Le streghe esistono, eccome!

27 Maggio 2024

Qual è il tema di Le streghe non esistono, romanzo autobiografico di Luca Scarlini (edito da Bompiani)? A prima vista, il contrasto tra padre e figlio, divisi da un’insanabile frattura. Leggendolo, si scopre che c’è molto altro. Ad opporsi sono due idee della vita, che nell’Italia di quel periodo – siamo alla metà degli anni Settanta – entrano in fatale rotta di collisione. Sono gli anni in cui divorzio e aborto aprono prospettive diverse per le donne, spezzando l’uniformità maschilista. Le conquiste civili sono però una delle facce di qualcosa di più ampio: in sintesi, potremmo definirlo il riemergere dell’ancestrale universo matriarcale. Quanto accade, insomma, non è solo un segno del “progresso storico”, ma siamo a tu per tu con un movimento pendolare. Partendo dal suo vissuto, Scarlini dà voce a un formicolio di vita sotterraneo, che periodicamente affiora servendosi di figure che se ne fanno portatrici: lo rende evidente il continuo richiamo a Pinocchio, l’archetipo con cui il romanzo condivide geografie e prospettive (appaiandosi, in tale direzione, al manganelliano Pinocchio: un libro parallelo). 

I fatti narrati occupano sei mesi della vita di Luca, a cavallo tra i nove e i dieci anni. A raccontarli è lo stesso Luca, con un atteggiamento che, soprattutto nella prima parte del testo, è contrassegnato da ironia e sarcasmo, spesso esercitati su se stesso. Luca sa di essere il “problema” del padre. Da lui non ha mai avuto affetto. La loro relazione si basa sugli “sganassoni”, in cui incorre con ritmica regolarità alla minima infrazione. Del resto, questa è la legge del “politburo” familiare ed è la conseguenza dell’avere un padre che di lavoro fa l’eroe e che durante la guerra è stato partigiano. Ora il Retore (così lo definisce il figlio) è al servizio del partito comunista, per il quale, grazie al suo “talento oratorio”, tiene comizi passionali in paesi e città della Toscana. Guadagna poco, la moglie compie miracoli per far quadrare il bilancio. Ha certezze inossidabili: l’Unione Sovietica è il regno del bene; in chiesa è meglio non mettere piede; il capitalismo ha i giorni contati. Luca lo detesta, come non sopporta tutto quello che con lui ha a che fare, gli incontri alla Casa del Popolo, il Festival de L’Unità, le scelte musicali. La sua grande paura è quella di assomigliargli, anche perché i caratteri hanno punti di contatto: entrambi sono sarcastici, polemici ed abituati a star sempre sulla difensiva. Forse in futuro Luca potrebbe anche diventare “grosso, manesco e roboante” come lui. Per il padre invece il figlio è un imbelle, una femminuccia da educare con rudezza. Vale per lui quanto scrive Manganelli per Geppetto: “Il seviziatore è essere elaboratamente civile, ha nobili scopi e una vocazione moralmente impeccabile”. Di sicuro il Retore non ha capito niente del figlio e nulla immagina delle sue paure insondabili. Luca ogni sera si addormenta con la convinzione di non svegliarsi il mattino dopo. Il sonno è tormentato da “una sequenza di lamette d’agonia”, che prendono forme animali: Marisa, la civetta; una lepre pazza e inafferrabile che parla in rima baciata; un gufo reale, che diventa la sua guida. Sono le tracce aurorali di quanto sta per accadergli? Sono figure psicopompe che lo dovranno scortare oltre la “linea d’ombra”? Luca non lo sa. Né riesce a capire il senso di tutto quello che gli capita. È certo che gli esclusivi momenti di sollievo sono quelli in cui il Retore non c’è. Le giornate cambiano fisionomia, l’aria si fa più leggera. La madre prende il controllo della casa, tutto si trasforma. Arrivano le sue “policrome amiche femministe” insieme alla Contessina Mizzi e a Gibì, le signore in drag, per seguire la lezione di uncinetto. Lì Luca s’inoltra in una dimensione parallela, dove tutto è possibile, senza né barriere né ordini da eseguire. Il confronto è indubbiamente istruttivo: Luca intuisce che nel mondo è in corso la grande lotta tra il regno dei maschi, “basato sull’urlo” ed esteso “tra le Case del Popolo e i lavori in casa per rimettere a posto le biciclette” e quello delle femmine che, con maggior sobrietà, dirigono la famiglia e sono dotate “di poteri speciali”. 

A Luca piace provocare il padre. Da quando ha otto anni reagisce agli schiaffi. Ama l’inglese che il Retore considera la lingua del potere americano. Apprezza i film Disney, il cui autore è catalogato dal padre come “una spia della CIA e un fascista”.  Va volentieri alle lezioni di buona creanza dalla signora Edit, nobildonna ungherese fuggita dalla sua patria dopo l’arrivo dei sovietici a Budapest. Furtivamente, assiste alla messa. Molte convinzioni del Retore gli sembrano ingiustificate, come quella di costringere la famiglia a continui traslochi perché il concetto di casa stabile è tipicamente borghese. Rispetto a queste coordinate, Luca, come Pinocchio, è l’estraneo. Tra sé e il mondo che il Retore gli vorrebbe far abitare c’è un abisso. Ma inizialmente si tratta di un’opposizione senza direzione, un rispondere colpo a colpo, un gioco d’intralcio, minacciato da timori e quesiti senza risposta. Poi avviene il passaggio. Durante la visita a una tomba etrusca, mentre i genitori sono al ristorante della Casa del popolo, Luca sta male. Sente che “qualcosa di grande sta per accadere”. Cade a terra, avvolto dalle spire di un serpente di sangue, non riesce a gridare. Muore e rinasce. Si sveglia ridotto a una silhouette ancora una volta simile, per sua ammissione, a quella di Pinocchio. Ha le mani fissate a terra da lunghi chiodi di rame da cui non esce sangue, mentre attorno a sé avverte un “profumo di dolcezza estrema” e un suono di flauto stridulo ed insopportabile gli provoca dolori lancinanti. Scende una scala a chiocciola trasparente. Dopo aver superato un adulto che compie sacrifici, si vede come un enorme pterodattilo che divora ignari Cromagnon. Finalmente, giunto nella sala degli specchi, scorge una creatura imponente che è alternatamente uomo e donna. Luca lo chiama Voltumna, la divinità femminile etrusca. Si tratta però del dio del cambiamento, che lo attende da sempre per porre fine alle sue ansie. 

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Quando il giorno dopo si risveglia, Luca è all’ospedale dei bambini di Firenze. La sua malattia ha una diagnosi, “linfoblastomi in eccesso”. Per curarsi deve andare in una clinica in Svizzera, a Ginevra, dove rimane tre mesi e mezzo. La clinica è però anche altro, un territorio femminile dominato dalla “crudelissima” Irina, una bambina bulgara di dieci anni, che in un anno e mezzo di ospedale è diventata una parca, e dall’infermiera greca Zoe, che dispone di mirabili poteri. A Ginevra, Luca guarisce e si trasforma, abbandonando il suo precedente involucro. Da cicciottello diventa “passabilmente pallido e scheletrico”, “con due occhiaie viola micidiali”. Il cortisone spesso gli provoca allucinazioni: vede una mula d’oro che gli parla in etrusco; poi gli appare “una bella dama dai capelli rosso fuoco” che gli dà preziose istruzioni: non deve essere impaziente; a differenza di quanto lui ha sempre pensato, la morte non è facile: le creature devono affrontare mille prove prima di arrivarci. E il loro senso sarà sempre “sfuggente e incomprensibile”. Le stesse istruzioni gli vengono ripetute da Zoe: Tu vuoi sempre vedere cosa c’è nel regno della morte, ma ci vuoi andare legato a un elastico. Più vivrai e più l’elastico si brucerà, ma non morirai qui, e non per questo. Le signore lo dicono”. Quando parte, Irina lo saluta con un “incantesimo di itinerario” e gli dà “un amuleto contro il malocchio”.

La metamorfosi è avvenuta, anche se il Retore non se ne accorge. Luca è diventato più “mordace” – gli risponde colpo su colpo – ed è “più lunatico”. I sogni continuano. Ricompaiono il gufo, la signora del gioco e Zoe, che, scorrendo i grani del suo komboloi, recita una preghiera per lui. Luca capisce che in quelle parole è la chiave. Di cosa? Non lo sa. Arriva l’estate. Luca si divide tra esteriori atti di presenza e sotterranee e ancora sfocate prospettive di palingenesi. Così, mentre insieme al coetaneo Alvaro raccoglie materiali sui partigiani sovietici che hanno fatto la resistenza in Toscana, si scopre accomunato all’amico nell’occulto e impossibile disegno di morte dei rispettivi retori. Nella settimana di mare in cui la famiglia del Retore è ospitata da un ricco amico del padre a Castiglioncello, alle umilianti mansioni da “paggio” alle quali è sottoposto “dall’autorità sovietica”, Luca oppone “personalissimi riti di devozione”. Beve da una conchiglia la purificatrice acqua marina, mentre pronuncia “a vanvera terrifiche frasi imparate da Irina”; oppure, complice il disprezzo del Retore per il genere considerato “borghese e decadente”, si inoltra nei territori dell’horror guardando sgomento Profondo rosso. In quei giorni, un duro confronto col Retore lo illumina: Luca prende coscienza che il padre non lo ha mai voluto. Dal quel rifiuto originario hanno avuto origine tutte le sue malattie. In prospettiva, si tratta di un’acquisizione necessaria: come in ogni iniziazione, lì avviene la definitiva separazione dal Retore. Ora il figlio è pronto per l’ultimo atto: lo scenario è l’assolata e polverosa campagna senese, dove Luca trascorre il mese di agosto insieme alla nonna. Questa nonna non è una donna comune. Anche se “depurati nel bagno razionalizzante del pensiero comunista”, compie riti celtici. È forse un’altra sacerdotessa di quel mondo che Luca vede attorno a sé? Il nervosismo del Retore nell’avvicinarsi alla sua abitazione sembrerebbe una conferma. Anche lui, con qualche piega della sua ottusa personalità, avverte che lì c’è una linea di rottura, una porta sull’altrove. Da cui però si sente escluso. Il Retore rifiuta i racconti dei contadini. Non capisce il dialetto senese, quell’idioma “parco e sacrale” che invece Luca comprende. Luca invece, già prima di arrivare, è stato avvertito: in macchina, un “picchio psicopompo” gli ha annunciato che quella sarà “l’estate delle rivelazioni”, in cui giungerà finalmente “al regno delle madri”. Nel sonno, quella notte stessa, vede comparire una pinocchiesca “capretta azzurra” che cerca di metterlo sulla giusta strada: la madre, dice, non è quella vera, ma “la madre di sapienza che si trova nella natura”. E, a validare l’affermazione, la capretta appare incisa sulla superficie lunare. Quando, svegliatosi, Luca la vede, sviene. La mattina seguente inizia a cercare il misterioso regno. Sa che solo gli animali possono aiutarlo, per cui cerca indizi tra le galline che “possono conservare un segreto”, ipotizza anche che i serpenti abbiano nelle loro spire la saggezza. Non si è sbagliato, del resto Luca ha cominciato ad orientarsi in quella dimensione. Nel paese però c’è qualcuno che gli può essere d’aiuto, una donna alta un metro e quaranta, “dal volto orribile, deforme, come un quadro cubista in acido”, che, per il gusto di andare controcorrente, si fa chiamare Graziosa. Amando i contrasti violenti, veste il corpo “da iguana delle Galapagos” con abiti stilosi, calza scarpe con “tacchi provocatori” e “porta il belletto marcato alle labbra e alle guance”. Quando arriva al mercato del paese con i prodotti della sua fattoria, circondata da quattro meravigliose ragazze sfingee, “tutte pronte a ubbidire ai minimi voleri della signora”, i paesani fanno gli scongiuri. Graziosa è una strega. La prova è il matrimonio con cui nel 1944 si era legata ad un bellissimo ufficiale americano, che, morendo poco dopo, le aveva lasciato in eredità la Diana, la fattoria modello. 

Luca è attratto da quella donna incongrua, ma ne ha anche paura. Lei, in effetti, lo sta aspettando e sembra informata di ogni suo segreto. Quando il bambino finalmente le parla, Graziosa lo invita alla fattoria. La nonna, a dimostrazione della sua appartenenza al mondo invisibile, lo accompagna nelle quattro volte in cui a Luca si aprono le porte della Diana, il regno della Luna, il luogo del femminile. Lì scopre perché Graziosa ha bisogno di lui. Come Pinocchio appeso alla Quercia Grande, Luca è morto ed è ritornato. Senza consapevolezza, appartiene ad un altro mondo: grazie a lui è possibile fare cose che altrimenti sarebbero impossibili. Graziosa, a sua volta, gli insegna qualcosa, ma Luca per il momento non lo può capire. Forse lo capirà più avanti, o forse non lo capirà mai. In compenso però avrà accesso “a una sapienza che è negata ai maschi”. Ma non dovrà farsi assillare dalla ricerca del senso, che la stessa Graziosa ammette di non avere mai trovato. Con lui ci sarà sempre qualcuno che lo aiuterà: la madre – anche lei dunque sa tutto – o una delle ragazze della Diana che verranno da lui in sogno. Ovunque troverà indizi, come il responso della Sibilla Libica nel duomo di Siena, ricevuto dopo aver recitato l’invocazione ad Ermete Trismegisto, secondo le indicazioni ricevute da Graziosa. Quanto è certo è che lui avrà “un vantaggio non piccolo rispetto agli altri maschi”, la certezza che quello che ha non gli basta, che gli manca una parte di se stesso, che cercherà sempre.  

Dopo simili incontri, non è facile lasciare la “rarefatta dimensione del femminile” e passare “per direttissima all’impero machista” del Festival nazionale de L’Unità, alle Cascine. Ma proprio qui, nel luogo del materialismo programmatico, avviene il miracolo. A Luca appare Tempesta, la “potentissima e splendente strega africana” dominatrice degli elementi. Anche se per tutti gli altri è Miriam Makeba, la celeberrima cantante, Luca sa invece chi ha di fronte. Il giorno dopo, accompagnandola in visita agli Uffizi, davanti allo “sguardo severo degli angeli fiamminghi” del Trittico Portinari, Luca da qualche parte approda. Nel momento in cui non può fare a meno di rivelarle un suo pensiero, ovvero che “noi abbiamo bisogno del mostro come lui ha bisogno di noi”, lei gli sorride. Allora il figlio capisce che “senza magia non si può vivere, e che questa è la ragione della (sua) continua sciarra con il Retore che ha come suo credo di riportare tutto nei limiti stretti del verosimile. La lezione di Graziosa, signora del gioco, è insomma che senza accettare i propri limiti, le proprie paure, non si può immaginare la felicità”.

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