Martin Creed e il Premio della rapa
Dopo la collettiva Arte Torna Arte, tenutasi nel 2012 alle Gallerie dell’Accademia, il britannico Martin Creed è di nuovo a Firenze, ma in un contesto agli antipodi. Dal confronto con una delle istituzioni culturali per eccellenza, dalla dialettica con i principali simboli del Rinascimento, uno su tutti il David michelangiolesco, l’artista è stato questa volta invitato a esporre in una piattaforma di contemporaneità coordinata da artisti per altri artisti: BASE / Progetti per l’Arte. Nato nel 1968, Martin Creed si presenta come personalità trasversale, interessato alle più eterogenee forme di sperimentazione sia in campo artistico che musicale, anzi a favore dell’interdisciplinarità. Non a caso la poetica sottesa alle proprie opere in campo artistico, caratterizza parimenti i propri album e i propri brani musicali, per la maggior parte registrati con gli Owada, band fondata nel 1994. Emblematico è il single Thinking / Not Thinking, del 2011, che sin dal titolo è manifesto di quel calcato dualismo, ricco di intrinseche suggestioni, che Creed con medesima eloquenza aveva già mostrato in Work 227, The lights going on and off, installazione con cui ha vinto il Turner Prize del 2001. In quest’occasione il semplice gesto di una luce che si accendeva e spegneva a intervalli di cinque secondi, si faceva sineddotica sintesi dell’eterno rifluire degli opposti, gli uni negli altri, del coincidere e del divergere, di presenza e assenza, di realtà e artisticità, nella loro complementarità e contraddizione. Da quest’opera, che ha riscosso tanti favori quante critiche (è stato questo lavoro ad arrecare all’artista l’etichetta di “controverso” e a far ribattezzare il Turner Prize, in chiave polemica, Turnip Prize – ossia come “Premio della rapa” – ), la fortuna dell’artista è andata indiscutibilmente conclamandosi, sino a vederlo protagonista di una serie di rilevanti antologiche, tra cui What’s the point of it?, presso la Hayward Gallery di Londra, nel 2014; e il titolo dell’esposizione è una domanda che di fatto Creed sembra sempre sollevare, senza mai rispondere.
Veduta dell'allestimento della prima sala di BASE / Progetti per l'arte in occasione della mostra dedicata a Martin Creed
L’impossibilità della risposta risiede nella consapevolezza delle diversità d’interpretazione con cui Creed e le sue opere vengono a confrontarsi, di persona in persona, di pubblico in pubblici, di contesto in contesti. In questo senso persuasivi sono i famosi 39 metronomi, ciascuno dei quali sintonizzato su di un diverso tempo da battere, così da ricoprire tutte e 39 le velocità possibili per la particolare tipologia di metronomo adottata. “It’s an attempt to decide without choosing”, ha affermato l’artista, ribadendo quel chiasmo fra polarità opposte eppure interrelate, contemporaneamente alludendo all’irriducibilità di un gesto ad affermazione; una dualità, che ritorna nella propria opera sotto le più diverse declinazioni. Le proprie realizzazioni si strutturano difatti come “segno” elementare, che non aggiunge nulla alla realtà, per cui l'equazione “mondo intero + lavoro” equivale a “mondo intero”; ma allo stesso tempo i propri interventi si caratterizzano come punto di incontro e confronto tra sfera artistica e reale, capace di generare un cambiamento, una rottura, nella dialettica e nell’interazione col contesto. Si pensi a Work 200, Half the Air in a Given Space del 1998, un’installazione costituita da una stanza riempita per metà di palloncini, che allude alla compenetrazione fra luogo dato e spazio riformulato; ma anche a Work n. 850, performance realizzata nel 2008 per la TATE Britain, poi riambientata all’Accademia, in cui l’artista oppone alla staticità iconica delle opere esposte, il dinamismo dei runners, corridori che a ore predeterminate attraversano a grande velocità le sale del museo, generando un concitato sincretismo tra permanenza della Storia e contingenza della performance; sì finalizzato a spiazzare il pubblico, ma anche a introdurlo a nuove possibilità di fruizione. È in tal senso che le opere di Creed si distinguono per essere una sorta di trigger atto all’innesco di rinnovate modalità di rapportarsi all’arte, in cui l’interazione tra lavoro e fruitore è centrale alla formulazione di significato.
Martin Creed, Work No. 1953, Yuri, 2013
Tutte le opere dell’artista sono indicizzate secondo una progressione numerica neutrale, tesa ad eliminare ogni informazione caratterizzante e ad affidarle integralmente all’esercizio ermeneutico di chi guarda. Su tale ottica si fonda anche la mostra a Base: percorso dinamico e spazio di riflessione articolato da otto lavori, nei più differenti materiali, la cui componente intrinseca e condivisa resta l’arte come segno in potenza; non intransitivo, ma aperto. Il contesto espositivo stesso viene materialmente coinvolto, diviene campo d’intervento, attraverso la disposizione delle opere su tutte le pareti della galleria. In particolare i due Wall Paintings, Work No. 920 e Work No. 921, che percorrono i muri più lunghi di Base, sembrano da una parte perimetrarne lo spazio, dall’altra smaterializzarne la fisicità, per compenetrare e ridefinire distinzione e identificazione fra reale e artistico. Ogni opera ha una sua autonomia, ma al contempo vive in dialettica con le altre attraverso il fil rouge del gesto come matrice creativa. La lieve imperfezione di Work No. 920, Wall Painting, pure nella capillare ripetizione del motivo a rombi secondo rigide indicazioni prestabilite, rivela tutta l’organicità di tale realizzazione, da intendersi anzitutto come traccia fisica di un processo. Allo stesso modo in Work No. 1953, Yuri, la pittura, oltre che funzionale a rendere le fisionomie del soggetto ritratto, sembra rivendicare la propria presenza, la propria specificità, attraverso una stesura del colore spontanea, materica e particolarmente ricca, che increspa la superficie, portando ad una distorsione coesa dell’immagine: tanto realistica quanto informe, tanto immersiva quanto implosa.
Martin Creed, Work No. 1638, 2013
Altra opera che Creed ha deciso di ripresentare per la mostra a Base è Work No. 1638, del 2013, una struttura modulare a ziqqurat, costituita da cinque longarine in ferro che si rastremano progressivamente verso l’alto: posta in maniera obliqua all’interno degli spazi espositivi, l’opera, nella sua elementarità e definizione, da una parte si caratterizza come realtà segnica autonoma e autoevidente, dall’altra come elemento di rottura, ma d’interazione, nella linearità del percorso espositivo. La ripetizione dei motivi romboidali del Wall Painting sembrano infine accompagnare chi guarda sino alla parete di fondo della galleria, dove il punto di fuga viene a coincidere con Work No. 672, Friend, un’installazione al neon del 2007, tanto fisica quanto rarefatta, tanto ermetica quanto evasiva, tesa a suscitare significati senza mai affermarli: segno e simbolo di quella che oggi viene identificata come estetica relazionale, il cui substrato generativo, per citare Nicolas Bourriaud, resta l’intersoggettività. La mostra, presso gli spazi della vivida realtà di BASE in San Niccolò a Firenze, sarà visitabile ancora per qualche settimana, oltre la data ufficiale di chiusura.