Essere un vero cane
Billy il Cane non è un cane buono. Non è raro che morda chi gli si avvicina e senza guinzaglio può creare problemi. Ha avuto un’infanzia difficile, certamente, ma c’è qualcosa di più ancestrale che lo guida: Billy non si è mai slegato dalla sua ferinità. Vive con gli umani, ha imparato a conoscerli bene, ma di loro è compagno e non accondiscendente e sottomesso servitore. Conosce le vie per farsi apprezzare, che però non rientrano nei suoi orizzonti. Preferisce essere se stesso, abbandonarsi “alla carne infinita e dolce” delle femmine, fuggire libero per i sentieri di montagna, scontrarsi con i maschi in cui si imbatte. L’antico patto con la nostra specie ai suoi occhi ha confini laschi, da rinegoziare continuamente. Del resto, non ha paura di rimanere solo. Né ignora di avere un carattere incline alla rabbia, capace di trasformarlo – lui “cane futurista”, piccolo di corpo ed insignificante nell’aspetto – in un insidioso erede del lupo. In qualche modo, avverte di non essere quello che gli uomini si aspettano da un cane. Non senza conseguenze però: è talvolta attraversato da una “complicata nostalgia” per la bontà: la desidera, ma è consapevole di non essere in grado di “accedervi con semplicità”.
La sua natura ancipite – metà cane civilizzato, metà bestia primordiale – si disvela definitivamente nell’imminenza della morte. Sentendola arrivare, come ci racconta Alberto Rollo in Billy il Cane (edito da Ponte alle Grazie), il protagonista mette in atto, contemporaneamente, strategie che hanno radici nelle sue due facce: avvicinandosi a un essere umano, compie una scelta; recuperando la sua dimensione selvatica, sente il desiderio di morire in solitudine, cercando di proteggere “la vergogna dello strappo”. Così sono proprio le ore del suo progressivo “cedere alla terra, alle radici, agli insetti” nella quiete di una invisibile tana sulle Alpi Apuane, ore della sua irreparabile “diserzione” dalla vita con gli umani, l’occasione (il kairos) per comprendere la natura di un rapporto tra esseri viventi di specie diversa, o meglio, per riconoscere i confini di una relazione.
Al centro del libro però non c’è quello che appare a prima vista, ovvero “soltanto” l’intreccio tra le memorie umane e canine ricostruite in parallelo attraverso i due punti di vista, quanto piuttosto una riflessione sulla possibilità (o l’impossibilità) di capirsi. Il suo nucleo fondativo è la parola. A suggerirlo è anche il richiamo al racconto di Kafka, “Indagini di un cane”, il cui protagonista è un cane anomalo, che si fa domande, che non sa tacere. Detto altrimenti: per avvicinarsi al cane, Rollo si interroga sui modi in cui cerchiamo di farlo. C’è la quotidianità con i suoi sentimenti e le sue emozioni, d’accordo. Ma c’è poi la lingua con cui la interpretiamo ed è a questo livello che emergono le difficoltà, perché ogni ricostruzione è inevitabilmente antropocentrica. Nel romanzo c’è una complicazione in più. Rollo infatti suppone che il carattere del suo cane sia stato plasmato dalla lingua umana, che è scesa su di lui “come una pioggia che cade dal cielo”. Billy è sempre stato un appassionato della parola, d’altra parte è stato il cane di uno scrittore e tra le sue prime imprese si ricorda un morso al volume della Tempesta. Ma il momento in cui la parola diventa centrale è quello che Billy sta percorrendo. L’ avvicinarsi della fine richiede qualcosa in più, perché la memoria, “che è storia, è selvaggia, è femmina”, gli arriva impetuosa “come un vento largo”. Per darle voce ricorre a tutte le potenzialità e sfumature di quella lingua che ha appreso con piacere nel corso della vita.
Lingua di cui ha seguito le tracce, senza fatica; lingua che ora ammette di possedere con “una certa proprietà”; lingua che gli umani pensano, però, che lui non comprenda (“Dicevano: ’Gli manca la parola’. Roba che ammoscia, immaginazione molle.”), mentre in realtà sono gli umani che non hanno gli strumenti per raccontarlo. Lui invece è in grado di farlo con loro, di dire ciò che gli umani sono, servendosi delle sue parole “orizzontali” che “cercano spazio come parassiti, oppure si posano come farfalle”. Nella sua ispida autonomia, Billy è diventato lui stesso uno scrittore e sa che la sua narrazione “un giorno, chissà come, arriverà agli uomini” e sarà “ascoltata negli angoli segreti della casa di città dove (ha) abitato”. E Billy ce la racconta la sua storia, certamente. Però quanto gli sta a cuore è dire al mondo che quelle parole che gli affiorano nella mente, quelle “parolone, parole perfette” potrebbero trarci in inganno, perché potrebbero spingerci a pensare a “un’impossibile fratellanza di specie”. Uomini e cani sono destinati a non comprendersi veramente? Billy sembra pensarlo: “C’è da fidarsi degli umani che scrivono di animali?”, si chiede. “Ce n’è che fanno rivoltare le budella”. Quanto ci suggerisce Billy attraverso allusioni o dichiarazioni esplicite, è che i cani diventano altro da quello che sono quando gli uomini ne parlano o ne scrivono.
Diventano i figli, eternamente congelati in condizione di minorità. Diventano i pet, docili, detersi, immuni dagli istinti, balocchi e status symbol da coccolare e da proteggere. Ma diventano anche i protagonisti di libri tutti uguali, intrisi di sdolcinatezza e di facile commozione. Billy invece è un rivoluzionario. Vuole far capire che i cani possono essere anche altro, che ciascuno di loro ha la sua personalità. Che ci possono essere cani che non vogliono fare i cani. E che se stanno insieme agli uomini alcuni lo fanno affiancandosi a loro, non sottomettendosi. La sua vita ne è la prova. Billy è un duro che si “è preso le misure da solo”, non per nulla la sua andatura assomiglia al passo da cowboy di John Wayne. La sua categoria è quella dei cani di Jack London, da Buck di Il richiamo della foresta – più volte esplicitamente richiamato da Rollo – al tremendo (ma straordinario, letterariamente parlando) Bâtard dell’omonimo racconto.
“Cucciolo bastardo strappato a una cucciolata bastarda”, prima di essere accolto dalla famiglia dell’autore, Billy ha vissuto difficili inizi, dapprima convivendo con la “ragazza dai capelli rossi e dagli occhi semichiusi” in una comunità di tossicodipendenti, poi con il fratello di lei e la sua famiglia, legato con “una catena da cesso” al calorifero, senza mai poter uscire di casa, sistematicamente bastonato. Forse è allora – in quell’epoca in cui non ha ancora ricevuto un nome – che ha fatto “riserva dei morsi futuri, quelli destinati a chi mai si fosse azzardato a provare compassione”. Però Billy ha fortuna, viene adottato, ha finalmente una casa, anche se al primo incontro il suo “tutore” lo trova “troppo piccolo, troppo magro, troppo brutto”. Ma Billy si deve far accettare e per qualche tempo si cala nella parte del “cane che ogni famiglia umana sogna: adorante, obbediente”. Si tratta però di una soluzione interlocutoria, in attesa di capire “con che carattere poggiare le zampe sulla terra”.
Non gli serve troppo tempo per definirsi e scoprirsi diverso da molti suoi compagni di specie. Eccone i motivi: non gli piace giocare (la convinzione che tutti i cani giochino è un’altra delle tante “fesserie” che si dicono su di loro); non ama essere accarezzato; non è capace di fare feste; né può assicurare la sua assoluta lealtà, perché lui sa che i cani sono spaventati dall’idea di tradire, ma sono anche continuamente tentati di farlo; nemmeno riesce a dire di no al suo innato ruolo di maschio alfa: gli altri maschi, di qualunque taglia siano, diventano obiettivi da attaccare furiosamente; le femmine, invece, sono tutte prede sessuali, invariabilmente destinate a cedergli; con sincerità, ammette anche di non aver “mai avuto simpatia per il mondo animale”; in particolare, però, adora fuggire, nascondersi, perdersi nelle “latebre”, siano pure quelle offerte dal letto di casa. Degli uomini non tollera l’idea del possesso. Billy non si sente di proprietà della famiglia di umani con cui vive, che definisce tutori e non padroni. L’insofferenza verso i luoghi comuni, l’impossibilità di rinunciare a se stesso però non lo isolano. Anzi, è proprio questo profilo che nulla concede alla sdolcinatezza e all’ipocrisia, e che, con ironico paradosso, fa di Billy un cane cinico, a permettergli di allacciare relazioni profonde con gli esseri umani. Impara ad ascoltarli, ad accettarne alcune abitudini, a condividerne gli spazi. Soprattutto impara a decifrarne le differenti personalità. Sente di assomigliare al tutore, con cui scambia lunghi sguardi: Billy cerca in lui una strada, lui cerca di capire cosa si muova nei recessi di Billy.
Ha capito che da lui può ricevere momentanee fasi di libertà, lontano dal guinzaglio. Ne apprezza le passioni: anche Billy diventa un lettore dei libri che il tutore ha sempre con sé. Non disdegna di girare per mostre e musei standogli tranquillamente in braccio. E poi ama ascoltarlo quando, passeggiando, l’uomo ripete i versi dei grandi poeti. Verso la tutrice, moglie dell’autore, il suo atteggiamento è invece connotato dall’attenzione, ha intuito che lei ne è gratificata. I due si rispettano. Del resto, con tutta evidenza, la donna è il capobranco. E poi, anche con lei c’è un profondo punto di contatto: entrambi rifuggono dalle smancerie. Pensandola, Billy ha la sensazione di camminarle a fianco a passo di marcia, senza orpelli e distrazioni. Nenna, la figlia dei tutori, è “la sorella umana”, l’unica che gli concede di dormire sul letto. Tra loro c’è un altro stile di vicinanza, esito della condivisione di fantasmi comuni, di nodi che si avviluppano nelle zone meno illuminate della coscienza, dei “buchi aperti tanto tempo fa”. Tutti insieme, il cane e i tutori, hanno formato una famiglia. Perché, l’indipendente, solitario, intrattabile Billy, spiega Rollo, “è stato prigioniero con noi del nostro sentimento del mondo”. La sua presenza è paragonata all’acqua assorbita dalla terra e restituita in umidità: “La stramba famiglia” è umida di Billy. Un cane del resto cosa fa? “Compatta. Instilla, chissà come, un fluido che filtra nella semplicità, cosa difficile a farsi, della famiglia”.
In conclusione possiamo affermare che il morente Billy e l’affranto autore siano riusciti a farci percorrere le spire della loro relazione? Siamo in grado di capire Billy? Abbiamo fatto ingresso nell’universo canino? Potrebbe esserci qualche incertezza. Perché, come insinua Billy, se il tutore nel tentativo di tradurre quello che legge in lui, si “antropo-riproduce”, ovvero “banalizza” e “riduce”, dove sta davvero il cane? Come sfuggire all’inesorabile limite che separa le specie e impedisce di entrare fino in fondo nell’Umwelt di un altro animale? Ad indicarci l’unica strada percorribile, forse, è proprio il libro che abbiamo di fronte. La letteratura, quella vera, è il passepartout. È lo stesso Billy ad affermarlo, fornendo al tutore un estremo consiglio: “Che racconti. Questo lo può fare. I più dotati di cervello sanno fare una cosa che sfugge ai patetici: sanno reinventare, forzare la mano”.
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