Ea delfina scorbutica
Ea è una giovane delfina appartenente al piccolo branco di Stenella longirostris, o delfini acrobati. Il suo popolo, quello dei Longi, è raffinato ed educato, nemico della violenza. Nonostante abitino lontano dalle acque patrie, da cui sono stati allontanati con forza dal megabranco dei Tursiopi, o delfini dal naso a bottiglia, i Longi vivono in armonia con l’oceano. Ea però rappresenta un’eccezione. Lei non è come gli altri, fatica a stare con il gruppo, rifiuta gli approcci sessuali dei maschi, non è nemmeno in grado di eseguire gli straordinari volteggi che, come un’esclusiva forma d’arte, connotano la specie. La opprime una sorta di maledizione. Nonostante i continui tentativi, non riesce a sentire la musica rigenerante dell’oceano: i rumori dell’acqua le provocano “improvvisi sussulti…colpendola dritta dentro la scatola cranica, nel melone”. Non c’è una spiegazione per la sua “disabilità acustica”, ma il risultato è il brutto carattere di Ea, sempre più intrattabile e scorbutica.
Rabbia e rassegnazione sono il suo meccanismo di difesa: “Se lei quella cosa non poteva averla, allora non l’avrebbe più voluta”. Nei momenti peggiori, quando ha bisogno di ritrovarsi, è solita dirigersi alla barriera di coralli neri, il rifugio segreto popolato soltanto dalle temibili murene, che nei suoi confronti manifestano un’insolita tolleranza. Solo la madre di Ea è a conoscenza di questo luogo buio e sinistro; del resto lei è anche l’unica con cui la magnifica delfina riesca a dialogare, facendo ricorso alla “lingua silenziosa ed esclusiva che (…) le aveva insegnato quando si era accorta che Ea era diversa”. Attorno a lei, che incontriamo per la prima volta quando ormai anziana osserva i giochi d’amore dei giovani delfini, ruota Branco, il romanzo della scrittrice inglese di origini indiane Laline Paull, che possiamo leggere nella traduzione di Carlo Prosperi pubblicata da Mondadori. In sintesi, si tratta di un romanzo di formazione, rievocato sul filo della memoria. Due aspetti lo caratterizzano: la ricostruzione scientificamente attendibile della vita delle creature del mare e l’elaborazione di una trama che, pur percorrendo i binari sicuri delle avventure dell’eroe ribelle, chiama in causa temi complessi. Sul piano letterario, il suo presupposto è lo straniamento: il mondo visto dalle profondità dell’oceano attraverso i sensi dei suoi abitanti, in movimento tra fluttuanti geografie, ci costringe a un continuo capovolgimento delle prospettive.
Da quel mondo, in effetti, noi esseri umani – definiti gli “antropi” o i “deilassù” – siamo esclusi, o, almeno, pensiamo di esserlo (in verità la presenza umana si rivelerà condizionante, come diremo). Così si viene determinando l’inevitabile effetto di quando si affronta una lettura senza l’uomo per oggetto: mancanza di punti di riferimento consueti – dunque spaesamento – e identificazione con chi è diverso da noi. Con un inevitabile dubbio: abbandonarsi alla narrazione non ponendosi domande sul grado di realtà di quanto leggiamo o chiedersi fino a che punto chi scrive sia riuscito a non proiettare la propria ombra umana sugli animali non umani? Insomma è scattata la fatale trappola dell’antropomorfismo, oppure si sono limitati i danni e ci si è almeno avvicinati allo sguardo animale? Paull scrive un romanzo e quindi ha bisogno di personaggi e di situazioni. Oltre a Ea, la lista dei personaggi con un ruolo non marginale è abbastanza lunga: il Rorqual, balenottero cantante; la dispotica delfina tursiope Devi, Prima Moglie di Lord Ku; il correttissimo delfino-soldato Google; l’infido Remora, il pesce parassita; Napoleone, il pesce malinconico che un tempo era stato una femmina; Pallina, la ciarliera pesce palla.
Ad accomunarli c’è un tratto che li rende eroici e narrativamente efficaci: sono tutti malati di solitudine, incapaci, per motivi diversi, di sfuggire alla prigione senza sbarre che la vita ha costruito attorno a loro, costringendoli a muoversi o “tra paura e desiderio” o tra ricordi e rimpianti. Paull è affascinata dai transfughi, da coloro che non possono stare nei confini dettati dalle regole della specie e, in scala più ridotta, della comunità di appartenenza. Tra gli abitanti del mare, cetacei e pesci, lei sceglie i reietti – Ea, ad un certo punto, riceve l’appellativo di “strega” – che, notoriamente, sono poi quelli che hanno qualcosa in più di chi è nel gruppo. In effetti, ognuno di loro ha alle spalle un’esperienza drammatica, che lo ha segnato e condizionato. Ea, per esempio, si è separata dai Longi dopo la morte violenta della madre, uccisa da uno squalo, di cui lei si sente in qualche modo responsabile. Google, il veterano, è sopravvissuto a un’azione suicida pianificata dai suoi superiori umani. Il Rorqual, ispirato dai suoi preveggenti timori, vive in desolata solitudine: “Nessuno voleva ascoltare la sua nuova canzone” perché “nessuno voleva il dolore”.
Napoleone desidera la morte dopo aver visto sparire tutto il suo popolo in un solo drammatico momento, ed essere rimasto così senza corte, senza sudditi, senza “schiere di splendide femmine adoranti”. Non si diventa “lupi solitari” per caso, insomma. Che dire? Le esigenze del romanzo sembrano prevalere: bisogna dare sostanza a una vicenda, attribuire profondità ai suoi personaggi, per cui gli animali di Branco, a un primo sguardo, assomigliano a esseri umani. Quando Paull fa progressivo ingresso nelle menti degli animali la necessità si fa ancora più evidente. Ea è attraversata da paure, idiosincrasie, dubbi; il Rorqual canta destini di morte e di rovina; Google non si riconosce in quanto ha attorno; Devi è gelosa ed arrivista; Lord Ku è autoritario e ligio interprete del suo ruolo di leader. Eccessi antropomorfi? O strumenti per aprirci le porte della mente animale, sfruttando gli intermittenti punti di contatto con la mente umana? Sono le stesse domande che suscita la trama del romanzo. A strutturare la narrazione è infatti l’intreccio dei destini o delle oscillazioni del caso: in Branco si racconta come, nell’arco di pochi mesi, le vite dei grandi solitari si sovrappongano, cambiandoli insieme al mondo che li circonda. Ea si trova costretta a vivere in mezzo ai rozzi e violenti Tursiopi, asservita alle regole dell’harem di Lord Ku in cui è stata trascinata contro la sua volontà.
Ea però ha dalla sua l’intelligenza e un carattere fiero, e quindi, pur sottoposta a violenze e a umiliazioni, impara a conoscerli, a decifrare e a parlare la loro lingua; insegna alle femmine a cacciare secondo la modalità Longi; ne acquisisce anche i difetti, come l’abitudine di nutrirsi periodicamente di salpe, i pesci narcotico. Google, guidato dalle istruzioni del Rorqual, si imbatte nel branco di Tursiopi reduci dalle accanite lotte per ristabilire le gerarchie, conosce Ea innamorandosene, e insieme a lei va incontro al destino: dopo essere stato decimato dai “demoni”, ovvero dagli esseri umani, il megabranco, morti Devi e Lord Ku, trova accoglienza dapprima tra i Pinnacoli dove abita Napoleone, morente nella consapevolezza di aver trovato il senso arcano delle cose, e poi si fonde con i nemici Longi, unendosi ai numerosi cetacei che, a loro volta, seguono il balenottero Rorqual, ormai considerato un maestro di sapienza. E allora? Branco è soltanto un buon romanzo con uomini travestiti da animali del mare? Nonostante tutto, la risposta è no. Pur essendo, in particolare i cetacei, degli animali a cui è facile attribuire caratteri umani – l’intelligenza, la socialità, la vocalizzazione sembrano allinearci – Paull non dimentica quello che ha ribadito Alan Rauch (autore di Il delfino, edito in Italia da Nottetempo), ovvero che “uomini e delfini si sono evoluti nell’ambito…di due distinte solitudini”. Branco è allora un romanzo con creature del mare inevitabilmente descritte da un essere umano, che con attenzione estrema cerca di addentrarsi oltre i confini che separano le specie. In altre parole, Paull si sforza di costruire i personaggi dentro alla loro sfera esperienziale, a partire dall’origine di tutte le distanze tra noi e loro, ovvero quell’ecolocalizzazione attraverso cui delfini e balene sono in grado di definire un’immagine sonora di chi hanno vicino.
I “suoi” delfini sono vicinissimi ai “veri” delfini: comunicano con i click o, in modo più raffinato, con silenziosi messaggi mentali; si servono del sonar anche per stordire gli avversari; vivono in branchi, i cosiddetti pods, continuamente soggetti a processi di fissione e fusione, costruendo sottogruppi familiari (gli harem dei tursiopi) fortemente gerarchizzati, in cui se non si sta alla regole si finisce nella pericolosa condizione dei “periferici”, esposti a tutti i rischi della vita del mare; inoltre i delfini e gli altri animali non vivono in un mondo idilliaco, ma, come ha spiegato anche Rachel Carson, sono continuamente esposti alla competizione tra predatori e prede, cacciati dagli squali e cacciatori di calamari e altri pesci solitari; o sono coinvolti in rapporti sessuali forzati e violenti ma anche nelle gioiose esplosioni collettive della “fregola” che sospende ogni altra attività; o sono alle prese con stizzite dispute interne che portano, ancora una volta, all’uso della forza per mezzo di poderosi colpi di coda. E “oltreumano” è pure lo spazio in cui si muovono i personaggi, quell’oceano da cui i delfini affiorano per respirare o per dormire, spegnendo solo metà del cervello e tenendo un occhio aperto: un luogo definito da confini invisibili, in cui ciascun branco ha il proprio territorio, segnato da strade su cui viaggiano le balene, e dall’incontro tra i colori delle acque più superficiali con il buio della profondità.
Se quindi le azioni sono innescate da situazioni umane (al di là del fatto che, come scrive sempre Rauch, “i meccanismi, la capacità, la comunicabilità e la plasticità dell’intelligenza dei cetacei non possono che esserci, a dir poco, familiari”), è il loro svolgimento a svilupparsi secondo categorie non umane. In tal modo Branco è davvero l’esplorazione di un altro piano della realtà, la scoperta di percorsi che sfuggono a uno sguardo solo umano e che, soprattutto, si sottraggono ai consueti luoghi comuni sui delfini, animali che apprezziamo a tal punto – per via del loro “sorriso”, della loro voglia di giocare con noi, delle loro spettacolari acrobazie – da fraintendere quasi del tutto. È la dimostrazione, insomma, che in qualsiasi opera letteraria riuscita sul mondo animale, chi scrive almeno in parte si trasforma, smettendo di essere solo umano e diventando un io ibrido che si affaccia sui bordi di altre forme viventi. Ma non è tutto. Il romanzo di Paull non esclude completamente la presenza degli esseri umani. Al contrario, come risulta evidente man mano che si procede nella lettura, gli uomini sono la grande turbativa che ha sconvolto la vita degli animali del mare. Con i rifiuti di plastica uccidono e inquinano. Con le insensate cacce – non si dimentichi che i Tursiopi sono i delfini dei parchi di divertimento – uccidono e distruggono ecosistemi. Senza entrare in dettagli che potrebbero infastidire chi vorrà leggere il romanzo, si può quindi dire che i veri antagonisti degli animali del mare sono i Sapiens, le cui sagome si profilano minacciose sulla superficie delle acque. Ea lo capisce quando, finalmente pacificata con se stessa, torna a vivere col suo popolo e osserva sbigottita la sua patria. Paull ne interpreta il pensiero con queste parole: “I Longi, tuttavia, faticavano a spiegare quello che era successo. Le loro acque di casa non esistevano più, i diavoli stavano distruggendo l’oceano, e le loro urla sterminavano interi branchi di balene pilota, di megattere, di delfini. Reti mortali si estendevano là dove una volta c’era il mare aperto, i fondali erano dilaniati da enormi spaccature. La morte era ovunque, i popoli fuggivano, l’oceano era o pieno di profughi o spaventosamente vuoto”.