Lo sguardo di Valentine
Ecco un dipinto del pittore svizzero Ferdinand Hodler. Quando tempo fa mi è cascato sotto agli occhi, grande è stato il mio disinteresse: un paesaggio spoglio e convenzionale, esteticamente scialbo, ancor più se considerata la data d’esecuzione, 1915. All’epoca c’erano già le avanguardie, i collages, il cubismo e sulla Svizzera stava per abbattersi la tempesta dada che spazzerà via l’idea di arte in voga sin dal Rinascimento. Nell’occhio del ciclone, Hodler non trova niente di meglio che piantare il cavalletto ai bordi del lago Lemano (o di Ginevra) e dipingere il sole che scompare dietro le montagne – un rigurgito impressionista mi viene da pensare, come una cartolina inviata dalla zia da un resort vacanziero. Un’opera marginale rispetto alla storia della pittura ma anche rispetto a quel poco che conosco dell’artista. Il mio conto con Hodler è presto chiuso.
Per caso o per serendipità qualche settimana fa ritrovo lo stesso dipinto. Identico il mio sentimento di sufficienza, ma questa volta guardo meglio e leggicchio qualcosa. È così che Coucher de soleil sur le lac Léman (conservato al Kunsthaus di Zurigo) diventa uno dei paesaggi più straordinari, potenti e toccanti che conosca. Quanto segue ricostruisce come ho imparato ad amare Hodler.
La carriera di Hodler (1853-1918) s’identifica con la nazione svizzera, o meglio con la nascita della Svizzera moderna in quanto Stato federale unificato e non più Confederazione di cantoni. La sua biografia è un susseguirsi di commissioni pubbliche, ampi affreschi storico-celebrativi, murali di battaglie epocali poco evocative per le mie conoscenze storiche. Tuttavia, quando non è preso a dipingere Guglielmo Tell, Hodler si rivolge al paesaggio elvetico, al paesaggio alpino e a quello lacustre. In accordo con l’estetica Jugendstil, sono poco curanti della profondità e dell’illusione prospettica, danno la stessa importanza al primo piano e allo sfondo attraverso la saturazione dei valori tonali, i larghi campi di colore e le distese monocrome, l’attenzione sempre vigile al ritmo. Nel tempo la tavolozza si restringe, il colore luminoso utilizzato con maggior libertà, le forme delineate sempre più cromaticamente.
Coetaneo di Van Gogh, Hodler non si è limitato a rappresentare le montagne, le ha rese propriamente visibili: i suoi concittadini hanno imparato a vederle attraverso i suoi dipinti. Hodler è una sorta di Hiroshige elvetico. Non un Cézanne: il carattere terrestre e terroso della Sainte-Victoire è poco consono ai suoi paesaggi che soleva chiamare “paysages planétaires”. Le montagne non sono isolate e tenute sullo sfondo della composizione come una quinta teatrale ma ravvicinate come nello zoom di un obiettivo fotografico. Di più, sono ritratte a partire dalle stazioni turistiche celebri all’epoca tra chi praticava trekking. Non ho dubbi che sui paesaggi di Hodler la storia del turismo avrebbe da dire cose più interessanti che la storia dell’arte. Una chiave di lettura da affiancare a quella simbolica, a seguito dell’adesione di Hodler ai Rosacroce nel 1892. In una conferenza del 1897 affermava: “è missione dell’artista dar forma all’immortalità della natura, svelare la sua bellezza intrinseca [...] L’artista ci mostra una natura ampliata e semplificata, liberata da tutte le cose”; “Ogni volta che percepisco più intensamente il fascino delle cose nella natura, risento sempre un’impressione di unità”. Hodler è un compulsivo della natura organizzata e delle corrispondenze formali; lo dimostrano i paesaggi specchiati nell’acqua, con l’immagine perfettamente divisa in due – la rappresentazione e il suo riflesso – come nei dipinti di Narciso. I suoi paesaggi sono così articolati da esser stati abbordati per tipologie in un accurato catalogo (Tobia Bezzola, Paul Lang, Paul Müller, Ferdinand Hodler. Landscapes, Kunsthaus Zürich 2004).
Ho raccolto abbastanza informazioni per tornare su Coucher de soleil. Rispetto agli altri paesaggi lacustri mi colpisce il rapporto tra la terraferma, le montagne, il cielo e il mare. La terra è ridotta a una fettuccia stretta senza la quale ci troveremmo davanti a un’opera astratta; si rialza sulla destra solo per accogliere la firma dell’artista. Lo stesso vale per le montagne, assottigliate come isole di un arcipelago, e persino per la distesa d’acqua, così spianata che è difficile immaginarla distinta dal fondale. Dell’immenso lago Lemano, uno dei più grandi d’Europa, resta un piccolo bacino, le cui estremità sono esterne ai bordi del dipinto ma facilmente circoscrivibili. Tutto è vuoto etere, ogni sostanza è di troppo. Del paesaggio questo dipinto rappresenta la liquefazione, sebbene Hodler, a differenza di Mondrian, altro artista rosacrociano, non valicò mai la linea dell’astrazione, attraccato al reale come un’imbarcazione al molo.
La storia pittorica del paesaggio non ci porta oltre, penso guardando il dipinto con occhi cinematografici. Coucher de soleil è un paesaggio ripreso in soggettiva, ovvero dal punto di vista di colui che lo ha eseguito. In generale siamo abituati a vedere la pittura figurativa in soggettiva, a identificare il nostro sguardo con quello dell’artista, con la sua inquadratura. Stiamo davanti a un dipinto allo stesso modo e spesso alla stessa distanza in cui si trovava al momento esatto in cui l’ha realizzato. È in questo transfert che si riassorbe il lasso temporale – effimero o secolare – che divide il momento di realizzazione di un dipinto da quello della nostra esplorazione. Ci addomestichiamo col mondo dell’artista sostituendoci all’artista, prendendo in prestito il suo sguardo o meglio incorporando, fagocitando questo sguardo. Osservate Coucher de soleil: ecco quello che Hodler aveva davanti a sé il 25 gennaio 1915. Si tratta insomma di una visione della pittura d’après la fotografia, in cui i paesaggi sono considerati un “ça a été”, una certificazione di presenza.
Coucher de soleil mostra i rischi di un simile approccio, tenendo fuori dalla nostra portata il controcampo. Non penso a un controcampo metaforico come lo intendono spesso gli storici dell’arte, un’infarinatura sul contesto storico, brevi cenni sull’universo Hodler. Mi riferisco al controcampo vero e proprio, alla porzione di mondo dietro le spalle di Hodler nel momento in cui si mette all’opera. Scopriamo così che non si tratta di un en plein air ma di un paesaggio dipinto dalla finestra di una sala d’ospedale. È là che giace il corpo senza vita di una donna. Su questo paesaggio pieno di giallo, non lo avrei mai detto, aleggia la morte, la più vuota delle immagini, come l’ha definita di recente Giorgio Pigafetta.
Hodler e Valentine Godé-Darel si incontrano nel 1908. Lei ha 35 anni, lui 55, entrambi con un matrimonio alle spalle. Lui ha un figlio di 21 anni: due anni dopo la sua nascita sposa un’altra donna, Bertha Stucki, da cui divorzierà due anni dopo. Dalla relazione tra Hodler e Valentine nasce Paulette nel 1913. Nel gennaio 1914, appena tre mesi dopo, Valentine subisce il primo intervento. Ospedalizzata a Losanna, Hodler prende il treno ogni giorno per renderle visita. Il 30 maggio 1914 è operata una seconda volta a Vevey, all’estremità est del lago, oggi sede centrale della Nestlé. Qui morirà di tumore sette mesi più tardi. È da quando si frequentano che Hodler ritrae Valentine, perché dovrebbe rinunciarvi ora? “Accettare la morte in piena coscienza, ecco quanto può dar luogo a grandi opere” scrive. Dal 1914 realizza oltre duecento disegni, gouaches e dipinti a olio, debitamente datati. Sono conservati in diversi musei, dalla Svizzera alla Francia e, stando alle mie prime ricerche, non mi risulta che siano mai stati esposti assieme. Scorrendoli in successione, si coglie il decorso della malattia, dall’espressione raccolta di Valentine alla bocca spalancata, dalla sua compostezza iniziale, seduta sul letto come sul vagone di un treno, fino all’inabissarsi del suo corpo esilissimo nel materasso, come se tale ischeletrirsi lo rendesse non leggero ma pietroso. Il 19 gennaio 1915 Valentine perde la vista e parla per l’ultima volta a Hodler, che decide di trasferirsi all’ospedale. Il 24 gennaio Valentine perde conoscenza e il giorno successivo si spegne. Sono le cinque del pomeriggio. E adesso?
Hodler forse non è cosciente che la scomparsa di Valentine è gravida di foschi presagi. È la fine di un’esistenza, la fine di una relazione ma anche la fine di un’epoca storica. Nel 1915 lontani sono i tempi dei viaggi di formazione di Hodler – il Prado a Madrid (1878), Dürer a Monaco (1893), Degas e Monet a Parigi, Giotto in Italia (1905) –, del successo parigino grazie alla stima di Puvis de Chavannes e Gustave Moreau, della partecipazione alla Secessione viennese nel 1904 in cui fa la conoscenza di Klimt. Hodler è ancora lo stimato pittore della storia nazionale elvetica: quell’anno dipinge la battaglia di Morat per la Sala d’armi del Museo nazionale di Zurigo, ma in Europa tira ora un’aria sinistra. Poco dopo Hodler è bandito da tutte le società artistiche tedesche – dalla Secessione di Berlino e di Monaco alle Belle Arti di Dresda – reo di aver sottoscritto una petizione contro il bombardamento della cattedrale di Reims da parte dei tedeschi. A giugno è ricoverato per disturbi respiratori a Néris-les-Bains e lì, nei volti e nei corpi dilaniati che rientravano dal fronte, conosce finalmente l’altra faccia della guerra. Non poteva sfuggirgli quanto poco somigliasse al clangore delle spade e all’eroismo che trasuda dalle battaglie illustrate lungo la sua carriera. Nel frattempo il figlio è ricoverato in un sanatorio vicino Crans-Montana. La Svizzera di Guglielmo Tell è sempre più la Svizzera dei sanatori. Finché nel 1918 Hodler si trova nella stessa situazione di Valentine: negli ultimi anni dipinge molti autoritratti (una ventina soltanto nel 1916 sul centinaio che ci resta), alcuni bonari e gioviali. Ma nel 1918 è a letto malato nella sua casa di Losanna; la finestra incornicia il massiccio del Monte Bianco, che dipinge dalle prime ore del mattino al tramonto.
25 gennaio 1915, cinque del pomeriggio, davanti a Hodler il lago Lemano, alle sue spalle Valentine. Non emette più alcun suono inarticolato, che della vita costituiva perlomeno il disco rotto. “Valentine non c’è più” si dice Hodler, ma questa frase non genera sofferenza. Il dolore, lungi dall’essere istintivo e irriflesso, dal lacerare con un colpo di sferza il tessuto emotivo, è un lungo esercizio e verrà con il tempo e con la memoria, con un amalgama di abbandono, lucidità, lâcher prise. L’evento traumatico è ora differito. Valentine non è più in quel corpo, in quel letto, in quella stanza. Hodler non sa se è possibile fare un ritratto di questa “cosa” che era Valentine, di questa “cosa” dentro cui c’era Valentine, non sa se questa “cosa” porta ancora il suo nome o se questo nome è ormai solo il brusio dell’esistenza senza esistente. Per tre mesi l’ha dipinta a letto, il suo sguardo fisso su di lei. Un modo per trascorrere il tempo, ma anche per prendere le distanze dalla malattia e dalla morte, per frapporre tra lui e l’amata una superficie vuota da riempire, la texture spianata della tela che rimuove la pelle increspata di Valentine.
Hodler distoglie lo sguardo e si affaccia alla finestra, l’unica feritoia che spezza l’uniformità anonima della sala ospedaliera. Quello che era presente negli ultimi tre mesi e che resterà per chissà quanti secoli ancora è lì fuori: è il solito paesaggio svizzero che ha dipinto per una vita, l’ottuso imperituro saliscendi delle montagne, il lago smaltato e sordo, la terra aspra. Per esistere non ha bisogno del nostro sguardo. Vive in una temporalità, vive di una temporalità a noi estranea. È un paesaggio indifferente, senza reciprocità, non più simbolicamente legato all’uomo e al suo posto nell’universo. Ciononostante, mai come oggi è un paesaggio necessario. Hodler lo conosce così bene che non ha neanche bisogno di guardarlo, può dipingerlo a occhi chiusi. Un paesaggio realizzato da un cieco, da chi guarda senza mettere a fuoco alcun particolare, in cui tra l’umano e il reale risuona solo una comune indifferenza. Lascia fare la mano, senza accenti, senza drammatizzazione. Hodler si fa cieco come Valentine. Questo è del resto il paesaggio che Valentine ha visto negli ultimi tre mesi. E come noi prendiamo in prestito lo sguardo di Hodler, Hodler prende in prestito lo sguardo di Valentine. Oggi, 25 gennaio 1915, per la prima e unica volta, Hodler non dipinge Valentine. Né dipinge il tramonto sul lago Lemano. Si spinge là dove non aveva ancora osato spingersi, un gesto tanto più estremo che rischia di passare inosservato, come è capitato a me che con gli occhiali della storia dell’arte non vedevo più niente e mai avrei sospettato che Maurice Blanchot mi sarebbe stato più d’aiuto. Oggi Hodler dipingerà lo sguardo stesso di Valentine.
Questa potrebbe essere l’ultima parola, “dovrebbe” vorrei scrivere; Coucher de soleil brucia ogni supplemento iconico. Ma il giorno dopo Hodler realizza un ultimo ritratto (tre dipinti a olio e tre disegni). La posa è composta, la testa in asse con il corpo, la bocca chiusa, le mani giunte, le scarpe ai piedi e un vestito che non si sa quanto fasci il corpo soggiacente. Non saprei dire se si tratta di un ritratto o di un paesaggio antropomorfico. I piani si confondono: le tre parallele celesti che attraversano la parete di fondo nonché le cinque spesse bande di colore che sostengono il corpo di Valentine – pavimento, base del letto, materassi, lenzuola – evocano le linee orizzontali della terra, del mare, delle montagne e delle nuvole. Il profilo basso della catena montuosa è come il corpo di Valentine a letto, orizzontale come la deposizione di Holbein, conservata per caso a Basilea, con la tela ridotta a una fettuccia ritagliata sulla sagoma del corpo disteso. Nel caso di Hodler, l’orizzontalità è spezzata solo da due strisce verticali, testiera e pediera del letto, che impediscono al corpo di Valentine di estendersi oltre i bordi della tela, di assottigliarsi ancor di più.
18 maggio 1918, lago Lemano, è primavera inoltrata ma l’aria è ancora fredda. In primo piano riconosciamo Hodler, alle sue spalle Bertha Stucki, da cui ha divorziato nel 1891, e la figlia Paulette avuta con Valentine. Poche le convergenze: il cappello e la punta del bastone di Hodler e Bertha, le ombre sovrapposte di Bertha e Paulette, per il resto ognuno punta lo sguardo altrove, ognuno ignaro della presenza dell’altro. Più che una fotografia mi sembra un collage in cui le tre figure sono state ritagliate da mondi non comunicanti. E poi quel lago, troppo simile a Coucher de soleil per essere vero.