L’etica? Sopravvivenza dell’io morto / Derek Parfit. Il genio da noi sconosciuto

14 Gennaio 2017

Se chiedi, per esempio, chi è Hannah Arendt (a mio avviso, donna coraggiosa, eppure non una grande filosofa), a qualche scolarizzato ti sa di norma rispondere, ma, se chiedi al medesimo chi è Derek Parift, immagino sgrani gli occhi, che non sappia né del sul pensiero, né della sua scomparsa e nulla gli/le importi, soprattutto mentre si sta festeggiando il primo dell’anno.

Derek Parfit, un filosofo non da poco, giudicato tra i più influenti e originali nel mondo anglosassone, ci ha lasciati nel corso della notte del primo gennaio. Filosofo eminente, non tanto per i suoi numerosi titoli e insegnamenti (tra l’altro, emeritus fellow allo All Souls College della Oxford University, Global Distinguished Professor of Philosophy alla New York University, chiamato dalla Harvard University e dalla Rutgers University, vincitore del 2014 del Rolf Schock Prize in Philosophy) quanto per la sua gentilezza e generosità nei confronti di colleghi e studenti – qualità rare in un professore italiano. Nonché in virtù del fatto che Parfit affronta tematiche tali da presentare tutte le credenziali per non permanere rinchiuse tra le mura accademiche e interessare ogni persona consapevole della complessità della propria esistenza: chi sono?; cos’è a rendermi me stesso/a? quale è il fattore discriminante tra la mia identità e l’altrui?; in qual modo valutare i miei desideri in caso di contrasto con i desideri di coloro che mi circondano?; quale compito mi è dovuto nei confronti delle generazioni future?; cosa definisce un’azione giusta o errata, e possiamo sapere che è tale? 

 

Non intendo qui negare che Parfit si sia occupato di etica e metaetica, come testimoniano pure due suoi volumi recenti On What Matters del 2011, a cui ne dovrebbe seguire un terzo non ancora pubblicato. Eppure il suo “chiodo fisso” è sempre rimasto quello dell’identità personale, con cui il discorso etico deve intrecciarsi. Non lo hanno compreso in molti, anzi direi in pochi, soprattutto nell’Europa continentale. L’hanno compreso bene oltreoceano: basti menzionare il volume antologico di John Perry, Personal Identity (University of California Press) del lontano 1975, che nella sua quinta parte, dedicata a identità personale e sopravvivenza, include un articolo di Bernard Williams (“The Self and the Future”) e l’articolo di Derek Parfit (“Personal Identity”, uscito nel 1971 su The Philosophical Review), articolo indimenticabile, preludio, in un certo senso, del suo corposo volume del 1984, Reasons and Persons, tradotto in italiano da il Saggiatore, col titolo Ragioni e persone, da tempo non riedito. Del resto qui da noi ormai vanno i volumetti semplici e brevi: eppure la parte, lì contenuta, dedicata all’identità personale meriterebbe di venir estratta e ripubblicata. Un suggerimento per Luca Formenton.

 

 

Reasons and Persons contiene questa perla, ovvero parecchie acute pagine dedicate a chi siamo, all’annoso problema dell’identità personale umana, in cui attraverso tutta una serie di ingegnosi (e, stando ad alcuni, eccellenti) esperimenti mentali, viene man mano demolita ogni teoria sulla nostra identità: a contare è altro. Questa perla è difficile da discutere, e in pochissimi vi hanno provato, meno che mai ora, in questo nostro paese, in cui vige l’intolleranza, in ogni sua forma, per l’eutanasia (termine che in greco antico significa letteralmente buona morte), in nome dell’abusato concetto di “persona”. Per di più, guardiamoci attorno: i volumi sull’identità personale pubblicati in italiano, solo per lo più a stampo storico, o manualetti, ove di solito non si trova il coraggio di affrontare Parfit, e, purtroppo, anche a ciò si deve il fatto Parfit risulti qui da noi ignoto ai più.

 

In Reasons and Persons, nella perla dedicata all'identità personale, si sottolinea che non è quest’ultima a contare davvero, seppure il dire il “io sono io e sono unico” costituisca una sorta di conforto: in altre parole, maggiormente esplicite, il timore della morte non deve, né può venire connesso alle nostre esperienze psichiche e/o fisiche, e via dicendo. Con la mia morte, non risulterò più “individuato” o concretamente “individuabile”, anche se ciò non implicherà affatto che la mia persona svanisca del tutto, sia nella trasmissione del mio pensiero e dei miei valori alle future generazioni (sempre che non sia stato un egoista epistemico), sia pure, per esempio, con un ipotetico trapianto del cervello – per cui mi viene conferita una possibilità biologica e memonica che io sopravviva, nonostante magari una morte “naturale” o una decisione difficile, e pur sempre drammatica, come la scelta personale di porre fine alla mia vita.

 

Riprovo. A spiegarmi meglio, perché Derek Parfit lo merita sul serio, il che non è da tutti i filosofi, né in Italia, e neppure all’estero, come rilevava parecchi anno orsono The New Yorker.

Anche quando si fa seriamente etica o metaetica, il punto da cui alcuni partono – ci hanno ininterrottamente predicato (sempre che intelligenza e cultura dell’insegnante-intellettuale non scarseggino) che cosa ci renda la medesima persona nel corso del tempo, e cosa ci differenzi da qualcun altro/a. E Parfit, con garbo ingegnoso, ci provoca tramite un’ipotesi del seguente tipo: subisco un orribile incidente, da cui il mio cervello risulta dimezzato e trapiantato in due corpi differenti. Trapianto di successo chirurgico, in cui ognuno/a di coloro che ha ricevuto la parte del mio cervello è convinta di essere me stessa. Il punto è: sono morta, oppure sopravvivo in due diverse persone?; chi sono codeste: una o l’altra? Oppure sono io stessa, divisa? Queste poche domande in Reasons and Persons si moltiplicano a non finire, per constatare che, in fondo, “this doesn’t matter”. Ovvero, in tal esperimento mentale, che, ormai può ben trasformarsi in sperimentale, non ha alcuna rilevanza se muoio, poiché è la continuità trasmessa a contare (psico-fisica). 

 

Leggere e comprendere Parfit nutre sempre in troppi il timore, se non il terrore, di una possibile dissoluzione delle proprie credenze (da non confondersi con le conoscenze) su un’identità che troverebbe inevitabilmente termine nella morte biologica e/o nella scelta di essa, nonostante alcuni/e facciano finta di nulla, costruendosi per comodità famiglie di sangue di cui non si prendono cura, mentre altri si attacchino con gli adesivi più potenti e resistenti al proprio culto narcisistico dell’immortalità.

Personalmente e onestamente, confido in Parfit, ovvero che molto della mia persona terminerà con la mia morte, ma che ciò non comporterà la mia fine, fintantoché le mie esperienze e comunicazioni si trasmetteranno attraverso i miei amici cari e nelle mie amiche care, e, spero, oltre. 

Reasons and Persons, nonostante ormai da tempo lo si reputi un capolavoro, non è stato da subito apprezzato neanche all’estero. Dato che non era affatto semplice ammettere la demolizione delle varie teorie sull’identità personale e il canovaccio di codeste con l’etica nonché la meta-etica conseguenti, tra cui quelle della propria identità, rispetto a vita e morte. La mia fortuna? Di averlo incontrato, e di averlo studiato a lungo a King’s London. Molti anni orsono. Peccato che sia dovuta, per tristi vicende personali, tornare a Genova, ove il talento, in parecchi dipartimenti, conta davvero poco, mentre proseguono col vigere regole in cui il “maestro” tratta allievi e allieve come camerieri, quando va bene, e costoro si lasciano trattare come tali, perché così verrà loro concesso un posto. Parfit? Identità personale? Ricadute sul fine morte? Che importa loro?

 

http://www.niclavassallo.net

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