Lost in Hospital

2 Marzo 2012

L’edificio è recentissimo, inaugurato nell’ottobre 2010. È l’iperattrezzato Ospedale (rigorosamente con la O maiuscola) Sant’Anna di Como, costruito tra l’autostrada Milano - Chiasso e una serie di centri commerciali. È la prima volta che ci arrivo, accompagno mia madre che deve essere operata in giornata. È l’alba e, complice il buio, inizio a sbagliare ben prima del previsto, imboccando il parcheggio riservato al personale. Il cartello che lo segnala, quando lo vedo, misura non più di cinquanta centimetri per lato ed è in posizione defilata. Forse avrebbe dovuto dirmi qualcosa la sbarra alzata, ma alle sei e mezzo del mattino non ci si fanno tante domande. Già, le sei e mezzo! Che bisogno c’è di chiamare le persone in Ospedale a quell’ora? Perché suggerire quella livida sensazione di disastro che solo le primissime ore del giorno possiedono in sé? E poi che ti fanno fare? Niente, assolutamente niente. Bisogna aspettare, seduti nella saletta del Reparto (doverosa anche in questo caso la maiuscola) di “Medicina”, guardando in faccia altri futuri degenti o i loro parenti.

 

L’ambiente, caldissimo, è molto curato. Pulitissimo anche. C’è la macchinetta del caffè e delle bibite. Nulla di paragonabile agli esiziali pronto-soccorso di cui parlano le cronache di questi giorni. Ma perché dopo un’ora siamo ancora tutti lì? E poi perché di fronte a noi ci stanno dei bambini? Mescolare adulti e bambini in Ospedale mi sembra strano, poco opportuno. Che cosa significa? Forse c’è dietro la stessa logica per cui qualcuno ha immaginato di dover proporre arredi confortevoli dai colori caldi. Rendere accettabili anche le situazioni meno piacevoli. Umanizzare l’Ospedale. Togliergli la patina e l’odore. Ma a me non piace comunque. Quel voler a tutti costi essere simpatici e disponibili mi riempie anzi di risentimento: avrei preferito un ambiente sobrio, meno ammiccante e inevitabilmente più sincero. E poi qui non arriva mai nessuno, sono quasi le otto ormai. Mia madre è abituata agli Ospedali e attende leggendo un romanzo di Catherine Dunne. Io invece sono nervosissimo perché vorrei che qualcosa finalmente accadesse. Mi sono svegliato alle cinque, perdio! Ma solo alle otto e mezzo, improvvisamente, la situazione si sblocca. Alla porta del corridoio si materializza una figura allampanata, con golfino blu e Crocs verdi, che fa un appello in puro stile militare. Pronuncia quattro cognomi, tra i quali c’è anche il nostro. Finalmente possiamo muoverci seguendo gli agili passi della donna, che si mostra straordinariamente affabile.

 

Quando arriviamo alla camera che è stata destinata a mia madre, però la donna si trasforma. Rivelando solo in quel momento la sua natura di infermiera, impone una serie di passaggi rituali, che si concludono con l’abbandono degli abiti civili per il pigiama e la vestaglia. Come si fa a rientrare nella categoria di “ospedalizzato” se non se ne possiede lo stigma, ovvero il terribile pigiamino attillato che i vecchi portano con la maglia rigorosamente infilata nei pantaloni? Ma non è tutto. L’infermiera da qualche minuto ha attivato i suoi strumenti professionali, che ruotano attorno al concetto che il paziente è – invariabilmente – un bambino inetto e capriccioso. Così mia madre perde di colpo la possibilità di essere chiamata col cognome e diventa “Anna”. Non solo, le sue richieste sono accolte con paternalistica accondiscendenza, come ghiribizzi non dissimili da quelli che abitualmente costellano la quotidianità dell’Ospedale. Nel complesso, però, sia io che lei riveliamo una certa soddisfazione, perché abbiamo la sensazione di avercela fatta, di aver finalmente raggiunto un risultato. C’è la camera, anche se in condivisione con una signora silenziosa e massiccia!

 

Che lo stato d’animo si sia alleggerito lo rivela la successione di trovate ironiche e surreali (è antica abitudine famigliare) con cui inganniamo il tempo. Già, il tempo. Non sembra passare mai. Che fare? Dove sono i medici? Vado avanti e indietro decine di volte dalla camera al corridoio, insofferente a tutto. Mi colpiscono solo i difetti. Dalle finestre – chiuse a chiave – vedo altri corridoi e altre stanze. Vedo i malati sdraiati sui loro letti , vedo il via vai di gente col camice. E la privacy? Che significa separare un letto da un altro con un paravento e poi esporre alla vista di chi si trova nell’ala opposta dell’edificio tutto quello che accade nella camera? Infastidito, distolgo lo sguardo, proprio mentre due barelliere vestite di viola arrivano a prelevare un malato destinato alla sala operatoria. Non parlano, sono spicce nei modi e sembrano stanchissime. Accompagnano una donna ancora giovane. Non le rivolgono mezza parola e viaggiano ad una tale velocità che il letto si schianta fragorosamente contro la parete. Una delle due tenta un mezzo sorriso, l’altra tira dritto.

 

È solo alle nove e tre quarti che due medici si presentano per la visita. Sono figure tipiche, emissari di un Potere sconosciuto, messaggeri del Castello. Entrano in camera discutendo animosamente tra loro, senza quasi salutare. Sotto il camice sembrano nudi, hanno i capelli cortissimi e parlano di turni, come chiunque altro lavori in Ospedale. Con una certa sapiente fretta visitano mia madre e pur non nascondendosi reciproci e a me incomprensibili dubbi se ne vanno dicendole di attendere la chiamata per l’operazione. Nient’altro. Io non ho aperto bocca. Al momento ho la sensazione di aver mancato qualcosa, di non aver fatto ciò che doveva essere fatto. Ma me ne dimentico presto, convinto che la macchina dell’Ospedale procederà per la sua strada anche senza le mie richieste di chiarimento. Quando però sono le undici e nulla è ancora successo, capisco che la rassegnazione non è forse la strategia più indicata. Mi metto in testa che devo agire,che devo sapere qualcosa. Chiedo informazioni su ciò che avverrà all’infermiera che ci ha accompagnato in camera tre ore prima, ma, benché ancora sorridente, sembra non riconoscermi. Mi fa però dei nomi di chirurghi vascolari, mi parla di “tempistica”, ma vedo che continua a scrutare l’altro capo del corridoio e l’orologio: probabilmente sta per staccare e il cambio ritarda. Della situazione di mia madre, tra cinque minuti, non le importerà più nulla.

 

È da questo momento che penso di poter fare tutto da solo. Muovendomi alla cieca, inizio io a cercare i medici. Giro dappertutto non solo nel Reparto di Medicina ma anche al piano terra e al primo piano, tra edicole, sale ristoranti, bibliotechine, reception, banca. Non trovo i medici della visita, però mi sorprende che nessuno – nemmeno il prete col camice bianco dai modi severissimi che mi sorprende in una zona vietata - mi chieda dove sto andando o chi sto cercando. La verità è che in Ospedale è davvero possibile fare tutto tranne essere visitati. Infatti, nonostante avvisi intimidatori, nonostante complicatissime tabelle orarie con i tempi di visita rigorosamente scanditi, con facilità chiunque può percorrerne i corridoi, chiunque può entrare nelle camere, chiunque può addirittura arrivare in sala operatoria tra lo sbalordimento dei chirurghi (è successo proprio qui, me lo hanno raccontato).

 

Vorrei, per sfida, infilarmi in uno dei non pochi letti liberi. Dopo quante ore potrebbero scoprirmi? Ma mi scoprirebbero davvero? Oppure, come in una comica alla Laurel e Hardy, mi trascinerebbero comunque sotto i ferri? Decido che, senza casa, me ne starei qui: rimanendo defilato potrei farla franca anche per settimane, i bagni tra l’altro sono lindi e accoglienti. Quante cose mi diventano di colpo chiare. Il problema degli Ospedali contemporanei non è soltanto legato ai loro insostenibili costi di mantenimento. Macché!. Il problema è il contatto tra le masse di malati e chi è destinato ad assisterli. Se lo si evita, ovvero se si va in Ospedale sufficientemente sani e mentalmente liberi, tutto è consentito. Ma c’è qualcosa in più. Comincio a pensare – forse è una reazione dovuta alla fatica – che queste maglie larghissime siano solo in apparenza frutto della disorganizzazione. In effetti si potrebbe trattare di una ulteriore necessità del Sistema che nel disordine riesce a rendere meno visibile se stesso, occultandosi agli occhi di chi pensa di potere finalmente capire perché si trova proprio lì, nel suo elefantiaco ventre.

 

Quando torno in camera la vicina di letto mi dice che l’hanno portato in sala operatoria. Non so perché le chiedo con mezza voce “Chi?”. La donna, a prima vista piuttosto vecchia ma probabilmente quasi mia coetanea, mi guarda insospettita senza rispondermi. Ha così inizio l’ulteriore interminabile attesa, che trascorro leggendo cinquanta pagine di Kaputt, presente con una prima edizione fiammeggiante nella biblioteca di cardiologia. Passano quattro estenuanti ed enigmatiche ore – fatte di continui andirivieni verso la sua stanza vuota - prima che veda riemergere mia madre. È lucidissima. E l’anestesia? Colpo di scena. Mi dice che non le è stato fatto nulla. È rimasta parcheggiata sul letto ad osservare il soffitto. Tutta la trafila a cosa è servita? E il pre-ricovero di due settimane prima? E la miriade di esami eseguiti negli ultimi tempi? E il piede gonfio che ormai le impedisce di camminare? E l’urgenza?

 

Mi sembra di ammattire. Devo cercare un medico, assolutamente. Fermo il primo che trovo, ma non ottengo nulla. Cerco di parlare ad un altro dal tratto più affabile, ma mi dice che non è del Reparto. Vedo finalmente uno dei due del mattino, ma mi confessa che non può parlare (e perché?). Fluttuo avanti e indietro almeno per un’ora, riuscendo a raccogliere soltanto qualche parola smozzicata. È lampante: i medici hanno natura solo tangenzialmente simile alla nostra. Lo dice il loro sguardo, che esprime la stessa irredimibile alterità del dottor Pannwitz descritto da Primo Levi. Infatti anche se ti camminano a fianco e ti vengono incontro, sorridenti o (più frequentemente) accigliati, in realtà i medici non ti guardano mai. I loro occhi non sono destinati ad incrociare quelli del paziente o del postulante di turno. E in tal modo i medici – in effetti gli unici destinatari di tutte le aspettative del malato– confermano di essere in perenne transito verso un altro luogo che non è mai quello in cui li si incontra. I loro veri impegni sono infinitamente distanti dalla misera prospettiva del paziente. Altro che la “centralità del cliente”, di cui farnetica la “mission” aziendale.

 

Anche se le pareti dell’Ospedale sono tappezzate di manifesti che annunciano corsi di aggiornamento e seminari volti a migliorare le “capacità relazionali” (nella consapevolezza che la parola sia di per sé terapeutica), i medici con cui ho scambiato frammenti di conversazione mi hanno fatto sentire sulla pelle che volevano soltanto sbarazzarsi della mia scomoda presenza, giudicandomi un incompetente che ostacola il loro lavoro. Nulla è cambiato quando anziché nel medico dal dettato asciutto mi sono imbattuto in quello incline alle spiritosaggini. Come insegnano i manuali di retorica, l’ironia non ha solo intento smitizzante ma anche protettivo. Dissacrare, usare parole corrive, ridere e sottovalutare serve per creare una inossidabile capsula intorno a sé, evitando che il paziente si allarmi e che possa così infastidire più del necessario. La suprema delle barriere difensive – quella che tutti hanno usato con me - è però l’appello alla specializzazione. In suo nome il medico interviene solo su ridottissime porzioni del corpo malato ed evita di esprimere un parere su ciò che ricade anche a qualche centimetro dal suo campo d’azione. In definitiva, nessuno sa niente di te, in Ospedale. E tu perdi anche nozione di te stesso, dei motivi per cui sei lì.

 

Alle quattro del pomeriggio un infermiere mi dice che domani mia madre verrà dimessa. Ma come? Perché? Chi lo ha deciso? Non era il suo un problema grave?

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