L’odio per l’Altro
È lecito attribuire una certa dose di quello che oggi viene definito analfabetismo emotivo alla destra radicale e alle destre in genere?
Per rispondere a questa domanda, che ha tutta l’aria di una provocazione, occorre spiegare che cosa si intende qui per «analfabetismo emotivo». Rispetto a temi e problemi come quelli dell’immigrazione, della famiglia, dell’identità di genere, della persona, del merito, del precariato, della povertà, della sovranità nazionale una delle propensioni della destra italiana, come tutte le destre che si rispettino, è quella di nutrire una certa diffidenza nei confronti del diverso, dell’altro. E, al tempo stesso, una delle sue vocazioni è quella di sollecitare nella società civile il sospetto e la paura verso colui che non rientra nella ristretta cerchia del proprio gruppo di appartenenza, della propria tribù, allo scopo di distinguersi, di celebrare il proprio orgoglio identitario. Al punto da diventare una vera e propria ossessione, autoalimentata dalla propaganda, capace di risvegliare e rigenerare un sistema di valori cosiddetti «tradizionali» che lascia trasparire la necessità di un’ancora identitaria in cui riconoscersi, ma, ancor più, il bisogno di certezze di un’identità fragile. E tuttavia questa tendenza, espressa da un’ideologia reazionaria, la porta ad avere una percezione distorta dei temi sopra citati.
Ne è un esempio l’idea di adottare una linea dura verso l’immigrazione clandestina propagandata in campagna elettorale dell’attuale governo Meloni che, di fronte a esodi di massa di natura irreversibile, propone provvedimenti drastici come quello del blocco navale anziché attuare politiche migratorie che diano dignità alle persone in difficoltà. Governo che, vale la pena ricordare, è guidato dall’esponente di un partito di estrema destra (Fratelli di Italia) le cui posizioni su temi fondamentali della nostra epoca hanno fatto riferimento, tra gli altri, alla teoria complottista della sostituzione etnica, ovvero al pericolo della cosiddetta «Grande sostituzione» (sostenuta dall’ideologo Renaud Camus) che immagina la finanza internazionale impegnata a realizzare un preciso piano di sostituzione della popolazione europea, bianca e di fede cristiana, con quelle provenienti da altri continenti, prevalentemente di fede islamica.
Allo stesso tempo si dimostra ingannevole e demagogico il costante richiamo al principio della sovranità nazionale, se lo si intende perlopiù nei termini di incitamento alla difesa dell’identità nazionale in opposizione alle politiche di organismi sovrastatali come l’Unione Europea, anziché nell’accezione di critica costruttiva alla globalizzazione neoliberista, alla delocalizzazione delle imprese, o alla crisi dello stato sociale (Zygmunt Bauman, La società sotto assedio, Laterza, 2003).
Come hanno messo in evidenza le ricerche neuroscientifiche degli ultimi decenni, la capacità di elaborazione dell’esperienza di scambio con l’altro dipende strettamente dalla predisposizione empatica radicata negli esseri umani grazie all’attività dei neuroni specchio. Una predisposizione che se da un lato costituisce un primo passo verso la compassione per il prossimo e verso la convivenza multiculturale, dall’altro pare però alterarsi e distorcersi in quei meccanismi psicologici che trovano espressione non solo a livello individuale nell’idea di distinzione, di superiorità e finanche nelle derive disfunzionali di natura patologica (disturbi della personalità, psicopatie e sociopatie), ma anche sul piano psicosociale delle formazioni collettive animate da quel sentimento sociale di avversione per l’altro, mediante il quale il diverso viene percepito come potenzialmente disturbante e pericoloso.
La disposizione empatica rientra nella sfera di quella che viene chiamata «intelligenza emotiva», ovvero la capacità da parte di un individuo di valutare e gestire consapevolmente le proprie e le altrui emozioni presente in quei comportamenti prosociali in grado di controbilanciare le umane tendenze egocentriche e individualistiche. Per contro, la mancanza di familiarità con l’alfabeto emotivo favorisce nei rapporti interpersonali il timore verso l’altro, accompagnato da atteggiamenti vigili e perfino paranoici rivolti al prossimo vissuto come un nemico (Umberto Galimberti L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, 2007).
L’analfabetismo emozionale si troverebbe quindi alla base di una fallita regolazione delle proprie emozioni e del loro mancato controllo. Da ciò si può supporre che un’inadeguata educazione emotiva possa essere all’origine, sia negli adolescenti che negli adulti, delle proliferanti manifestazioni d’odio e di violenza verbale particolarmente presenti nello scenario mediale del presente, testimoniate dalle molestie di genere e dal grave problema del cyberbullismo omofobico e transfobico, dalle minacce online, dalle aggressioni anonime e da altri atteggiamenti di tipo persecutorio assai diffusi sulle piattaforme digitali e sui social network.
Nelle sue riflessioni sui comportamenti sociali e sulla «psicologia delle masse», Freud ha sottolineato ripetutamente come l’ostilità e l’intolleranza verso i simili si palesa persino tra gruppi umani limitrofi (per esempio tra gli abitanti del sud e del nord di una medesima nazione, di due città vicine ciascuna delle quali si considera più evoluta dell’altra, ecc.) e viene agita da quello che egli definisce come «narcisismo delle piccole differenze» che da sempre attraversa la comunità umana. L’insofferenza e la repulsione per l’estraneo nascono da «un amore per noi medesimi», da un narcisismo di segno negativo rivolto all’autoaffermazione, che spesso esprime una propensione all’odio e all’aggressività distruttiva. Per il padre della psicoanalisi sono anche le piccole differenze a provocare sentimenti di estraneità e ostilità tra gli individui, nella forma di un personalismo avverso che tende a prevalere sul legame sociale e sui sentimenti di solidarietà.
Ed è proprio attraverso tali meccanismi che la propaganda ideologica di matrice reazionaria alimenta l’invidia sociale riversandola su coloro che sono considerati parassiti e profittatori di sussidi statali, evitando però sia di concentrarsi seriamente sull’evasione fiscale, sia di ispirarsi ai molti paesi i cui modelli di welfare andrebbero imitati per le forti politiche sociali (sanità e istruzione gratuite, tutela dei lavoratori precari, aiuto ai poveri).
Il sentimento di ostilità verso l’altro, di rivalità esacerbata, che spesso culmina nell’odio, rimanda altresì alla dinamica del capro espiatorio, sul quale il singolo individuo e il gruppo scaricano i propri sentimenti di frustrazione. La rabbia e l’odio, che abbattendosi sul capro espiatorio sollevano il singolo individuo e il gruppo dalle proprie responsabilità, sono passioni, e come tutte le passioni da un lato sono connaturate all’essere umano, dall’altro si esprimono in forma inconscia, indiretta, alterata, più che a mantenersi su un piano riflessivo di dialogo costruttivo.
In tal modo si assiste alla coesistenza contradditoria tra sentimenti connotati dal risentimento e l’inconsapevolezza del ruolo svolto nei nostri stati d’animo dall’uso difensivo dei meccanismi di proiezione, di spostamento e di scissione interna attivi nella quotidiana «guerra» delle opinioni e nelle forme di polarizzazione del pensiero attraverso opposizioni inconciliabili: buono/cattivo, amico/nemico, simile/diverso, ecc. Una coesistenza di sentimenti che, come spiega bene Nicoletta Gosio (Nemici miei. La pervasiva rabbia quotidiana, Einaudi, 2020), «garantisce il duplice vantaggio di evitare l’ingrato compito di confrontarsi con se stessi e al contempo di sentirsi nel giusto a nutrire sentimenti di disprezzo o rivalsa nei riguardi dell’interlocutore di turno».
Se da un lato le ragioni della rabbia affondano le radici nei terreni dell’ingiustizia e della disuguaglianza, come anche nei sentimenti di esclusione e di emarginazione, nondimeno la dilagante rabbia sociale del presente sembra indicativa di un diffuso ricorso alle organizzazioni difensive dinnanzi alle angosce suscitate perlopiù dai nostri nemici interni, di una generale regressione verso meccanismi arcaici di difesa che, non di rado, trovano un potente mezzo di espressione nelle derive sociopolitiche del fanatismo populista di matrice razziale e violenta. Significativo il ricordo ancora vivo di quell’auto in corsa per le strade di Macerata dalla quale, nel 2018, un folle estremista di destra spara su tutti gli immigrati che incontra.
L’altro, nella sua accezione di straniero, diventa allora il fantasma del nemico, fonte di quell’angoscia atavica che gli esseri umani provano di fronte a ciò che è sconosciuto, dissimile, strano, non familiare. E produrre angoscia nel cittadino pare essere diventato un tratto distintivo della manipolazione politica del nostro presente.
Allo stesso modo nei fenomeni estremi di polarizzazione gruppale il bisogno di trovare un antagonista o un nemico alimenta il meccanismo della paranoia che proietta nell’altro la colpa dell’origine di ogni male. Percepire l’altro con fredda indifferenza o come una minaccia, ancorché priva di un reale fondamento, sono fenomeni di natura sia individuale che collettiva strettamente connessi che traggono origine dall’angoscia destabilizzante della sua presenza. Pensiamo all’equazione «violenza sulle donne e immigrazione», in particolare alle narrazioni pubbliche sulla violenza di genere contro le donne attribuita allo straniero anziché a una consolidata cultura patriarcale (rappresentativo il caso di Giovanna Reggiani, stuprata e uccisa a Roma da un manovale rumeno nell’ottobre 2007, che offre lo spunto all’amministrazione guidata dal neosindaco Alemanno all’avvio delle prime campagne di sicurezza nei confronti della popolazione room), quando in realtà, secondo l’ultimo Report interforze della Polizia criminale, gli autori di violenze sessuali sulle donne sono italiani in tre casi su quattro.
Le riflessioni maturate negli ambiti della psicoanalisi e della filosofia che accomunano Freud e Heidegger sul tema dell’inquietante spaesamento (Unheimlichkeit) del soggetto esposto all’alterità descrivono efficacemente il sentimento di angoscia nei confronti vuoi del ritorno del rimosso, vuoi dell’impossibilità di assegnare un posto nel nostro orizzonte di senso a ciò che sentiamo estraneo al nostro essere e che tuttavia è avvertito come immanente nel campo della coscienza. Sulla linea di pensiero tracciata dai due autori anche Lacan associa l’angoscia al sentimento dello spaesamento, riconducendola al vissuto del soggetto nella sua relazione simbolica con l’altro.
E ancora, sulle radici psicologiche degli atteggiamenti xenofobi e di rifiuto che una comunità può rivolgere allo straniero pare agire anche una discreta quota di profondo pregiudizio verso il «godimento dell’Altro» provocato dalla paura di un «furto di godimento», e cioè dalla sensazione che il godimento dell’altro sottragga intensità al nostro godimento (Franco Lolli, L’epoca dell’inconshow. Dimensione clinica e scenario sociale del fenomeno borderline, Mimesis, 2012). Da tale pregiudizio prendono spunto le varie e stereotipate narrazioni leggendarie sulle altre culture (dalla promiscuità dei costumi africani alle aberrazioni culinarie dei paesi asiatici, fino all’indole affaristica degli ebrei) con cui si denigrano usanze e piaceri percepiti in contrasto con la propria limitata idea di civiltà.
Dalla coesistenza del vissuto di estraneità dell’altro con un’alterità che ci abita nell’intimo prende forma il nesso problematico che fonda l’ostilità irriducibile dell’essere umano all’altro, e a tutti quei comandamenti che intenderebbero regolarne la convivenza. Come ha spiegato Lacan «il godimento del mio prossimo, il suo godimento nocivo» costituisce il problema fondamentale circa l’adesione al comandamento dell’amore del prossimo. E tuttavia, la presenza di una radicale malvagità che crediamo caratterizzare il nostro prossimo ci dice che essa abita anche in noi.
Sembra qui tornare utile il suggerimento dello psicanalista francese circa la necessità di essere vicini (prossimi) alla propria «cattiveria» per incontrarvi il prossimo, di assumerci la responsabilità della malvagità che ci abita. In questa cornice l’odio per l’estraneo può leggersi come il tentativo del soggetto di espellere qualcosa di proprio, ovvero l’eccedenza della pulsione, quella parte di godimento che non può essere metabolizzata. È questo il meccanismo psichico su cui si edificano le diverse forme di razzismo, di integralismo o di settarismo e, in generale, ogni manifestazione di ostilità per l’altro. Il mancato riconoscimento dell’estraneo che è in noi è direttamente proporzionale alla tendenza a rigettare ogni genere di diversità.