Domani ad Astino inaugura la mostra a lui dedicata / Mario Giacomelli: verrà la morte e avrà i tuoi occhi
Nel bianco del letto d’ospizio, una donna anziana dorme profondamente. Sogna, forse, con un fazzoletto sulla testa, il paradiso o la prossima vita. Le si vede un occhio solo, il naso degli ultimi respiri, e il labbro di una bocca senza più denti. Dorme tra le pieghe di un’altra dimensione. Il suo sudario è reale e metafisico al contempo. L’immagine è insieme drammatica, densa di tenerezza e magnetica: “Sai perché per me è bella? Tu vedi la vecchia, l'ospizio.
Ma se tu la guardi ancora meglio, non c'è più né vecchia né ospizio, è come un mare bianco, come una barca su un'onda. Ma questo è venuto dopo che ho pianto dentro di me una quantità di volte, di fronte ad altre immagini. Non so se questa è più importante, per me sono tutti attimi, come il respiro, quella prima non è più importante di quella dopo, ce ne sono tanti, finché tutto si blocca e tutto finisce. Quante volte abbiamo respirato questa sera? Nessun respiro era più bello dell'altro e tutti insieme sono la vita” (cit. in: Frank Horvat, Entre Vues, Paris 1990).
Tra il 1955 e il 1957 Mario Giacomelli realizza una serie di scatti intitolata Vita d’ospizio, prima parte di un ciclo ritenuto da lui stesso il lavoro più importante, su cui tornerà più volte nel corso della sua vita (1966-1968 e 1981-1983), quando l’artista fotografa gli anziani ricoverati nella casa di riposo di Senigallia, avendo in testa ossessivamente la celebre poesia Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, di Cesare Pavese.
Da malinconico creativo, in modo monomaniacale, si sofferma continuamente sul pensiero della morte che verrà, sulle sofferenze nell’attesa, sull’inarrestabile scorrere del tempo, in un corpo a corpo esistenziale messo in atto con i piedi per terra: “Quello che mi importa è l'età, il tempo. Tra me e il tempo c'è una discussione sempre aperta, una lotta continua. L'ospizio me ne dà una dimensione più esatta. […] Non ho niente contro i vecchi o contro l'ospizio. Solo contro il tempo, questo presente che non esiste mai; già il momento in cui parliamo è fatto un po’ di prima, un po’ di dopo, di passato e di futuro. Là dentro lo senti ancora di più, come un coltello puntato contro il tuo cuore, ogni cosa ti concerne e ti ferisce. A volte hai il coraggio di fotografare e a volte no” (cit. in: Frank Horvat, Entre Vues, Paris 1990).
I ritratti delle donne anziane incarnano per Giacomelli la sua paura di invecchiare, sono la proiezione immaginativa di un limbo angosciante. L’ospizio è uno spettro che rilascia un odore terribile, quello misto tra urina, feci, sudore, urla di dolore, una puzza di solitudine estrema, di Alzheimer, di piaghe da decubito, che la fotografia non può rendere e trasmettere: “[…] chi guarda quelle immagini non vede niente di quello che ho provato quando ero lì a fotografare. Non c’è il puzzo della morte che senti lì dentro. C’è proprio il sapore della morte, quando entri lì. Quando guardi la fotografia non senti che quel posto è come una sala d’attesa” (Mario Giacomelli. La mia vita intera, a cura di Simona Guerra, Milano 2008, p. 115).
Nelle fotografie mancano le sensazioni provate da chi ha realizzato lo scatto, manca l’atmosfera che ha respirato, i rumori dei lamenti, e Giacomelli se ne rammarica, perché le immagini rendono solo una piccola parte di quello che il fotografo ha percepito nell’ambiente: “[…] è un corridoio lungo, i lamenti di dolore escono da ogni porta, tu li senti quando cammini lungo i corridoi, senti gridare come fosse un mattatoio, anche se nessuno naturalmente gli fa del male.
Ma loro sono così, non si accorgono di quel che fanno. Quella luce tenue che c’è nei corridoi, non forte, fioca, quei lamenti che senti mentre fotografi, quella puzza che entra dal naso, quella luce strana che entra dagli occhi e il rumore che entra nelle orecchie ti fanno sentire ferito… distrutto dall’idea che questo dovrà accadere anche a te, distrutto da questa paura. Nelle foto, tutte queste cose il fotografo non riesce a darle. […] Senti dentro di te qualche cosa che non vorresti mai sentire eppure provi il desiderio di ritornarci, perché? Perché vuoi capire anche questo, capire queste cose che tu non conosci” (op. cit., 2008, pp. 116 e 119).
E una parte del mistero della morte sta proprio in questa sala d’attesa. La grande signora ossuta si aggira nei gerontocomi, si nutre di tutti gli odori emanati dai corpi scheletrici dei ricoverati, delle loro smorfie e dei contorcimenti, osserva la loro decadenza e si annota i pensieri della paura di morire o del desiderio di porre fine all’agonia e all’impotenza. Giacomelli si reca in questi corridoi pervasi dalla penombra, e osserva le persone che si approssimano agli inferi della morte per cercare di capire ciò che non si conosce.
Fotografa gli anziani con luci brucianti, isola le vite ripiegate su loro stesse come in un vuoto che annulla, fulmina la loro estraneità alla vita mostrando l’ultimo barlume di bellezza dei loro corpi e dei loro volti, delle loro rughe profonde, della pelle flaccida. Con rabbia e dolce attenzione, con un sentimento di profonda tenerezza nei loro confronti, Giacomelli coglie il momento di passaggio da una vita a un’altra, affidandosi a una luminosità estrema, alla forza del bianco che evoca una rinascita. Utilizza un lampo intenso, un flash potente, per farsi strada nell’ombra e per accecare la morte. Cerca di aggiungere qualcosa di più immenso, un contrasto luminoso in grado di modificare il reale, penetrando in quella verità terribile che l’artista vorrebbe cambiare attraverso la sua azione.
Si muove dentro le leggi della fatalità, cercando di testimoniare ancora, forse per l’ultima volta, attraverso le inquadrature e i primi piani ossessivi, l’identità di ogni singola persona, la sua quintessenza. Si affida a una entità irradiante, alla mobilità vitalistica, come se ogni scatto avesse la forza di muovere un’azione magica, in grado di trasformare veramente la realtà, se non quella esteriore almeno quella interiore.
In questo modo l’artista cerca di rendere visibile ciò che gli si muove dentro: “Più che quello che avevo davanti agli occhi volevo rendere quello che avevo dentro di me, quello che nasceva dentro man mano che mi ambientavo dentro queste cose, questa paura di invecchiare, non di morire, per esempio, ma anche questo disgusto per il prezzo con cui viene pagata una vita” (cit. in: Arturo Carlo Quintavalle, Mario Giacomelli, Feltrinelli, Milano 1980, p. 85).
In alcuni scatti vi sono irruzioni della vita, aperture alle pulsioni, all’amore, alla dolcezza, al contatto empatico col mondo animale. Un gattino chiaro gioca sulla coperta scura del letto, accanto a un libro, mentre l’anziana signora si guarda nel piccolo specchio; un gatto bianco salta sul pavimento dell’ospizio, quasi nel buio, accanto a una ricoverata vestita in nero, e con gli occhiali da sole; un anziano bacia la sua amata, tenendo in mano sia il suo bastone sia quello di lei:
“Come anche in questa dove si baciano, due amanti, lui le prende le mani, le fa una carezza. Nessun amore può avere più dolcezza che questo vecchio con questa vecchia.
Io faccio queste immagini perché vorrei che gli altri, dal momento in cui le vedono, vivessero diversamente. Che la carezza che questi ancora cercano da vecchi, da giovani l'avessero saputa fare. Quanta gente vive e non sa carezzare? Quante donne muoiono senza aver mai provato l'orgasmo? Quando io mostro questi vecchi, mostro me stesso, le cose che non ho capito, che avrei voluto fare in un'altra maniera, che vorrei ricominciare. Ma l'immagine è solo una minima parte di quello che sento, ed è per questo che se ne fanno tante” (cit. in: Frank Horvat, Entre Vues, Paris 1990).
La mostra Mario Giacomelli. Terre scritte inaugura venerdì 21 aprile, alle ore 18,30. Complesso Monumentale di Astino, Bergamo, dal 21 aprile al 31 luglio 2017 (a cura di Corrado Benigni e Mauro Zanchi, catalogo Silvana Editoriale). Le immagini sono gentilmente concesse dagli Archivi Mario Giacomelli di Senigallia e di Sassoferrato, grazie a Simone Giacomelli, Rita Giacomelli e Katiuscia Biondi Giacomelli.