Ultras
Ai lettori di Doppiozero interessati al tema degli ultras del calcio suggerisco la lettura di Fra gli ultras – Viaggio nel tifo estremo di James Montague, appena uscito presso 66thand2nd, combinandola con la visione di A guardia di una fede, un film di Andrea Zambelli nei cinema in questi giorni, dopo la “prima” al Torino Film Festival. Protagonista di A guardia di una fede è il leggendario capo della Curva Nord dell’Atalanta, Claudio Galimberti detto “il Bocia”, a cui peraltro anche Montague dedica ampio spazio avendolo incontrato di persona a Bergamo. Premetto subito che di A guardia di una fede sono il produttore (insieme ad Andrea Zanoli) e che sono un tifoso atalantino convinto. A fare il film, però, non mi ha spinto la fede calcistica, ma la stessa curiosità che ha motivato Montague a girare il mondo dal Sudamerica all’Europa fino all’Indonesia, mettendosi spesso nei guai, per conoscere e documentare cosa c’è dietro un fenomeno di cui di solito ci si occupa solo per fatti di violenza e di ordine pubblico.
La combinazione di lettura del libro e di visione del film produce una sorta di effetto zoom. Da una parte Fra gli ultras offre una panoramica mondiale delle dinamiche che stanno dietro il tifo organizzato, estremamente variegata ma anche coerente; dall’altra il film racconta una storia personale, insieme eccezionale e simbolica, di come la vita di un uomo sia stata consacrata a un’idea che a molti può apparire degna di miglior causa: la passione per una squadra di calcio. Un pensiero che vale solo se non si capisce che la squadra non è che il totem intorno al quale si riunisce la tribù, quella a cui Desmond Morris ha dedicato le due edizioni dell’imprescindibile La tribù del calcio (Mondadori 1981; nuova edizione riveduta e aggiornata, Rizzoli, 2016). La squadra è, appunto, solo un simulacro: i veri ultras, dice un loro capo nel libro, sono quelli che non guardano la partita, impegnati come sono a dirigere i cori e la coreografia della loro curva, dando la schiena al campo.
Già, la curva. Nella sua divisione sociale lo stadio di calcio racconta già una storia chiarissima. Ci sono due curve contrapposte (una a basso prezzo, frequentata dai tifosi meno abbienti o più radicali; un’altra più tranquilla e divisa a metà con gli ospiti); una tribuna per la piccola borghesia; e una per i ricchi. Nel vecchio stadio di Bergamo lo status symbol era rappresentato dalla copertura della tribuna dei ricchi: l’unico settore dove non si prendeva l’acqua se pioveva. Poi si passò a coprire anche quella di fronte, lasciando in balia delle intemperie solo le curve, anche se ai loro frequentatori fregava poco. In curva la partita la si guarda in piedi e tendenzialmente scomodi, e se uno vuole un altro tipo di spettacolo può guardarsela in tv o andare al cinema. Ed è questo il tema centrale: tutto il movimento del “calcio moderno”, a partire dalla storica lotta delle autorità inglesi contro gli hooligans, va proprio in questa direzione. Già nel 1981 Morris appone questa didascalia a una foto di curvaioli sotto la neve: “L’idea tradizionale che la partita di calcio sia un avvenimento spartano, cui assistere coraggiosamente con il tempo più inclemente, è ormai abbandonata dagli elementi progressisti della tribù. Costoro vorrebbero che si trasformasse in un divertimento per famiglie, il più possibile spettacolare”. È quello che è in effetti successo in Inghilterra con la lotta agli hooligans e la creazione della Premier League. Ed è il discrimine su cui in Italia e altrove si combatte la battaglia degli ultras: la trasformazione in un puro entertainment della partita, il cui significato lo stesso Morris descrive così dal punto di vista antropologico: “Caccia rituale, battaglia stilizzata, dimostrazione sociale, cerimonia religiosa, droga sociale, impresa commerciale, rappresentazione teatrale”.
A questo proposito è significativa la struttura circolare di A guardia di una fede. Il film inizia con una ripresa notturna dello stadio vuoto, salvo che in Curva Nord, dove sono assiepati più di novemila tifosi a celebrarne l’ultima notte. Il giorno dopo, infatti, inizieranno i lavori di ristrutturazione dello stadio. I tifosi hanno tirato fuori tutti gli striscioni storici dagli anni ’70 in poi e stanno ascoltando in silenzio il Bocia che racconta con orgoglio cosa significa essere atalantini. Poi tutti accendono dei bengala rossi tacendo per un lungo minuto di silenzio in onore della curva. Da lì parte il film che si concluderà con le riprese delle ruspe che demoliscono impietosamente le gradinate e fanno a pezzi i graffiti vecchi di decenni, per costruire una bella curva moderna e comoda. Sono due idee di calcio che talvolta confliggono e talvolta convivono: nel caso dell’Atalanta anche grazie al nuovo profilo vincente che la squadra ha conquistato negli ultimi anni. Ma è chiaro che qualcosa è cambiato per sempre. E non è un caso che proprio poco dopo la fine delle riprese del film la Curva Nord organizzata abbia dichiarato ufficialmente il suo scioglimento, a ulteriore dimostrazione che essere ultras non ha nulla a che fare con le vittorie o le sconfitte della squadra in campo. In questo senso è rivelatore il video in cui il Bocia arringa i suoi, dopo che nel 2005 l’Atalanta è retrocessa, dicendo: “L’anno scorso siamo stati in fondo alla classifica dalla prima all’ultima giornata. È stato un campionato bellissimo!”.
Ci sono zone del mondo dove essere ultras li inserisce in dinamiche molto complesse. Nel libro di Montague, uscito in Inghilterra nel 2020, il capitolo sull’Ucraina ci fornisce una “vista dall’interno” particolarmente interessante alla luce dei recenti eventi bellici. L’intreccio tra ultras, nazionalisti, neonazisti, battaglione Azov e guerra nel Donbass (prima dell’invasione russa) è un groviglio difficilissimo da dipanare. Scopriamo, per esempio, che sono stati i gruppi ultras più violenti, quelli organizzati in cosiddette firm dedite alle arti marziali e alle risse organizzate con i rivali, prima a coalizzarsi e poi a costituire i corpi di volontari combattenti che avevano riportato Mariupol sotto il controllo ucraino. Il rapporto tra ultras e politica è insieme semplice e complicato. In Italia, per esempio, Montague ci ricorda come nel primo tifo organizzato degli anni Settanta le curve avessero assunto la connotazione politica della città di riferimento. I Fedayn e i CUCS della Roma erano di sinistra, la Lazio di destra da sempre. I livornesi sono ancora famosi per essere rimasti “comunisti”. Le Squadre d’Azione Nerazzurre degli interisti portavano un’evidente caratterizzazione mussoliniana, in conflitto con una generica simpatia di sinistra della Fossa dei Leoni milanista. A Bergamo, curva tradizionalmente di sinistra, sventolava l’effigie di Che Guevara (accanto, ricordo bene, alla bandiera della Giamaica con la foglia di marijuana). Oggi leggere il tifo organizzato attraverso la politica è molto difficile, anche se è innegabile che quasi tutte le curve si sono spostate verso destra e verso posizioni razziste. Ma quando Montague chiede a molti dei tifosi che incontra, pur coperti di tatuaggi nazisti, rune e simboli celtici, da che parte stanno, gli stessi negano di essere fascisti, ammettendo piuttosto di essere “patrioti”.
Questo è un tema fondamentale, perché alla fine la radice dell’identità ultras sta proprio nel rapporto col proprio territorio e la propria gente. Per il Bocia, per esempio, questo rapporto si esplica in due modi. Il primo è costruire occasioni di incontro della comunità e fare del bene a chi ne ha bisogno. Ecco così nel film le incredibili sequenze girate alla Festa della Dea, una manifestazione organizzata ogni estate a Bergamo dal 2004 al 2018. Alla Festa della Dea (per chi non lo sapesse, il soprannome dell’Atalanta, dato che viene dalla mitologia greca) andavano tutti, nonni e ragazzini, casalinghe e hooligans, in un’atmosfera che ricorda le vecchie Feste dell’Unità. E sul palco venivano distribuiti assegni ad associazioni di volontariato per costruire asili in Africa, centri di assistenza per disabili e così via, nemmeno si fosse alla San Vincenzo… Il secondo modo è “difendere” il territorio. Vale a dire scontrarsi con i rivali vissuti come invasori; e, quando la situazione storica è cambiata, con la polizia e le istituzioni, determinate a imporre le leggi dello stato su quella sorta di Zona Temporaneamente Autonoma che è lo stadio (c’è una sequenza significativa a questo riguardo in A guardia di una fede, quando Zambelli riprende durissimi scontri tra ultras e poliziotti che cercano di sfondare ed entrare in curva, venendo peraltro respinti.
Si sente nell’audio un ragazzo che grida: “Ma no, cosa fanno? Siamo a casa nostra!”. La curva non è percepita come una struttura genericamente pubblica, ma come spazio esclusivo dei tifosi in cui nemmeno la polizia ha giurisdizione). In luoghi dove il conflitto sociale non si limita alla quotidianità, ma prende un aspetto di vera guerra, come in Ucraina o nella ex-Jugoslavia, questa idea di difesa della comunità prende una deriva incontrollata, dove alla fine non è l’ideologia a contare, ma conoscere la pratica della violenza. Eppure tutto questo può accadere anche nell’insospettabile Svezia: in un capitolo Montague partecipa direttamente a un’aggressione dei tifosi dell’Hammarby contro quelli dell’AIK. Se ne torna a casa impaurito, ma provando “qualcosa di simile all’euforia”.
In Italia Montague incontra due capi tifosi: uno è appunto il Bocia, l’altro è il leader degli Irriducibili laziali, Fabrizio Piscitelli, detto Diabolik. Rappresentano due opposti inconciliabili, due estremi di intendere il tifo organizzato. Entrambi, colpiti da Daspo plurimi, non vanno allo stadio da anni e anni; nondimeno rimangono le figure incontestate di riferimento delle loro curve. Le somiglianze finiscono qui. Diabolik incarna perfettamente la deriva che, in uno dei suoi discorsi alla folla, il Bocia condanna come il peggior peccato che un ultras possa commettere: il fatto che certe curve siano diventate occasioni per un business privato, trasformandosi per qualcuno in un vero e proprio mestiere ben pagato. E altro non si può dire degli Irriducibili, che avevano un proprio brand di abbigliamento e a un certo punto gestivano quindici negozi sparsi per Roma. Controllavano inoltre il traffico dei biglietti omaggio e del merchandising della Lazio; e questo era solo l’aspetto alla luce del sole, perché Diabolik era certamente coinvolto in traffici meno legali. Viene infatti ammazzato con una tipica esecuzione mafiosa il 7 agosto del 2019, meno di due mesi dopo l’incontro con Montague (fatto del quale, curiosamente, il libro non fa cenno). Dall’altra parte, dopo che la Curva Nord atalantina è uscita indenne da un processo per associazione a delinquere dove però lui è stato condannato per vari episodi di violenza, il Bocia è finito a vivere lontano da Bergamo, da cui è di fatto bandito, e sbarca il lunario facendo il pescatore e il manovale in un maneggio. Due Robin Hood, uno romantico e uno “nero” (in tutti i sensi). Ma entrambi capaci di organizzare movimenti di contropotere reale in un’epoca in cui la gente è vittima di una solitudine sociale senza precedenti. Per quanto paradossale, lo stadio resta uno spazio di contesa ancora vivo: d’altra parte, cosa sarebbe una partita senza i tifosi? Nello stesso momento in cui televisioni e club li ridurrebbero volentieri a semplici clienti di un evento, sanno che non ne possono fare a meno. Le partite con gli stadi vuoti durante la pandemia sono il fantasma di quello che il calcio potrebbe diventare. Come dice il Bocia: “Senza gli ultras sarebbe come un cinema. Farebbero tutti silenzio…”