La iena non è un cane

6 Agosto 2024

Una iena non è un tipo di cane. Guardandola da vicino, sul muso si scoprono lunghi baffi aperti a ventaglio e zampe posteriori curve. I suoi parenti più prossimi sono i gatti, e, ancor più, le manguste. Se sembra superficialmente un cane è per l’abitudine di cacciare sui terreni aperti e per la raffinatezza di olfatto e di udito. Le somiglianze col cane sono quindi l’esito della cosiddetta “evoluzione convergente”, che si verifica quando due specie diverse, sottoposte alle stesse pressioni ambientali, arrivano ad avere morfologie e comportamenti simili.

Le iene in effetti appartengono al sottordine dei feliformi, che si separarono dai caniformi circa cinquanta milioni di anni fa. Netta è la differenza della loro organizzazione sociale da quella dei cani: le iene vivono in clan, spesso in aperto e violento conflitto, che arrivano a comprendere fino a un centinaio di esemplari, dove gli elementi femminili dominano sui maschi immigrati. Se iene e cani, là dove stabiliscono contatti, si rispettano senza amarsi, netta è la distanza che le allontana dalla nostra specie. A separarci è un’ancestrale rivalità, che rimonta a quando homo habilis decise di occupare la stessa nicchia ecologica della iena, nutrendosi del midollo osseo degli ungulati abbattuti dai grandi felini dai denti a sciabola.

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È nata lì una competizione che sappiamo bene come è andata a finire visto che le iene, dopo aver seguito i nostri antenati in Eurasia, sono sopravvissute solo in Africa e la loro popolazione si aggira ora attorno alle quarantamila unità. Inevitabile dunque che ci divida un profondo fossato. Se le iene ci evitano o ci attaccano, noi sapiens facciamo di tutto per tenerle lontane: le abbiamo equiparate a insidiose streghe, le avviciniamo al mondo dei morti per la loro necrofagia, le riteniamo stupide, e rimaniamo sconcertati dalla loro sessualità, poiché le dimensioni dei genitali esterni delle femmine inducono a considerarle come ermafrodite. Del resto la parola “iena” è di per sé una condanna: deriva dal greco “hýaina” dove significa “scrofa”, ad indicare non tanto una vaga sovrapposizione fisiognomica, quanto piuttosto le medesime abitudini poco civili delle due specie. E il termine oggi esprime tutta la riprovazione nei confronti di chi viene marchiato come vile consumatore di carogne (ma lo eravamo anche noi), gelidamente sadico (di cui la celeberrima e inquietante “risata” ne sarebbe lo stigma).

Appare perciò davvero unico quanto accade ad Harar, multietnica città dell’Etiopia, patrimonio dell’umanità dell’UNESCO. Qui infatti le iene si avvicinano agli uomini, prendono da mangiare da loro, girano per i vicoli della città vecchia, entrano nei giardini e nei cortili. Qui e solo qui – già a pochi chilometri di distanza la regola non vale più – le iene convivono con i sapiens senza mai entrare in conflitto, senza attacchi, senza violenza. Marcus Baynes-Rock, antropologo australiano, ha studiato il caso in La vita segreta delle iene, saggio dall’andamento narrativo in cui ha descritto la sua esperienza di diciotto mesi a contatto con le iene maculate, crocuta crocuta (pubblicato negli Stati Uniti nel 2015, ora reso disponibile in italiano da Adelphi con traduzione di Isabella C. Blum e prefazione di Elisabeth Marshall Thomas). E per molti aspetti il libro rappresenta un’ulteriore sorpresa, perché quanto leggiamo è, prima di una ricognizione nell’“Umwelt” della iena, il resoconto di una metamorfosi. L’autore, infatti, studiando le iene sul campo, entrando in familiarità con loro, in particolare con l’esemplare (o la persona, come la definisce) del giovane Willi, si è trasformato, diventando simile a una iena.

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Cosa gli è successo? Come spiega lo stesso Baynes-Rock citando il filosofo Martin Buber, il suo contatto con le iene ha costruito una relazione fondata sul riconoscimento dell’individualità dell’altro. Willi – ma anche la sfrontata Baby, Tukwondilli, il maschio magro con il suo naso caratteristico, la femmina tarchiata Dibbey, l’adolescente e affabile Kamareya – è diventato un soggetto, con un carattere e con atteggiamenti che lo distinguono dagli altri, rendendolo unico. Allo stesso modo l’autore è diventato un soggetto per Willi, che, forzando la sua natura, lo ha avvicinato, gli ha consentito di giocare con lui, di camminare insieme per le strade della città, di frequentarne in coppia la discarica. La relazione – come ogni vera relazione – ha reso necessario l’abbandono delle rispettive “preistorie” e ha determinato un movimento dell’uno verso l’altro, che ha portato Baynes-Rock a comprendere Willi. Difficile dire chi ha iniziato. Ogni vero incontro non può non dipendere da una sovrapposizione di volontà. Si diventa compagni di specie perché entrambi lo si desidera. 

Quando Marcus Baynes Rock ha incontrato Willi, stava frequentando già da mesi “i programmi delle iene” di Harar. Ogni sera andava al sito dove viene distribuito loro il cibo, aspettava sulla collina che giungessero i turisti, attratti dall’esperienza “mistica” del contatto con gli animali selvatici studiata da Paul Shepard, e si recava sul posto quando le iene arrivavano. Era ormai diventato amico di Yusuf, “l’uomo delle iene”, l’elargitore di cibo. Frequentava la sua famiglia. Ma non solo. L’autore aveva cercato di inseguire le iene durante le loro peregrinazioni per le vie e la rete fognaria di Harar, aveva raccolto ovunque informazioni, aveva parlato con chi conosce gli animali e le loro abitudini; aveva imparato a distinguere i due clan di iene che frequentano due diversi siti della città, il clan di Sofi, quello di Yusuf, e il clan Aboker, dove l’offerta di cibo si è trasformata in uno spettacolo a misura degli occidentali. E aveva preso parte alla festa di Ashura, dove il modo in cui le iene mangiano il porridge preparato per loro offre pronostici sull’anno che viene. Ma è il contatto con Willi che gli ha aperto le porte della conoscenza. È passando il tempo con lui che ha compreso chi siano le iene. “Vidi la sua attrazione per i cammelli malati”, scrive, “le opportunità offerte dalla discarica, l’inquietudine generata dalle voci umane in cima a un vicolo, e la sensazione di pace e di sicurezza trasmessa dall’area che io chiamavo “sala d’aspetto”.

Imparai a detestare i cani e a trovare sempre più fastidiosi gli esseri umani. Mi sentivo al sicuro nell'oscurità dei black-out di corrente, e vulnerabile alla luce del giorno. Quando me ne stavo sulla collina, sdraiato in mezzo alle iene del clan Sofi, avvertivo un profondo senso di appartenenza”. Il corpo assume un ruolo centrale: “Quando si tratta di confrontarsi con l’altro come portatore di significato … occorre spingersi oltre il linguaggio astratto”. È questa la parte che le iene sanno interpretare meglio degli umani: Baynes-Rock lo aveva già capito attraverso il contatto con l’adolescente Kamareya. Grazie a lui aveva compreso che la comunicazione elementare, fatta di brevi ringhi e di simulazioni di affondi, con cui la iena manifesta all’autore la sua volontà, è in realtà una forma di comunicazione semplificata. Le iene, tra loro, possiedono un ventaglio di segnali molto più variegato. È soltanto rivolgendosi agli uomini che devono rimanere alla superficie. Si tratta della dimostrazione che lo strumento che ci distingue dalle altre specie, il linguaggio, la nostra protesi cognitiva più raffinata, talvolta può essere più un limite che altro. Ma torniamo alla relazione con Willi. La sua ricchezza ha due corollari. Il primo è relativo ai costi per entrambi i soggetti in gioco. Se per Baynes-Rock consistono in un certo disorientamento al momento di rifare ingresso nel mondo umano, per Willi assumono il profilo di un vero e proprio rischio.

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Una iena che non prova la “paura adattativa” nei confronti “di una grande scimmia glabra che se ne va in giro su due zampe” mette a repentaglio la sua incolumità. Il secondo corollario ha implicazioni concettuali più profonde e va ad interrogarsi sui modi in cui ci rapportiamo agli altri viventi. Nel momento in cui l’approccio con l’animale – qualunque esso sia – avviene stando dentro al suo mondo e non osservandolo con l’occhio distante e apparentemente neutrale del “professionista” (di cui Baynes-Rock ci descrive le strategie asettiche nella parte dedicata alla visita alla riserva del Maasai Mara in Kenia) cosa succede? Nonostante la crescita dell’incertezza – in una relazione “nessuno ne ha veramente il controllo. Vi sono asimmetrie nella conoscenza, disparità nella consapevolezza e, cosa altrettanto importante, bisogni diversi” – quanto affiora è la personalità dell’animale, il rispetto per la sua individualità. Ma c’è dell’altro. L’approccio diretto manda in frantumi le certezze e rende evidente agli occhi dell’autore che “la iena descritta dalle scienze biologiche, con le sue motivazioni comportamentali, è una costruzione”, sorretta nella sua perentorietà dal “rigore accademico” e dal linguaggio tecnico. Una costruzione in tale direzione equiparabile a quella elaborata dagli abitanti di Harar, convinti che quando la iena posa il naso a terra fuori da una casa e ulula stia trasmettendo un messaggio ai suoi abitanti o stia “risucchiando dal terreno uno spirito invisibile”, lo jinn della religione musulmana; o che quando una iena ti cammina davanti ti stia scortando; o che, quando vomita, “le schegge di materiale duro all’interno di quelle palle viscide di pelo sembrano davvero unghie”; o che esistano uomini che capiscono il linguaggio delle iene e lo tengono segreto; o, ancora, che la pelle della iena renda coraggiosi e che, trovandone una morta, le si debba tagliare il sopracciglio per farne un braccialetto contro il malocchio. Le costruzioni – sostiene Baynes-Rock – hanno lo stesso vizio: entrambe “formulano affermazioni non dimostrate sulla soggettività delle iene”. È a questo livello, però, che la prevalenza della spiegazione fornita dalle “scienze dure”, imponendosi come l’unica corretta e relegando quella locale tra le superstizioni, determina un'ulteriore duplice conseguenza, spesso non notata da chi agisce “da lontano”. Di che si tratta? Da una parte l’adozione di politiche ambientali che trasformano le iene in “risorse naturali che possono essere gestite, trasferite e abbattute”; dall’altra la “sottovalutazione di un sapere”, come quello degli Harari, che invece genera “politiche di rispetto e autentici sforzi di coesistenza”. La prospettiva scientifica, le politiche progressiste di preservazione delle specie a rischio, da questo punto di vista, finiscono con l’imporre una prospettiva occidentale, sono opzioni “colonialiste” che prescindono completamente dal contatto con gli esseri umani che vivono in prossimità di un predatore che può essere spietato. Di ritorno dalla cittadina etiope di Combolcià, dove le iene hanno ripetutamente attaccato gli esseri umani, uccidendo numerosi bambini, Baynes-Rock, il gey-waraba, l’uomo-iena, si chiede che senso abbia imporre il concetto di tutela di specie in via di estinzione a una madre che ha visto la propria figlia divorata da una iena. “Le popolazioni locali pagano con la propria vita, e i benefici tendono a spostarsi da qualche altra parte, comunque lontano”. È quello che David Quammen ha definito il “Dilemma del Topo muschiato”: di solito, come capita ai topi muschiati dell’Iowa settentrionale cacciati dai visoni, “a dover sostenere i costi maggiori per la conservazione nell’ambiente dei predatori di vertice sono i diseredati e gli emarginati”. Quindi la domanda diventa un’altra: “Come possono, questi costi e questi benefici, essere distribuiti in modo più equo fra l’intera popolazione?”. Ma questa domanda è quella a cui si arriva solo stando lì, in mezzo agli uomini e agli altri animali, non abitando nelle infinite distanze, e nell’immaginario, di mondi distanti. 

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TAGGED: etologia