raccolte di racconti Teatro grottesco (2015), Nottuario (2017) e La straziante resurrezione di Victor Frankenstein (2018), il saggio antinatalista La cospirazione contro la razza umana (2016), e la raccolta di interviste Nato nella paura (2019). A differenza di questi altri lavori, e un unicum nella carriera di Ligotti, Il mio lavoro non è ancora finito è un romanzo breve (o una novella, come si diceva una volta) che si accompagna a due racconti, Ho un progetto speciale per questo mondo e La rete dell’incubo

Ci sono tanti modi per cominciare a parlare di un libro di Ligotti. Si potrebbe esordire dicendo che il suo schiacciante pessimismo ha ispirato i monologhi di Rust nella prima stagione di True Detective. Che è un grande recluso che non rilascia interviste dal vivo, non presenta i libri, e che pochissimi hanno visto di persona. Che è ormai una celebrità letteraria sia dentro al genere horror (visti i quattro premi Stoker accumulati, di cui uno alla carriera) sia fuori, visto che le raccolte Songs of a Dead Dreamer and Grimscribe (la cui edizione italiana è colpevolmente fuori commercio) sono state ripubblicate dalla Penguin (2015), privilegio raro per i viventi (se si può considerare vivente Ligotti, ad ogni modo). 

 

Queste cose, però, chi si prende il disturbo di leggere la recensione di un libro di Ligotti le sa già. Cominciamo allora dicendo che Il mio lavoro non è ancora finito non è la prova più felice di Ligotti, che non si adatta bene al formato lungo (e difatti, come si diceva, questa prova resta un unicum). In estrema sintesi, nella novella una forza soprannaturale e oscura aiuta un quadro intermedio di un’azienda americana a vendicarsi, dopo il licenziamento, contro i suoi colleghi e superiori. Un’ambientazione simile la condividono anche Ho un progetto speciale per questo mondo, in cui una nebbia misteriosa pare essere responsabile di una serie di morti di dirigenti aziendali, e La rete dell’incubo, che è invece una raccolta di pubblicità, memo aziendali, mail private, di una ditta americana. Il corporate horror, l’horror aziendale (così recita il sottotitolo dell’edizione americana, qui comprensibilmente espunto), è un tema ricorrente nella produzione di Ligotti, e torna spesso anche in Teatro grottesco – per esempio, in La torre rossa, A favore dell’azione punitiva, Il nostro supervisore temporaneo

 

In Ligotti, nei casi migliori, la messa in cortocircuito dell’immaginario tipico del racconto horror e dell’atroce banalità della vita aziendale risulta in una variazione felice sui meccanismi altrimenti ripetitivi del genere; qui, invece, a dispetto delle premesse, il libro non decolla né porta a fondo gli argomenti che ha scelto di trattare, riducendosi a una serie di quadri giustapposti. Soprattutto, Il mio lavoro non è ancora finito è un romanzo stanco, che non regge bene la sua già contenuta lunghezza. Ligotti ha, come Lovecraft, un talento particolare per la descrizione atmosferica, per l’accumulo macabro e l’aggettivazione sontuosa; come Lovecraft, ha un generale disinteresse nella caratterizzazione dei personaggi, a cui però non supplisce quella complessa intelaiatura narrativa, che procede per svelamenti progressivi e sempre parziali, tipica del racconto weird a cavallo di Ottocento e Novecento (ed essenzialmente modernista o proto-modernista). Le storie di Ligotti procedono spesso e volentieri come riflessioni sparse di una serie indistinguibile di voci narranti, o come appunti o vignette, mentre quando il racconto assume forme più tradizionali, è difficile parlare di intreccio, ma semmai di un progressivo addentrarsi in un orrore che è chiaro già fin dal principio. 

 

Tutto questo per dire che Il mio lavoro non è ancora finito è un testo ligottiano, ma in senso deteriore: non un romanzo in cui “non succede niente”, bensì uno in cui quello che succede avrebbe potuto essere sviluppato con profitto con molte più pagine, invece di essere lasciato in forma di bozza. L’intuizione di Ligotti è abbastanza felice, anche se non eccessivamente originale: l’azienda dove lavora il protagonista è un luogo insieme meschino e inquietante, dove dominano esclusivamente la rivalità e il conflitto, e i cui fini sono oscuri – tanto che non arriviamo mai a sapere cosa la ditta produca, o quali siano le mansioni del protagonista e dei suoi colleghi. L’angoscia causata dalla perdita di agenza sta al cuore della narrativa di Ligotti (donde, come ha scritto Fancesco Corigliano in M. Malvestio e V. Sturli (a cura di), Vecchi maestri e nuovi mostri. Tendenze e prospettive della narrativa horror all’inizio del nuovo millennio, l’abbondanza di figure di manichini, di teatri, e così via), e prende qui le forme della megaditta, delle sue dinamiche imperscrutabili e ingovernabili e dei suoi fini sconosciuti; e paradossalmente, è solo quando il protagonista viene effettivamente posseduto dalle forze delle tenebre (quando abbraccia il vuoto al centro della vita) che si libera. Tutto sommato, non è difficile simpatizzare con la sua stanca inettitudine e l’attitudine bartlebiana: 

 

Volevo rimanere dov’ero, volevo mantenere la mia vita professionale al sicuro nel suo status quo. Questo il movente di tutte le mie azioni sul posto di lavoro. Questo il motivo per cui i dipendenti che per indole lo condividevano si trasferivano nel mio dipartimento non appena un posto rimaneva scoperto. Eravamo una troupe di beati parassiti, di falliti consci di esserlo, di sfigati compiaciuti. La nostra vita procedeva totalmente al di fuori del perimetro psichico aziendale. Facevamo il nostro lavoro e lo facevamo bene, tanto quanto qualunque altro collega, se non meglio. E quando tornavamo a casa ci dedicavamo alle nostre famiglie, al giardinaggio, alla pittura o al puro e semplice ozio. Qualunque cosa cercassimo di ottenere in questo mondo precario, e in tutta sincerità miserabile, lo cercavamo fuori dall’azienda. (p. 28)

 

Photo by Gabriel on Unsplash.


Il problema, semmai, è che Ligotti affida la descrizione di questa allarmante genericità a personaggi e descrizioni altrettanto generici, con caratterizzazioni frettolose e superficiali. I personaggi finiscono per essere a malapena sbozzati, al limite della caricatura: sui delitti indagano “due detective della omicidi [.] uno nero uno bianco, entrambi grigi [.]” (p. 84); i rivali del protagonista hanno nomi che si somigliano come quelli dei sette nani (la similitudine, poco originale, è usata nel romanzo), e sono come loro interscambiabili. Fa quasi impressione il paragone con un altro romanzo incentrato sulla vanità e sulla mancanza di scopo delle corporazioni americane, American Psycho di Bret Easton Ellis (1991), dove invece queste riflessioni non sono portate avanti omettendo i dettagli realistici, ma semmai esibendoli a dismisura; e mentre la prosa atmosferica di Ligotti riesce sempre quando si tratta di descrivere spazi irreali o letterari (castelli, biblioteche, antiquari…), funziona assai meno quando parla di referenti concreti. 

 

Sfortunatamente, quello che di Ligotti tiene nei racconti brevi e nei bozzetti è noiosissimo e ripetitivo nella misura lunga – benché poi nemmeno così lunga, visto che la novella dura centosettanta pagine scritte grosse. Dopo una prima parte dedicata a disporre i pezzi sul tabellone e a delineare il paesaggio, descrivendo le assurde contorsioni prive di senso della vita aziendale, le riunioni senza oggetti precisi, le commissioni e sottocommissioni prive di vera e propria utilità, insieme al desolato panorama suburbano che circonda la ditta, il resto del romanzo è una ripetizione di eventi più o meno identici, di omicidi più o meno violenti e splatter che si avvicendano alle osservazioni del protagonista sull’insensatezza della vita, sull’orrore, e su tutto quel compendio di nichilismo col quale il lettore ha probabilmente già familiarità (possiamo sfuggire all’orrore solo nel cuore dell’orrore, eccetera eccetera). 

Quasi a ricordarci invece di cosa è invece capace Ligotti, chiude il volume La rete dell’incubo, strutturato come una raccolta di materiali eterogenei che fanno riferimento a una superazienda americana che opera nel campo dei sogni. Procedendo per frammenti, il racconto non ha la necessità di offrire troppo contesto e può limitarsi a squarci limitati, ma proprio per questo suggestivi, di corporate horror. Per esempio, dal taccuino di un supervisore: 

 

…e se fossi deciso a vivere soltanto della carne del mio staff, senza possibilità di accedere agli staff di altri supervisori sopravvissuti o ad altri funzionari, la sfida più ardua sarebbe mantenere ciascuno in condizioni tali da poterli mangiare, e al tempo stesso regolare il ritmo a cui li consumo. Forse dovrei provare a mantenerli in vita; in tal caso potrei semplicemente limitarmi a ingerire soltanto gli elementi capaci di rigenerarsi, come il sangue. Eppure non riesco a non sognare le loro ascelle e i loro gomiti… maschili o femminili, poco importa. Penso che durante questo periodo di sopravvivenza cannibalesca, dell’anatomia umana mi godrei in particolar modo le parti più rugose. (pp. 203-204)

 

Occorre anche dire qualcosa sul tipo peculiare di ricezione che ha avuto Ligotti, specialmente in Italia, tenendo a mente che viviamo in un Paese dove quello che non è proibito è obbligatorio. E infatti la sorte italiana di Ligotti è quantomai singolare – quella di essere un autore assai popolare e ben recensito in un Paese che dà molto poco credito critico alla letteratura di genere, e specialmente horror (e che non ne dà nessuno se questa è prodotta da concittadini, perché, come diceva Riccardo Freda, gli italiani dagli altri italiani al massimo accettano di comprare le fettuccine). Proprio per questo, tuttavia, Ligotti gode di tanta fortuna: perché, tra tutti gli scrittori horror, è quello che è più facile da smarcare dall’etichetta “di genere”. 

 

Ligotti, in altre parole, ha assunto una posizione assai scomoda: è l’autore horror letto da chi non ama l’horror, e si sente in dovere di sottrarlo all’angusto dominio del suo genere letterario. Andrea Gentile, nella postfazione a Nottuario, scrive che certo, si potrebbe considerare l’opera di Ligotti “un’emanazione – originale o meno – di un determinato genere letterario (che sia gotico o horror o weird o qualsivoglia altra definizione)”, salvo poi correggersi subito: “il discorso sul genere” non è “uno strumento utile per cogliere l’essenza di un testo”. Fabrizio Sinisi, in un articolo apparso su questi schermi, si chiede: “Ma che horror è quello di Ligotti, ed è corretto definirlo tale?”. Ligotti, continua Sinisi, “è uno scrittore eminentemente filosofico: rigoroso costruttore di un antipensiero, prosecutore e punto di convergenza di una filosofia spudoratamente e violentemente nichilistica”.

 

Benché quando si dà del filosofo a uno scrittore raramente gli si stia facendo un complimento, questo non è falso, anzi, perché Ligotti è effettivamente uno scrittore che fa della sua opera, esplicitamente o per figura, l’immagine di un preciso credo filosofico (come del resto accadeva già in Lovecraft); allo stesso tempo, quello che molti recensori omettono di notare è che questa riflessione filosofica non ha luogo nonostante il genere cui Ligotti appartiene, ma semmai proprio grazie ad esso. È solo grazie al patrimonio di invenzioni narrative e immaginative del racconto horror e weird che Ligotti può dare corpo e concretezza alle sue riflessioni filosofiche, che altrimenti, nei momenti meno ispirati, rischiano di restare inerti – come del resto accade in Il mio lavoro non è ancora finito

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