Sergei Loznitsa è giunto qui / Austerlitz
Non si guardano neppure intorno. Non osservano. Se guardano, guardano lo schermo del loro smartphone, o della macchina fotografica, o dell'ipad. Non guardano, ma scattano foto. Il braccio metallico del “selfie stick” è quasi una protesi. I più arditi filmano tutto con una GoPro. Gironzolano e ascoltano la voce meccanica dell'audioguida, a capo chino. A volte, una guida in carne ed ossa li intrattiene. Sembra di essere tornati ai tempi delle scolaresche: c'è chi ascolta e chi svicola, oppure scherza, tormenta il vicino. Una donna con occhiali da sole dà prova di equilibrio tenendo sulla testa una bottiglia d'acqua.
Siamo a Sachsenhausen, uno tra i più antichi campi di concentramento costruiti in Germania. Ora funge da sito commemorativo, proprio a due passi da Berlino. Costruito nel 1933 su un birrificio presso Oranienburg, modificato nel 1936 e denominato Sachsenhausen, deteneva prigionieri politici accusati o condannati per crimini contro il regime. Nel 1937 molti dei rinchiusi vennero trasferiti nel campo di Buchenwald, appena inaugurato.
Sergei Loznitsa, dopo molti film, tra i quali l'ipnotico The Event – una disamina degli eventi legati al tentato putsch avvenuto in Unione Sovietica nell'agosto del 1991 – giunge qui, in questo sito commemorativo. Pianta la sua macchina da presa e in una trentina di inquadrature osserva i gesti, i comportamenti di comitive o semplici persone che sono giunte qui, per una escursione che potremmo considerare turistico-culturale. Quello che emerge è a volte impietoso. Questo è ciò che capita quando si confonde la dimensione memoriale con quella museale? In ogni caso, esiste un turismo del macabro. Una mostra delle atrocità per turismo fai da te. Ma questa non è EuroDisney, anche se un uomo inquadrato nel film mostra una bellissima t-shirt di Jurassic Park.
Destinazione campi di concentramento? Potete lasciare il vostro giudizio su tripadvisor: un semplice ricordino della gita, uno slideshow con musica in sottofondo.
Loznitsa invece non fa nulla. Si limita a piantare il suo treppiede, prepara l'inquadratura, sceglie una focale lunga e attende che qualcosa si srotoli davanti ai suoi occhi. Sembra di essere tornati ad una dimensione primitiva del cinema. Fatta eccezione per la scelta delle ottiche, diverse inquadrature somigliano a vedute delle origini. La macchina da presa è fissa, mai un movimento. I bordi sono porosi, lo si intuisce già dalla prima inquadratura: le persone entrano ed escono dal campo. La spazio visivo è policentrico, brulicante, abitato da numerosissime persone: tocca a noi decidere cosa seguire con lo sguardo, definire la zona di attenzione. A proposito dei rapporti tra cinema delle origini e cinema scientifico, sembra che Loznitsa si comporti come uno scienziato. Spesso, l'inquadratura somiglia ad un'analisi al microscopio. Al posto delle cellule troviamo qui una massa umana in movimento. Basta saper attendere, osservare: qualcosa si forma, emerge – una specie di reazione. Così, succede che qualcuno si metta in posa sorridente davanti al Crematorio, qualcuno si fa fotografare con le mani posate sul blocco di marmo bianco che serviva da tavolo autoptico; un ragazzo, dopo aver ascoltato il racconto di come su quei pali venissero appesi ai polsi prigionieri e omosessuali, si mette in posa, e click!
Basta attendere. C'è sempre chi sa dare il meglio di sé. Il risultato è certo: Loznitsa non muove un dito. Qualcuno sorride in camera, oppure scatta foto alla troupe. La loro presenza non è camuffata. La macchina sta lì. A volte, è il caso dell'inquadratura in cui un gruppo di persone esce da una costruzione immersa nel buio, qualcuno è colto di sorpresa, guarda e non capisce bene: ma nessuno appare infastidito. In fondo, tra il ragazzo che con il suo smartphone ruota su se stesso per scattare una foto a 360° e la macchina da presa c'è solo uno scarto qualitativo – sembrano pensare.
Certo, rispetto all'approccio primitivo c'è qualcosa in più, qui. Ed è il suono. Suono? Ultrasuoni! Il lavoro del fonico deve essere stato mostruoso. Le onde sonore vengono captate e giungono a noi propagandosi in profondità e lateralmente. La frontalità dell'immagine ci esclude da ciò che stiamo vedendo, ma il suono ci avvolge. Ed è tutto un crepitare di passi, rumori sul selciato, fronde al vento, brusii, risate, click di macchine fotografiche, bip di macchine digitali, suonerie telefoniche con musica classica: il tutto modulato a diversi livelli e toni. Tanto che a volte sembra quasi far capolino un aspetto comico – un'improvvisa lama fredda. Come se Jacques Tati avesse dato qualche consiglio al regista ucraino. In una lunga inquadratura in cui gli avventori attendono di entrare in fila in una struttura penitenziaria, è tutto un cigolar di porte, quasi ritmico. E attorno è tutto un mangiar panini: un ragazzo di colore con cappellino New York Yankees, zaino e ipad riposa seduto. Due ragazzini lanciano sassi verso la troupe – ridendo. Vengono rimbrottati dalla madre. Per un istante ti viene in mente che ottant'anni fa – lì – in fila si entrava per altri motivi.
Cambia l'inquadratura, ma restiamo sempre in pausa pranzo. Un ragazzo mangia un panino, infastidito da una vespa. Tenta di cacciarla gesticolando con la mano. E a me sembra che il film sia tutto lì: è il gesto di filmare e insieme catturare tutto un pullulare di tic e gesti strambi, di gente che cammina, si piega in modo strano per scattare foto, si gratta, si mette in posa, caccia vespe, rischia di cadere pur di scattare foto. Una specie di tourettismo in epoca digitale, se volete.
Finisce che ci spostiamo verso la zona Z, quella del Crematorio e della Camera a gas, e siamo ormai alla fine del film. Notiamo giusto un momento di spaesamento, quando alcune persone filmate in campo medio osservano lo spazio davanti a loro. Una presa di coscienza, ma è solo un attimo. Entriamo con Loznitsa nel sito che doveva accogliere la Camera a gas. È l'unica volta che ci spostiamo all'interno di una costruzione, anche se qui restano solo tracce delle mura e pezzi di ferro. A Sachsenhausen i prigionieri venivano soprattutto fucilati in gruppo o impiccati. Il nome, zona Z, si deve ad un motto di spirito nazista: si entrava nel Campo di concentramento attraverso l'edificio A. La stazione Z era ovviamente l'uscita – per quelli che erano stati eliminati.
C'è lì una struttura infossata nel terreno, una costruzione minacciosa, a cui si accede digradando. Proprio davanti al Crematorio. Struttura concentrazionaria che avrebbe certamente attirato l'attenzione di Jacques Austerlitz, professore di Architettura. Perché è Austerlitz il titolo del film. Un omaggio e un accostamento al magnifico ultimo libro scritto da W. G. Sebald. Perché Sebald? Il film ha una sua forte connotazione visiva: gli spazi vengono filmati con precisione millimetrica (in alcuni casi l'inquadratura sembra composta in modo da rimandare ai “New Topographics” - Lewis Baltz in testa). Ma non credo sia questo il motivo dell'accostamento. Tutto questo girovagare, questo perdersi tra ultrasuoni e stramberie gestuali nasconde qualcosa in più. E la ritrovo proprio in una pagina di Sebald in cui Austerlitz si avvia in direzione di Theresienstadt, alla ricerca dei luoghi di sterminio dove hanno perso la vita i genitori:
«A mio giudizio, disse Austerlitz, noi non comprendiamo le leggi che regolano il ritorno del passato, e tuttavia ho sempre più l'impressione che il tempo non esista affatto, ma esistano solo spazi differenti, incastrati gli uni negli altri, in base a una superiore stereometria, fra i quali i vivi e i morti possono entrare e uscire a seconda della loro disposizione d'animo, e quanto più ci penso, tanto più mi sembra che noi, noi che siamo ancora in vita, assumiamo agli occhi dei morti l'aspetto di esseri irreali e visibili solo in particolari condizioni atmosferiche e di luce.»
(W.G. Sebald, Austelitz, Adelphi, Milano, 2002, p. 1999 – Traduzione di Ada Vigliani)
I turisti di questo film potente, crudele, implacabile sembrano alla fine comici esseri caliginosi, creature limbali catturate in alcune condizioni luminose all'interno di un sito memoriale carico di passato. Spazi ormai vuoti, che ci riguardano. È così che i morti ci vedono?
La folla si allontana dal sito. Esce dal cancello in ferro che porta la scritta Arbeit macht Frei. L'inquadratura è frontale. Simile a quella degli operai che lasciano la fabbrica, filmata dai Lumière. Resta il tempo per un ultimo scatto davanti alla scritta.