Louise Bourgeois. La distruzione del padre

16 Febbraio 2012

La conversazione che presentiamo tra la scultrice francese Louise Bourgeois e Maria Nadotti, giornalista, traduttrice e saggista, è tratta dal volume Prove d’Ascolto, appena pubblicato da Edizioni dell’asino, in cui sono raccolti quindici dialoghi tra la giornalista italiana e artisti, scrittori, uomini e donne di teatro e cinema, realizzati a New York tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta.
Louise Bourgeois è scomparsa a New York nel 2010, a seguito di un attacco cardiaco.
Un’ampia retrospettiva organizzata dalla Tate Modern di Londra in collaborazione con il Centre Pompidou di Parigi e la fondazione Guggenheim di New York, è stata ospitata nei tre prestigiosi musei tra il 2007 e il 2008.

 

 


 

Louise Bourgeois. La Distruzione del padre.

 

In una bella intervista rilasciata qualche tempo fa a Christiane Meyer-Thoss, Louise Bourgeois, scultrice, nata a Parigi nel 1911, ma residente a New York dal 1938, invitata a rappresentare gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia di quest’anno, ha dichiarato: “La storia della mia carriera è stata questa. Per molti anni, fortunatamente, i miei lavori non si sono venduti né per profitto né per altre ragioni. Io ero molto produttiva, perché nessuno cercava di copiare il mio alfabeto. Ne avevano sentito parlare, perché nel corso degli anni qualche mostra l’avevo fatta, ma non avevo venduto. E in America vendere equivale a avere successo. La mia immagine è rimasta tutta mia e di questo sono molto riconoscente. Ho lavorato in pace per quarant’anni. La produzione del mio lavoro non ha avuto niente a che vedere con la sua vendita. Su di me il mercato continua a non avere alcun effetto, né in positivo né in negativo”.

 

Prolifica, solitaria, controcorrente, in tutti questi anni Bourgeois ha tenacemente fatto della sua ricerca artistica il luogo dichiarato di una lucida autoanalisi. Convinta della necessità di non rimuovere, di non distrarsi da sé e dell’utilità, ancor meglio dell’inevitabilità, di fare i conti con il proprio passato, con i fantasmi dell’infanzia e della vicenda familiare oltre che con le tracce da essi inscritte nel corpo, l’artista ha scelto la scultura come mezzo di anamnesi e insieme di espressione. Indifferente alle mode culturali e alle tendenze artistiche che hanno via via dominato il nostro secolo, eppure di esse assai avvertita, ha perseguito una sua strada che solo verso la fine degli anni settanta ha incrociato il gusto e le nuove direttive del mercato dell’arte. È così che, a settant’anni compiuti e senza mai essersi allontanata da una sua privata e rigorosa linea di ricerca, Louise Bourgeois si è trovata a rappresentare al livello più alto tanto il discorso estetico oggi prevalente quanto i nuovi umori politici e sociali.

 

L’ho incontrata nella sua casa di New York, alle undici di mattina. Accanto a lei Jerry Gorovoy, suo assistente e manager, che si rivelerà via via una sorta di nume tutelare, presenza benigna e rassicurante, ironico e paziente alter ego dell’artista. Capace tanto di districarsi nelle secche di una comunicazione per Louise fastidiosamente solo “verbale,” quanto nelle iniziali diffidenze – e relativi test a cui la sottoscritta è stata doverosamente sottoposta – verso l’ennesima intervista. “Cinque minuti di gloria, solo perché mi hanno invitata alla Biennale di Venezia”, si lamenta Bourgeois, accusando stanchezza e irritazione verso quello che sembra essere un vero assalto dei media. “Mi chiedono tutti le stesse cose e poi a me non piace parlare. Io parlo attraverso il mio lavoro.” E mi gira intorno rifiutando di sedersi e, inizialmente, di parlare con il registratore acceso. Il suo sembra essere un rivisitato e ribaltato scenario da “via/qui” freudiano, istintivo e insieme sapientemente ironico e teatrale.

 

Sfruttando la topografia della sua casa inizia una sorta di azione coreografica piena di entrate e uscite di scena. Per un attimo è in piedi davanti a me, le mani appoggiate al tavolo e lo sguardo diretto e sospettoso di chi si teme in pericolo, e l’istante dopo è sparita. Risucchiata nel labirinto circolare delle stanze, mi parla da lontano e la sua voce fuori campo è quasi impercettibile. È Jerry a richiamarla e a ricordarle che in questo modo le sue parole rischiano di svanire su una cassetta impotente. Ricompare ogni volta portandosi dietro qualcosa, fotografia, disegno, oggetto, da cui fa ripartire il discorso. Dal punto esatto in cui credevo di averla persa.

 

Come si vedrà, l’intervista è dunque a tre voci: Louise, Jerry e chi scrive. Quando necessario si darà conto dei movimenti dell’artista nello spazio-casa, delle pause temporali tra uscite di scena e successivi ritorni, delle immagini che accompagnano le parole quasi a dare loro corpo e a restituire all’artista il suo, sommerso dall’ansia di essere imprigionato (tradito?) nei monchi e sghembi paradossi della disincarnata comunicazione verbale.

 

 

 

MN: Partiamo da oggi, dalla Biennale di Venezia: che opere saranno esposte?

JG: Dodici opere recenti. Tra queste Cells, una serie di sei ambienti-installazione che, come è di tutta la produzione di Louise, parlano di ansia e di panico. Al centro ci sono il corpo della famiglia e il corpo umano, come in Arch of Hysteria (1992/93), dove l’arco isterico viene messo in scena attraverso un’anatomia maschile. A commentare e smentire insieme che oggi il linguaggio dell’isteria riguardi solo le donne.

LB:Alla fine del ventesimo secolo l’isteria non è più una malattia femminile. Al corpo maschile, come vedi, ho tagliato testa e braccia, perché non servivano: per evitare di cadere basta mettersi per terra. L’arco isterico parla tanto di sofferenza quanto di espressione, di malattia ma anche di comunicazione.

 

MN:Christian Leigh ha scritto: “Cells è un lavoro che suggerisce entrate e uscite, porte e finestre, stanze immaginate e evocate da una configurazione di tavole di legno. E sebbene ci siano aperture su tutti i lati non si ha la sensazione di un luogo da cui uscire, per quanto numerose ovviamente siano le vie d’uscita. Ci entriamo e ci restiamo. Almeno per un po’. E l’esperienza fatta rimane con noi a lungo una volta che la sua manifestazione fisica si è conclusa. Non è che ci si senta intrappolati. La nostra cattività all’interno del lavoro è autoinflitta. Entriamo di nostra volontà e la nostra psiche ci chiede di rimanere. Ciò che accade dipende tanto dal pensiero, dalle sensazioni, dalla memoria, quanto dall’esperienza.[…] Cells parla di questioni che in tempi recenti l’arte aveva vietato. L’emozionalità pura degli oggetti di Bourgeois è la materia di cui parlano le scienze umane.[...] In essi il dolore viene concretizzato, prende forma e figura. In altri termini è tutto quello che, secondo le affermazioni correnti, la cultura industriale aveva superato, come se il dolore potesse mai essere superato. Bourgeois rappresenta l’irrappresentabile (esperienza emotiva e esperienza percettiva) nel tentativo di rendere reale il dolore, negato sia apertamente sia implicitamente con tanta forza e così a lungo. [...] Di Cells si fa un’esperienza percettiva piuttosto che intellettuale. Esse convocano una litania di connessioni e di significanti altri. La conoscenza intuitiva regna sovrana.” InCells, come in tutta la produzione di Bourgeois, sono evidenti l’interesse per la psicoanalisi e una conoscenza approfondita del discorso freudiano. Frutto di un’esperienza analitica diretta o di che altro?

JG: No, Louise non è mai stata in analisi. Ha letto e vissuto. L’arte è stata la sua psicoanalisi. Per lei è reale ciò che ci succede. È l’esperienza a cambiarci. Una volta che abbiamo vissuto qualcosa non c’è modo di essere le stesse persone di prima. Quando si parla si può mentire, si può esagerare. Quando si passa attraverso qualcosa e il corpo ne fa fisicamente esperienza non c’è modo di fingere: si è cambiati. Per Louise portare a termine un lavoro significa sentirsi diversa: ha sperimentato qualcosa e ciò fa di lei un’altra persona da quella di prima.

LB: Parlare in termini visuali, questo sì che è molto personale. Non ho paura del personale. Non me ne preoccupo, se non fosse che per me è così doloroso. Perché il verbale è una cosa che non funziona, che non è sufficiente. L’ambiente esterno non è abbastanza. (Rientrando nella stanza, richiamata dalla discussione sull’autosufficienza della parola, Louise si è portata dietro un disegno a inchiostro rosso – in basso a destra un piccolo corpo sferico pieno di minuscole sferette per metà schiacciate e il resto del foglio invaso diagonalmente da aggressive onde/spruzzo –, che mi dirà di avere realizzato quella mattina stessa, aspettandomi). Prendi questo disegno: in esso non c’è nulla di astratto, è leggibilissimo. Questa (riferendosi alla piccola sfera) è una melagrana, assolutamente bella. Se la apri hai la visione del mondo. Dunque questa è una melagrana e questo (riferendosi al resto del disegno) è quello che fanno gli intervistatori. È un incidente essere famosi per cinque minuti giusto prima della Biennale di Venezia. Me ne rendo conto. Ma è così doloroso che mi sento come... (fa un verso simile a un ruggito, grido da animale ferito, lamento). Sai come si fa con una melagrana? La si torce, la si spreme, perché le si vuole portare via il succo. Questo disegno è un autoritratto, un ritratto di tutta me stessa, bisogna ammetterlo. Realizzarlo mi ha protetta dal caos rappresentato da queste piccole gocce, questo caos totale, preciso. Ecco quello che mi fai: è chiaro come il cristallo che è quello che sta succedendo a me.

 

MN:Louise e Maria ...

LB: Giusto. Proprio così. La melagrana però non è vuota. Continua a durare. Non è finita.

 

MN: Ma allo stesso tempo sembra che essere intervistata un po’ ti piaccia...

LB: Non è che mi piaccia. Lo apprezzo, perché dopo mi sento meglio. È un’esperienza molto fruttuosa, ma non se mi spaventa. Ho il sospetto che sia l’effetto che la psicoanalisi verbale ha sulla gente che ama parlare. Io sembro verbale, ma non lo sono.

MN:Sì che lo sei.

LB: Sì, ma c’è qualcos’altro che va più in profondità di questo.

JG: Questa è la chiave per capire perché Louise non sia mai andata in analisi. Per lei la parola non ha rapporto con il corpo. Di fronte a un analista il corpo è assente e la parola non agisce davvero sulla fisicità. Quando sperimenti qualcosa, te la devi vedere con il battito cardiaco, con la traspirazione. Ecco perché Louise non ama dipingere o disegnare. Ha scelto la scultura perché è ancora più collegata al corpo. Per lei le cose bidimensionali non hanno la stessa realtà. Infatti quando disegna ha bisogno di fare centinaia di disegni, perché la ripetizione compensa, almeno parzialmente, questa non presenza del corpo.

LB: Non si tratta solo del mio corpo. In uno dei pezzi che andranno a Venezia c’è ancora di più, c’è un corpo sostitutivo, un corpo-surrogato. È il corpo di Jerry che ha avuto la gentilezza di aiutarmi, di farmi da modello per L’arco isterico. (Louise si interrompe e dice che sarebbe meglio se guardassimo insieme alcuni video, perché vuole sottrarsi all’intervista e perché io capirei meglio). Questo discorso è troppo astratto. Non c’è corpo qui. (A Jerry) Mostrale le cassette. Troverà le risposte che cerca.

JG: No, non ora. Maria ha le sue domande. Le cassette le vedremo alla fine.

 

MN: Oltre alla scultura, alla pittura e al disegno hai fatto anche un paio di performance, Confrontation (New York, 1979) e She Lost It (Philadelphia, 1992), servendoti di attori e attrici, ma non comparendo mai in scena. Come lavori con i corpi altrui?

JG: Be’, certe volte imprigionandoli nella performance.

LB: È per metterli in ridicolo. La scena del crimine. Devi capire la scena del crimine. Da dove nasce la tragedia? Dove si origina il trauma?

JG: Con “scena del crimine” Louise si riferisce al trauma subito durante l’infanzia. Attraverso il suo lavoro ritorna sul “luogo del delitto”.

LB: Tra virgolette, perché io non ho mai fatto male neanche a una mosca. Io non ferisco la gente. Non ho mai ferito una mosca. La mosca è lì e io la guardo da lontano.

 

MN: Ma tu sei stata ferita.

LB: Sì, proprio così. Esatto. Nella “scena del crimine” io sono stata la vittima. Ma con la forza e la forza di volontà sono riuscita a spostarmi dal ruolo passivo a un ruolo attivo e adesso posso fare a Jerry quello che è stato fatto a me.

 

MN: È stato difficile trovare Jerry?

LB: No, no, ma attenzione, Jerry è un santo.

 

MN: In giro non ce ne sono molti...

LB: Ce ne sono pochi, perché per esserlo bisogna avere una grande intelligenza.

 

MN: e sentirsi molto sicuri di sé...

LB: (Louise scoppia a ridere, soddisfatta) Be’, allora forse dovresti intervistare Jerry.

 

MN: Questa storia è assolutamente intrigante.

LB: Guardando la performance di Philadelphia (1992) vedresti che ha resistito, che si è assolutamente rifiutato. Molto, molto buffo. Non è il sublime, è il ridicolo. Il teatro del ridicolo.

 

 

 

MN:Parlami di tuo padre e di tua madre e di te come madre di tre figli.

LB: Io sono un’ottima madre, perché sono una madre che accetta. Non chiedo niente. Fintanto che i miei figli non vanno in guerra, in prigione o in ospedale, fintanto che non finiscono in uno di questi tre posti, io sono soddisfatta. Questo è tutto quello che chiedo. Dai miei figli non esigo e non pretendo nient’altro. Se vuoi puoi parlare con loro.

JG: Louise si è anche occupata di sua madre. Era malata e lei se ne è assunta la responsabilità.

LB: Mia madre aveva un enfisema polmonare. È per questo che la mia famiglia, una famiglia molto borghese e molto europea, andava a passare l’inverno nel sud della Francia. Ricordo che, per darle sollievo, le mettevo delle ventose sul torace. Ero diventata la sua infermiera a tempo pieno e questo è stato molto importante per la mia evoluzione. Anni dopo avrei rifatto quello stesso gesto di applicare le ventose sul corpo di Jerry. Arte-terapia. Arte-medicina. Basta guardare la serie delle sculture realizzate con le ventose (vedi Ventouse, 1990)

 

MN: Louise ha anche insegnato. Il rapporto insegnante-studente può adombrare una funzione materna o parentale?

JG: Louise ha insegnato, ma non a lungo e mai a tempo pieno. Lo ha fatto negli anni settanta, dopo la morte del marito. Ma non le è mai piaciuto: la stancava troppo e inoltre non ha mai creduto che l’arte si possa insegnare. La si può insegnare solo se gli studenti ti amano molto. Ma molti studenti sono ostili.

 

MN: A parlare con artisti e soprattutto artiste più giovani mi è capitato spesso di sentir parlare di Louise come di una madre simbolica, di una figura modello.

JG: La vedono come qualcuno che ha affrontato gli stessi temi e le stesse questioni che loro stanno affrontando oggi. Solo che Louise lo ha fatto, senza cedimenti, per tutta una vita. Credo che la vedano anche come un’artista che ha dimostrato che si può avere successo alle proprie condizioni. Una prova che anche le donne possono farcela. Sia rispetto al mercato che alla risposta dei critici. Non sono state molte le donne che sono riuscite a farcela.

 

MN: Però le ci è voluta una vita.

JG: Sì e inoltre non ha fatto nulla per riuscirci. Non ha neppure provato. La gente trama, manipola, cerca strade di tutti i tipi pur di affermarsi. Louise non ha avuto nessuna strategia. Chiedi come ha fatto a diventare famosa? È semplicemente successo. E la spiegazione sta nella combinazione di una serie di ragioni. Per prima cosa, quando l’astrazione e il formalismo sono arrivati al collasso, l’interesse della gente si è rivolto all’immaginazione, alla sessualità, alla narrativa, al personale, all’autobiografico. Nel mondo dell’arte, agli inizi degli anni settanta, c’è stato un vero e proprio cambio della guardia. Si è trattato di un’inversione di tendenza, di un mutamento di sensibilità. E, quando questo mutamento si è verificato, ecco Louise che per quarant’anni aveva lavorato sulle stesse questioni su cui un mucchio di artisti delle nuove generazioni cominciavano appena a lavorare. La reputazione di Louise non si è costruita attraverso i suoi pari e i suoi coetanei, bensì attraverso gli artisti delle generazioni successive che sono venuti a vedere quello che stava facendo e la hanno assunta come figura di riferimento, come esempio. Ripeto, non è stata la sua generazione a capirla, ma i più giovani, impegnati in una reazione decisa contro il formalismo puro. Non che Louise non fosse interessata alla forma. Il fatto è che, a differenza di tanti tra cui Greenberg, il suo discorso non si è mai limitato a una ricerca sulla forma o sui materiali.

Il femminismo è stato probabilmente uno degli altri elementi che hanno portato alla ribalta il lavoro di Louise.

LB: Le femministe mi hanno presa come modello, come madre. La cosa mi irrita. Non mi interessa fare la madre. Mi irritano davvero. Il punto non è questo. Io sono ancora una ragazzina che cerca di capire se stessa. Non sono una madre. Sono stata una madre reale e mi sono presa cura dei miei figli. Questo per me non è stato un problema.

 

MN: Tre figli maschi. Nessuna figlia.

LB: No, grazie a dio. È già difficile con i ragazzi, ma con una figlia è un’impresa disperata. Perché, vedi, i figli maschi ti amano davvero. Non sono sicura che con le figlie sia la stessa cosa. In ogni modo le ragazze sono più complicate e a me almeno questo problema è stato risparmiato.

 

MN: Cosa provi nei confronti delle donne? Solidarietà, competizione, rabbia, invidia...

LB: È una domanda troppo vaga. Ti rispondo rimandandoti a un mio vecchio lavoro, The Blind Leading the Blind (Il cieco che fa da guida ai ciechi, 1947/49).

 

MN: Parliamo della figura paterna. In molte tue opere ti sei applicata a smontarla, ridicolizzarla, cannibalizzarla. Come a saldare un tuo privato conto con il passato familiare, a vendicare te stessa e forse tua madre. Vedi una vera differenza tra le figure paterne, gli uomini di potere, e la figura del figlio?

LB: Sì, senza dubbio.

 

MN: Ma non credi che, prima o poi, tutti gli uomini diventino “padri”?

LB: No, non tutti gli uomini sono figure di potere.

JG: Credo che tu stia generalizzando. Parlando di figure paterne, Louise si riferisce a uomini che si prendono troppo sul serio, pomposi, pontificanti, tutti interni al loro ruolo e ben attaccati a posizioni di potere, che non si capisce neppure come abbiano raggiunto tanto si pongono al di là delle regole del gioco.

 

MN: Ribaltiamo la questione. In un’opera del 1947/49,The Dagger Child, tu rappresenti un bambino armato, un bambino-minaccia, in procinto di ferire la madre attraverso il suo bisogno. Dunque da una parte uomini potenti e prepotenti e dall’altra bambini ammalati di dipendenza. Non c’è proprio possibilità per le donne di avere a che fare con uomini maturi, che non ricorrano continuamente a giochi di potere o a ricatti? O devono diventare santi?

JG: (Ride) Vuoi dire che le donne non fanno le stesse cose? Anche una figlia può ricattare la madre. Non credo che si tratti di una questione di genere.

LB: L’esplosione di collera, vista dal punto di vista del bambino, ha due protagonisti, il grande e il piccolo. In certi casi, quando si è tra persone ragionevoli, non c’è bisogno di arrivarci. Ma anche la tensione può essere ricattatoria: se non fai quello che voglio, mi uccido; sposto su di te la responsabilità della mia morte. È una cosa difficile da accettare. Una volta che una certa amica ha tentato di fare con me questo giochino – se non mi ami, mi uccido – io le ho risposto: per favore ucciditi, io vado al cinema.

 

MN: Fantastico.

LB: Era abbastanza forte da rifiutare di assumersi la responsabilità. Ma questo vale per uomini e donne e per persone di tutte le età.

 

MN: Ritorniamo dunque al padre e al tuo desiderio di vendicarti mettendolo in ridicolo.

LB: Questo è lo scopo dell’intera faccenda: da vittima passiva a soggetto attivo. L’arte è vendetta. Mi hai fatta soffrire e io adesso faccio soffrire Jerry. Tu l’hai fatto a me e io lo faccio al prossimo.

 

MN: Senti il bisogno di vendicarti anche sulle donne?

LB: Non si tratta di una questione di genere. I giochi di potere non hanno nulla a che fare con il genere a cui si appartiene. Un bambino di tre mesi può rifiutarsi di mangiare, la madre lo forza, lui la respinge, lei insiste. Ti prego, ti prego, ti prego (Louise mima il tutto, piegando la voce a un pigolio piagnucoloso). Ti prego mangia altrimenti morirai. E il bambino pensa: sarei felice di morire, se non altro per liberarmi di te. È un fatto circolare. Il sesso non c’entra. Si tratta di ostilità, di resistenza.

 

MN: Ci sono donne artiste che ami particolarmente?

LB: (Louise esce e rientra con un libro che sfoglia insieme a me. Si tratta di un volume che raccoglie opere di pittrici del seicento e settecento) Se guardi con attenzione queste riproduzioni vedrai che si tratta di opere tecnicamente assai belle. Il tipo che ha curato la selezione amava tutto quello che aveva qualità. Non io. Per me quello che conta è il soggetto. Guarda questo quadro, pura tradizione Chardin, se lo osservi con attenzione scoprirai che anche qui c’è una melagrana. Si tratta in molti casi di nature morte. Un genere, per le donne, tradizionale. Molte non ce l’hanno fatta neppure in questo settore in cui le artiste venivano relegate anche se erano brave quanto o più degli uomini. La natura morta come ghetto, come pittura di secondo piano, dove i padri hanno rinchiuso le donne artiste e dove tuttavia tante di loro hanno dimostrato di essere meravigliosamente dotate, pur accettando un ruolo secondario. Ho deciso di collezionarle, perché mi servano da memento.

 

MN: Conosci Artemisia Gentileschi?

LB: Sì, certo.

 

MN: Be’, lei un ruolo di secondo piano sembra non averlo accettato e i suoi dipinti parlano di una vera e propria furia, di una radicale non accettazione.

LB: Eppure eccola qui. Mi sono molto care tutte queste donne che con il loro lavoro hanno saputo dimostrare di essere grandi artiste. Per quel che riguarda me, ho raggiunto un’età in cui ho imparato a accettare. Oggi quello che mi sta a cuore è trovare una via per esprimermi e per esprimere la mia aggressività e credo di averla trovata. Non combatto più contro nessuno. Combatto dentro di me e con i materiali. Legno tagliato in tutte le direzioni, la resistenza della pietra e del marmo, l’arrendevolezza della cera e delle fusioni.

JG: La materialità e la fisicità del fare sono molto importanti per Louise. Tagliare è aggressivo. Ci sono volte in cui non se la sente di tagliare e altre in cui è nello stato d’animo di mettere insieme e combinare cose. Ogni cosa, nel farsi fisico del lavoro artistico, ha una sua contropartita psicologica. Se Louise è di un certo umore non ce la fa a tagliare il legno, non se la sente, troppo aggressivo, impossibile farlo. Questa è una cosa molto importante da sapere: che posto prende il corpo e come la natura di una scultura dipenda dallo stato mentale di Louise, da come lei si sente.

 

MN: Come hai scoperto le cose che mi stai dicendo?

JG: Le ho osservate e alcune mi sono state confermate. Certe le so, perché è da molto tempo che sono accanto a Louise.

 

MN: Discutete molto?

LB: No, con Jerry è impossibile discutere. Ha sempre l’ultima parola. È per questo che mi piace.

 

MN: È stata molto dolorosa, Louise, la nostra intervista?

LB: No, perché le tue domande erano tutte molto buone e non c’è stata tensione. Adesso Jerry ti mostrerà alcune cassette in modo che tu possa completare le mie risposte.

 

(New York City, marzo 1993)

 

 

In: Maria Nadotti, Prove d’ascolto. Incontri e visioni, Edizioni dell’asino, Roma 2011.

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