Vero/simile. A proposito di Cattiverie a domicilio

9 Maggio 2024

Cattiverie a domicilio di Thea Sharrock (in originale Wicked Little Letters) è la classica commedia “come sanno farla gli inglesi”: umorismo british (che non rifugge però, quando serve, dalle scoregge), dialoghi brillanti, bravissime attrici e attori e un fondo di impegno sociale che è la cifra dei film prodotti da Film 4, la RaiCinema d’oltremanica. È anche un esempio piacevole e intelligente di come si possa raccontare una storia in chiave femminile, non solo davanti ma anche dietro la macchina da presa, visto che dai titoli di coda si evince una forte componente di donne anche nella troupe. Se mette conto di parlarne, però, non è tanto per il valore del film in sé, ma per certi sintomi parafilmici che traspaiono dalla storia. A cominciare proprio dal plot, visto che il film si apre con una didascalia che è una variante del tipico “Tratto da una storia vera”, e cioè: “Questa storia è più vera di quello che possiate immaginare”. 

In effetti, se non ne fossimo avvertiti prima, sarebbe difficile credere che quello che si racconta nel film sia successo davvero negli anni ’20 in un paesino del Sussex. Invece, avvenne proprio che molti residenti della cittadina cominciarono a ricevere lettere anonime piene di insulti volgari, scatenando uno scandalo di cui si occupò perfino il Parlamento. Pur in mancanza di prove certe la pubblica opinione (e – incredibile – anche il tribunale) trovò il capro espiatorio in un’outsider appena arrivata in paese il cui stile di vita non andava a genio alla “maggioranza silenziosa” del luogo: straniera e strana, la colpevole perfetta. Salvo poi scoprire che le lettere le mandava invece proprio una delle principali destinatarie delle stesse, una pia donna tutta casa e chiesa, che fu incastrata dalle indagini della polizia locale, di cui faceva parte una delle prima donne poliziotto, Gladys Moss. 

Il caso, come detto, fece allora molto scalpore e gli autori del film l’hanno recuperato tramite due chiavi contemporanee: una, dimostrare che il fenomeno dei troll non è un’invenzione della rete; l’altra, usare la storia originale per raccontare le molte facce della condizione femminile di oggi attraverso la lente del passato. Cosa che riesce molto bene, se non fosse che i comandamenti del politicamente corretto spingono la cosa molto più in là delle intenzioni. È per esempio sorprendente scoprire l’esistenza di una donna poliziotto nel 1920, ma è un fatto documentato; però è del tutto disorientante farla interpretare a un’attrice di origine indiana (Gladys Moss era in realtà una inglese bianca). Non solo. Se sembra improbabile che la protagonista conviva con un compagno di colore come se fosse la cosa più normale del mondo a quei tempi, lo spettatore fa un salto sulla sedia quando – durante il processo – vede sullo scranno del giudice un altro uomo di origine africana. Un breve controllo in rete ci rivela, come sospettato, che si tratta di una totale forzatura: il primo giudice nero siederà in un tribunale inglese solo nel 1968. 

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Ora, che i film non siano libri di storia è pacifico. Ma in Cattiverie a domicilio è all’opera un’intenzione smaccatamente woke in cui il politicamente corretto, con le migliori intenzioni, si trasforma in storicamente falso. Il che in sé, ripeto, non è un peccato che ascriverei a nessun film in onore alla libertà creativa, se però non ci fosse quella didascalia iniziale che ci dice che quella storia “è più vera di quanto possiamo immaginare”. E in effetti sono uscito dal film pieno di dubbi rispetto al mio potenziale razzismo, dicendomi che forse davvero l’Impero inglese era più democratico di quel che immaginassi. Ma mi chiedo quanti abbiano consultato Wikipedia, arrivati a casa. Ripeto, a costo di annoiare. Il punto non è la messa in scena, dove ogni regista è libero di fare tutti i cortocircuiti che vuole col passato e con la fedeltà storica. Il punto è come lo spettatore vive l’esperienza di una storia che si presume e si presenta come “vera”. E quando capisci come stanno le cose, finisci per chiederti se l’impossibile giudice nero di Cattiverie a domicilio non sia il rovescio speculare di Al Jolson, l’attore bianco famoso per essere stato il primo a cantare in un film sonoro (Il cantante di jazz, 1927) – truccato da nero, dato che ai neri era negato essere protagonisti di un film… Il politicamente corretto del 2024 ha qualcosa di sgradevolmente omologo al razzismo di un secolo prima.

Peraltro, oggi non sono pochi i film e le serie in costume in cui compaiono personaggi di colore che semplicemente non potevano esistere in quanto tali, come certi “sir” alla corte elisabettiana… Ma la riscrittura della storia non è dettata solo dal politicamente corretto. Chi lavora nel cinema sa che è ormai diventato impossibile mettere in scena qualsiasi cosa che coinvolga un marchio commerciale a meno che se ne regoli l’esposizione con un contratto. Il problema è quando si applica questa pratica a un film storico. Ho visto personalmente uno scenografo ricoprire un intero stadio di cartelloni “falsi” con pubblicità inventate per una scena ambientata negli anni ’60 perché il produttore non voleva avere problemi con i marchi reali del periodo. Ora, chi c’era egli anni ‘60 forse riconosce il gioco: ma che dire di un ventenne che vede film “storici” che sono però irrealistici perché in ostaggio del politicamente corretto o del commercialmente tirannico? A questo c’è da aggiungere un’altra pratica all’opera nei programmi televisivi teoricamente dedicati alla storia: il re-enactment, quella cosa per cui uno o più attori recitano senza sonoro scene generiche che riguardano il personaggio o l’epoca di cui si parla. Quelli in costume fanno più che altro tenerezza, perché si cerca magari di raccontare l’impero romano con quattro comparse vestite da centurione. Ma si entra in uno spazio più inquietante quando come, in una serie di History Channel su Berlusconi di qualche tempo fa, si vedono delle riprese con un attore di schiena che simula Berlusconi (“interpreta” è una parola sbagliata) in un luogo che potrebbe essere la villa di Arcore, filmate come se fossero rubate…. 

Cosa stiamo guardando davvero? La tradizionale opposizione tra “realtà” e “fiction” si sta colorando di sfumature sottili e spesso ambigue, in cui la Storia assume sempre di più i connotati di una storia. In questo gioco di specchi il dubbio di fondo è: ma chi si educa su questo tipo di fonti, che idea si fa del passato? Ora, non è che prima ci si preoccupasse della verità storica: Hollywood ha costruito tutta l’epopea del Far West mentendo spudoratamente. Ma a un certo punto fu lo stesso sistema a generare una sorta di antidoto, cominciando a raccontare il prezzo di quell’epopea dalla parte degli indiani, nella stagione della New Hollywood degli anni ’70. Oggi sembra che per “dire la cosa giusta”, invece di ripristinare una qualche forma di contro-verità, bisogna raccontare una balla che assomiglia più alla narrazione di una fiaba che alla realtà. Ma forse è proprio così che oggi percepiamo la nostra relazione col mondo, come una specie di favola popolata da archetipi sui quali non abbiamo controllo. 

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