Lombroso, il fascino discreto del crimine
Perché Cesare Lombroso ci appassiona ancora, nonostante la sua reputazione scientifica sia stata demolita dal tempo? Forse si può rispondere con le parole usate da Umberto Eco a proposito di Athanasius Kircher, il geniale e bislacco gesuita del Seicento: “Perché Kircher ci affascina? Io direi per la stessa ragione per cui tante ne ha sbagliate. Per la sua voracità, per la sua bulimia scientifica, per l’ansia enciclopedica. (…) Kircher parla in tono scientifico di cose di cui si inganna, ma non rinuncia a parlare su tutto. Succede così che (…) la pretesa dell’esattezza scientifica produce il più dissennato delirio della fantasia.
Egli è un cacciatore di meraviglioso, e non stupisce che sia stato amato dai surrealisti” (Umberto Eco, Perché Kircher? In La memoria vegetale, Bompiani 2011). Il “meraviglioso” di cui è inconsapevolmente in caccia lo scienziato Lombroso non è quello multidisciplinare e teologico di Kircher, ma si occupa di un ambito specificatamente moderno: il crimine. È nell’Ottocento che il crimine, grazie alla letteratura sia alta che bassa, diventa un tema e un mondo degno di attenzione. Con l’avvento del capitalismo l’interesse verso il crimine si spiega con il riconoscimento, in quel mondo rovesciato, degli stessi meccanismi che dominano la società legale, ben sintetizzati nella famosa battuta di Brecht: “È più criminale fondare una banca che rapinarla”. Insomma: ladri, assassini, prostitute, sfruttatori e devianti di ogni genere rivelano qualcosa dell’altra metà del mondo, i probi cittadini.
Un pensiero proibito per l’inventore dell’antropologia criminale, ma che – a guardar bene – sta al fondo di tutto il suo lavoro, imperniato in maniera manichea sulla divisione tra “noi” e “loro”, intesi come i delinquenti; e sulla ricerca costante, “scientifica” della ragione di questa differenza. Fino alle famose, quanto sballate, teorie sull’atavismo e sulla fossetta occipitale mediana, dove risiederebbe la propensione, fisiologicamente determinata nel cervello, per i comportamenti antisociali. Un modo elegante, per un uomo tutt’altro che stupidamente conservatore, di darsi una ragione del male nella società: è la natura che prepara la devianza, ed è l’educazione (o la sua mancanza) che la produce.
Non solo. Lombroso, ai suoi tempi, fu uno degli italiani più popolari del mondo perché riusciva a fornire a chi lo seguiva, sotto la veste dell’oggettività scientifica, quello che, nel secolo successivo, ma anche oggi (soprattutto oggi, nel nuovo millennio…) è il paradosso alla base della letteratura, del cinema e della serialità “crime”: chiunque poteva e può penetrare nella mente, nonché partecipare alle gesta, del più efferato killer, ricavandone il brivido del tabù e allo stesso tempo uscendone rassicurato perché c’è qualcuno che quel tabù lo conosce e quindi sa come proteggere lo spettatore dalle sue manifestazioni. Sarà un caso che una delle figure più popolari delle serie crime degli ultimi decenni sia l’anatomopatologo/a, proprio come Lombroso?
Il Gil Grissom di CSI Las Vegas, maniacalmente distaccato dalla materialità degli orrendi crimini di cui è testimone ma affascinato dal comportamento dei loro esecutori non è forse un pronipote del buon Cesare? Anche nel suo contrappasso: l’unica donna che riesce a turbare Grissom è Lady Heather, la tenutaria di un bordello. Lombroso fu invece affascinato da una spiritista, Eusapia Palladino – proprio lui, campione del positivismo. Il sesso e la morte sono solo una variazione sul tema, conseguente allo spirito dei tempi.
Anche Grissom sottoscriverebbe quello che disse Lombroso dopo aver partecipato a una seduta della medium: “Sono contrario in teoria (allo spiritismo, nda)… ma i fatti esistono e io dei fatti mi vanto di essere schiavo». I fatti, certo. Apparentemente incontestabili. Ma osservare i fatti non significa automaticamente spiegarli, che è il grande equivoco di Lombroso, il quale studia i criminali in cerca di una interpretazione insieme scientifica e messianica, che lo spinge, quasi con ingenuità, a forzare i dati per produrre il “dissennato delirio della fantasia” di cui anche Kircher fu vittima.
E come Kircher, che “di tutto vuol dare la prova, l’immagine, il diagramma, il sistema di funzionamento, le cause e gli effetti”, ecco che Lombroso appronta tabelle, misurazioni e statistiche che producono il gran teatro dell’antropologia criminale. Non uso il termine “teatro” a caso. Nel diario giovanile, in cui Lombroso raccoglie ogni mattina i sogni notturni, annota nel gennaio 1855, insieme alle turbe erotiche del ventenne e alla ricorrente paura dei ladri: “Sogno di fare una commedia”. E il mese dopo: “Sogni continui e ridicoli. Una signora mi dice che dovrei fare un dramma e me ne dà l’argomento”.
Questo diario e molte altre cose (testi marginali, articoli, conferenze…) sono contenuti in L’amore nei pazzi e altri scritti, una raccolta curata con passione e filologia da Alberto Cavaglion. Lo studio del crimine come sua messa in scena e consumo è per esempio molto evidente nella pubblicazione dei testi delle conferenze del 1881 su suicidio, delitto, amore e follia. Nota Cavaglion: “Si capisce perché i colleghi e gli accademici del suo tempo storcessero il naso davanti a queste rappresentazioni quasi teatrali. Il richiamo era alto e gli spettatori affluivano numerosi sapendo di assistere a una sorta di commedia dell’arte, una rappresentazione estemporanea ravvivata dalla presenza di delinquenti ai quali il conferenziere chiedeva di raccontare la propria storia, di mostrare i propri tatuaggi…. Più tardi entreranno in scena digiunatori, selvaggi, giganti, soggetti ipnotizzabili, personaggi che leggevano il pensiero, mattoidi e genialoidi”.
Il repertorio dei casi presentati nelle conferenze non è dissimile dalla stagione di uno dei mille serial tv in onda ogni giorno, in cui gli episodi rappresentano un catalogo accuratamente variato di perversioni, manie, efferatezze. “Un conte… immaginò sulla moglie…. strane torture: la faceva carrucolare seminuda fino al cielo della camera o la teneva, giornate intere, pur nuda, chiusa in un armadio… o invitava degli spazzacamini a insultarla oscenamente, mentre egli per maggior strazio… suonava il violino”. “Un tale… ferì gravemente 15 ragazze nella vulva, perché così accontentava, confessò, i suoi istinti sessuali… che già altre volte l’avevano spinto all’onanismo e ad atti osceni con ragazzini”.
“Brière de Bosmond narra di un capitano che obbligava l’amante ad applicarsi sanguisughe alle pudende ogni volta che voleva procedere ai replicati concubiti…”. E così via, senza risparmiare un’ampia casistica di omosessuali maschi e femmine (“gli orrori lesbi e socratici”), pederasti, ninfomani, dei e delle quali oggi stringe il cuore non solo immaginare la condizione, ma anche i rimedi “scientifici” ai quali venivano sottoposti per guarirli dalla loro presunta patologia. La povera N.R. (“di immaginazione calda, amava il bello, ma si rideva di Dio”), masturbatrice compulsiva, viene sottoposta a questa terapia: “La frusta non servì. La rese stupida, falsa e cattiva senza giovare. Così parimenti a nulla giovò la camicia di forza. Né giovò l’acqua fredda…”.
Ma non c’è da fare molta ironia. Le reazioni del pubblico a questa sorta di grand guignol parascientifico non erano dissimili dal nostro voyeurismo contemporaneo nei confronti del crime su piccoli e grandi schermi. Non solo condividiamo con i nostri antenati l’irresistibile attrazione per il torbido e il proibito, ci accomuna con l’Ottocento di Lombroso anche il paradosso di una società ossessionata dalla sicurezza ma affascinata dalla devianza, in cui la paura del criminale è direttamente proporzionale al successo del noir. Tanto che ci si chiede come mai a nessuno sia finora venuto in mente di trasformare Cesare Lombroso in un personaggio da fiction.
In fin dei conti Sherlock Holmes, che nasceva negli stessi anni in cui Lombroso godeva di gran fama, è suo stretto sodale. La pratica sherlockiana di dedurre la verità dall’osservazione dei dettagli secondari è parallela alla prassi lombrosiana di dare un senso al male sociale studiando la fisiologia dei devianti e dei loro avi. L’illusione è la stessa: che ci debba per forza essere una ragione che fa quadrare le cose; e tanto più improbabile è la logica che vi conduce, tanto più è credibile. Ma bisogna pur riconoscere a Lombroso, per quanto assai malinconicamente, anche una modernità positiva. Quando scrive: “… l’organismo carcerario, creato, come le leggi penali, con sistemi aprioristici senza uno studio serio e sperimentale… doveva dare i mali frutti che esso fornisce”, sembra che Lombroso abbia appena visitato il carcere delle Vallette nel 2023. Se le tecniche criminologiche, in 150 anni, hanno fatto passi da gigante, le patrie galere sono rimaste all’Ottocento.