Speciale
Polo del ‘900 / La rivoluzione in rima
Si chiama “Cinecronache”, è prodotto da “edizione cooperativa per una libera informazione”, uno dei tanti collettivi militanti di quegli anni, presumo. Documenta, nel modo più scabro possibile, una manifestazione di 30.000 donne a Roma nell’inverno del ’76. Lo fa con quello che potremmo definire una sorta di grado zero della ripresa, da cinema documentario senza un punto di vista personale (paura di sovrapporre l’individualismo alla rappresentazione delle masse? Chissà…). Le immagini sono piuttosto banali, affossate da uno stinto bianco e nero che sembra rivelare una pionieristica ripresa video. Sarei pronto a giurare che furono realizzate con uno di quegli Akai da un quarto di pollice che giravano allora tra gli addetti alla controinformazione, quorum ego, quando si pensava che bastasse disporre dei mezzi, e non di un linguaggio, per produrre un senso diverso. Ma questa è un’altra storia. Uno dei vantaggi che i primi VTR (Video Tape Recorder) offrivano, rispetto alla pellicola, era una ripresa audio contestuale a quella visiva. E ciò che questo cinegiornale offre, prima del comizio finale, è appunto una sorprendente collezione degli slogan scanditi dal corteo, l’unico sonoro che accompagna le immagini.
Donne venite/ in piazza con noi/ a chiedere lavoro/ anche per voi
Aborto consultori/ nidi occupazione / togliamo le barriere / dell’emarginazione
Non so se sia mai stato fatto uno studio accurato sull’aspetto formale degli slogan degli anni ’70, sulla scelta di ritmi e di metriche che, curiosamente, echeggiavano certi ottonari carducciani grondanti retorica. Ma forse la chiave era proprio quella: nella testa degli scolari costretti a imparare a memoria tanta brutta poesia non restavano i versi, ma solo un ritmo. Un po’ come si cantano certe canzoni rock senza sapere nemmeno bene cosa dicono. Ed ecco allora che quella noiosa prosodia poteva trasformarsi in uno strumento di contestazione.
Non siamo macchine / da riproduzione / ma donne in lotta / per l’emancipazione
Ci vogliono ignoranti / disinteressate / a scuola, in fabbrica / sempre sfruttate
Lo slogan da corteo, poi, è per natura collettivo. Prende forza non solo per quello che dice, ma soprattutto per il numero di persone che lo intona. In questo caso, si tratta solo di voci femminili, il che produce un tono meno aggressivo che non se fossero scanditi da un servizio d’ordine. Ma non significa che siano meno forti. Anzi. Rispetto a certi slogan “maschili” del periodo, suggeriscono una lucidità di pensiero e anche una forma stilistica più originali.
Vogliamo ricamare / vogliamo cucire / non il corredo / ma il nostro avvenire
Ombretti profumi / senza cervello / non siamo le donne / del Carosello
Ma, inevitabilmente, la fissità (quasi timida) delle riprese svela a un certo punto anche l’altra faccia della natura dello slogan: è il corrispondente laico della giaculatoria religiosa. Un rosario politico con i suoi misteri gaudiosi e dolorosi, che attraverso le parole produce una sorta di trance, dove la rabbia prende una forma e la forma produce liberazione.
Vogliamo vogliamo / occupazione / per uscire / dall’emarginazione
La casalinga / non è privilegiata / è solamente / una sfruttata
La cerimonia (perché anche una manifestazione politica lo è) prevede che ogni momento del rito si carichi di senso, con una sorta di “horror silentii”. Ma se in una messa si può spostare l’attenzione sull’officiante e sulle sue azioni mute, usando il silenzio in modo dialettico, in un corteo di protesta non si può stare zitti. Scendere in piazza è sinonimo di alzare la voce per farsi sentire. E così gli slogan producono un effetto ambiguo di forza e insieme di debolezza, quasi che fuori da quelle rime ci si senta perduti. È la sensazione che ti coglie dopo alcuni minuti del filmato, quando la ripetizione forzata di certe parole produce un effetto straniante non dissimile dagli “ora pro nobis” delle perpetue. Sarà che molti termini pentasillabici di natura teorico/filosofica in voga in quegli anni si prestano perfettamente a questa pratica: da “emarginazione” a “emancipazione”, da “occupazione” a – ovviamente – “rivoluzione”.
Senza le donne / nella produzione / non ci sarà sviluppo / dell’emancipazione
Occupazione / occupazione/ questa è la chiave / dell’emancipazione
Gli slogan sono interrotti, talvolta, dal canto. Il cinegiornale ne registra uno, sull’aria di Bandiera nera la vogliamo no:
Doppio lavoro non lo voglio no
Tempo parziale non lo voglio no
Non voglio fare più la casalinga
Con il lavoro mi riscatterò
Staccandosi dalla forma, cosa è rimasto del contenuto di quegli slogan e di quella lotta? Passi avanti verso la parità salariale e normativa sul lavoro se ne sono fatti, oggettivamente. Ma siamo lontani da quegli obiettivi che erano già chiari 50 anni fa: per le donne è ancora dura. E se misuriamo quelle richieste e quell’orizzonte di liberazione con la realtà di oggi, il bilancio è ambiguo. È per esempio vero che le donne italiane, soprattutto le più giovani, sono quasi tutte totalmente fuori dal modello-casalinga su cui ironizzava la canzone appena citata. Ma viene qualche dubbio, invece, sul fatto che sia stata superata la donna “modello Carosello”. I media continuano a proporre un archetipo femminile che si è sganciato sì dalla famiglia, ma non dalle richieste di adeguamento alle attese maschili.
Il vero prodotto di quell’emancipazione, che oggettivamente c’è stata (il sottoscritto è cresciuto in un paese in cui nei tribunali si riconosceva il delitto d’onore…), è un altro e non si sa bene come considerarlo. È un fatto che sta nei numeri della demografia, che rivela come proprio a cominciare da quegli anni sia iniziato nel paese un fenomeno di denatalità che oggi – dicono tutti gli analisti – ci consegna a un irreversibile processo di estinzione degli italiani come li abbiamo conosciuti. La liberazione delle donne dai vincoli della famiglia patriarcale ha avuto un prezzo oggi chiarissimo sul piano della biopolitica. La distruzione dell’archetipo moglie-madre secondo la tradizione cattolica e borghese è stata reale e praticata nei fatti, ancor prima che nel dibattito culturale. Tanto che ci sono ancora ministri che parlano di “politica della famiglia”, o di famiglia come “pilastro della società”: ma le statistiche ci dicono che le famiglie in senso tradizionale sono ridotte a un quinto circa della popolazione. Sono una minoranza; da tutelare, certo; come le persone LGBT+ o i single. Ma niente di più. In questo senso, in Italia è davvero avvenuta una rivoluzione: non con un botto, ma con un gemito, per parafrasare Eliot. E con un esito che lascia perplessi.
Nell’ambito della programmazione culturale 2021/2022 del Polo del ‘900 Dove portano i Venti. Crisi, transizioni, opportunità del nuovo decennio, la Fondazione Istituto piemontese Antonio Gramsci propone e coordina il progetto multimediale Archivi con-nessi. Il testo di Davide Ferrario qui presentato, nato dalla collaborazione fra Polo del ‘900 e Doppiozero, prende spunto e si sviluppa a partire dai materiali presenti nel percorso “Lavoro, lotte e diritti” (consultabile qui).