Luisa Cortesi

26 Maggio 2011

Qualche anno fa in uno spazio alla periferia di San Paolo del Brasile Luisa Cortesi provava una sua composizione, realizzata insieme al pittore Massimo Barzagli. Il titolo, Fiorile, è la denominazione che nella Rivoluzione Francese indicava un periodo tra la fine di aprile e l’inizio di maggio. La scena, bianca, con fiori sparsi dappertutto e tracce di colore; la musica, unica, ossessiva, reiterata, White Rabbit dei Jefferson Airplane. La canzone parla di Alice e delle sue efficacissime pillole psichedeliche, di una visione della realtà che passa soprattutto attraverso la metamorfosi, il cambiamento radicale. In scena, un’azione puntigliosa, giocata spesso su movimenti minimi, su accenni di identità possibili, su trame subito sfumate. Il corpo, nudo o vestito, mobile o immobile, si incontra con uno spazio su cui vuole imprimere una traccia, una memoria. Tutto il lavoro di questa danzatrice-performer sta appunto nel trasformare la fisicità in bisturi, sempre disponibile a incidere sulla densa indifferenza della sala di rappresentazione. Di-stanze, Regardant, Il braccio nella manica, Brillo, Vivido, sono titoli che giocano in primo luogo con il catalogo del Novecento terminato, a cui sempre torniamo alla ricerca di una necessaria azione di confronto-scontro. I riccioli dei capelli si agitano e il braccio è fermissimo, o viceversa. La famosa espressione dei recensori, che cercano sempre la “presenza scenica”, in primo luogo in questi lavori si determina dal confronto con una riflessione serrata sul performer. Per la precisione quella di Paul Valéry, che in Degas, Danza, Disegno dà alla danzatrice, sempre evocata nelle opere del pittore francese, uno statuto fantasmatico, che mette in discussione in primo luogo ogni frusto concetto di virtuosismo. Occupare lo spazio di rappresentazione resta sempre una scommessa e le rappresentazioni spesso durano il tempo, breve e lunghissimo, in cui l’azione fisica si stempera e si dispone, tra strappi d’improvviso e lentezze geologiche.

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