Un libro di James Elkins / Lo strano posto della religione nell’arte contemporanea

14 Marzo 2022

Mi è capitato, alcuni anni fa, di cercare immagini di opere d’arte contemporanea d’ispirazione cristiana, e non mi ci è voluto molto per notare il “fatto strano” di cui parla James Elkins, ovvero «l’assenza pressoché totale, nei libri di storia dell’arte o nei musei, di arte moderna religiosa» (James Elkins, Lo strano posto della religione nell’arte contemporanea, Johan&Levi Editore). O sarebbe più corretto dire arte contemporanea autenticamente religiosa, perché in realtà i riferimenti alla religione ci sono e tutto sommato non sono pochi, ma per lo più hanno l’intento evidente di provocare, scandalizzare o ironizzare. Di sicuro, come dice James Elkins, storico e critico d’arte, docente alla School of the Art Institute di Chicago, nessuna opera genuinamente devota entra nei circuiti del mondo dell’arte contemporanea di qualità, quella di cui si parla e si scrive, che i galleristi si contendono e vendono a prezzi di cui è meglio tacere la sensatezza. Motivo per cui i giovani artisti che aspirano (e chi non lo fa?) al successo e al mercato evitano l’argomento mantenendo in un ambito strettamente privato i loro eventuali interessi religiosi. A conferma che le convinzioni religiose sono oggi coperte dalla discrezione una volta riservata alla sfera sessuale. La domanda dunque è come mai, dopo secoli e secoli di simbiosi durante i quali il cristianesimo è stato la fonte primaria, a lungo esclusiva, d’ispirazione per l’arte occidentale, si è arrivati, a partire dal Modernismo a cavallo tra XIX e XX secolo, a una quasi totale incomunicabilità tra le due sfere, a un’incomunicabilità tale da sfociare in un divorzio senz’appello? 

 

La cosa ha radici lontane, spiega Elkins: «La separazione della religione dall’arte contemporanea non è il frutto di una cospirazione del mondo dell’arte, come qualcuno ha insinuato. Non esiste alcun complotto per tenere la religione lontana dal mondo dell’arte… non c’è alcuna volontà di escludere la religione». Questa esclusione, prosegue, è intrinseca al pensiero modernista e post-modernista che esclude costituzionalmente la sfera religiosa; essa è, pertanto, l’effetto di un’assenza di discorso religioso nella riflessione attorno all’arte da quel momento in poi. Un fenomeno più elusivo dell’applicazione di una teoria; la manifestazione, piuttosto, di un disinteresse generale per il discorso religioso che non riguarda soltanto il mondo dell’arte. D’altra parte l’arte contemporanea non ha trovato, ancora oggi, un linguaggio in grado di veicolare un discorso religioso capace di suscitare interesse. Come mai?

 

C’è senz’altro un pregiudizio, se può accadere che un’opera selezionata a un concorso, come racconta l’autore, venga poi respinta quando si viene a sapere che l’autrice è una suora. Tuttavia è indubbio che esista un problema di qualità delle opere religiose, dunque di linguaggio. Per Elkins «di regola l’arte contemporanea ambiziosa e di successo è scrupolosamente non religiosa. La maggior parte dell’arte religiosa – e lo dico senza mezzi termini – è semplicemente arte scadente», mediocre e superata. Ha ragione, infatti non basta certo che un’opera sia sacra per essere bella o significativa. Nella post-fazione a Lo strano posto della religione nell’arte contemporanea l’artista e critico Luca Bertolo, afferma: «Artista io stesso, non considero appartenenti alla stessa categoria in cui opero – che viene chiamata “arte contemporanea” o “arte” tout court – la gran parte delle opere successive al XIX secolo presenti nelle chiese, che immancabilmente risultano scialbe, manierate, kitsch, quasi sempre scollegate dagli sviluppi dell’arte moderna». Alcuni anni fa aprendo sul Corriere della Sera un dibattito attorno a Religione e modernità. L'arte sacra contemporanea? Che orrore, il critico Gillo Dorfles rincarava la dose ponendo due domande fondamentali che mi pare sintetizzino bene lo stato attuale della questione: «È sufficiente la fede per far accettare la mediocrità di tanta arte sacra contemporanea? E, d'altra parte, è possibile un'arte veramente attuale che sia anche sacra?» Alla prima domanda la risposta è immediata ed è negativa. No, non si possono riempire i luoghi sacri e di preghiera di oggetti brutti, perché la bellezza porta la mente e il cuore verso lo spirito. Le cose brutte deprimono e diseducano, non spengono la fede ma neppure l’alimentano o la esprimono. 

 

Corita Kent


Come mai non si produce più arte sacra di livello qualitativo alto? Qui entra in gioco l’effetto di un discorso di cui parla Elkins, o meglio l’effetto della mancanza di un discorso. Elkins racconta di avere cominciato a interessarsi al rapporto tra arte contemporanea e religione dopo essersi reso conto che, tra gli studenti che frequentavano i suoi corsi, i pochissimi intenzionati a realizzare opere di carattere religioso non trovavano attenzione da parte degli insegnanti, perciò lasciavano perdere, o tenevano per sé il loro interesse. Mancanza di discussione significa mancanza di formazione critica e tecnica, dunque, inevitabilmente, arte scadente. Nonostante «l’arte occidentale non sia mai stata così distante dalla religione quanto lo è l’arte contemporanea», anzi forse proprio per questo, bisogna trovare un modo nuovo per parlare di religione ai giovani artisti, definendo prima un vocabolario che lo permetta, argomenta Elkins, un vocabolario capace di «far emergere idee religiose senza sconfinare nella teologia… trovare concetti che, pur essendo religiosi, siano poco associabili alle religioni organizzate». Personalmente, però, mi domando se esprimere concetti religiosi separati dalle religioni non voglia dire, più semplicemente, esprimere una tensione spirituale soggettiva, mentre a Elkins, come afferma, in questo libro non interessa trattare della spiritualità nell’arte contemporanea, ma di arte religiosa.

 

Spiegando la differenza tra i termini religioso e spirituale l’autore afferma di usare il termine religione per riferirsi «a uno dei principali sistemi di credenze, sistemi noti e non settari», in particolare al cristianesimo; mentre come spiritualità, spesso contrapposta a religione come suo complemento, intende «ogni sistema di credenze privato e soggettivo, in buona parte o del tutto incomunicabile… a volte addirittura inconsapevole». Ciò che gli sta a cuore, prosegue, riguarda l’arte religiosa e non lo spirituale nell’arte contemporanea.

Due gruppi di studiosi attualmente si contrappongono: da un lato stanno i pochi religionist, «convinti che la religione non abbia mai smesso di accompagnare l’arte moderna e che quest’ultima costituisca per molti versi uno degli ambiti in cui la religione può esprimersi»; dall’altro, quelli convinti che l’arte dal Modernismo (fine XIX e inizi XX secolo) in poi  non possa assolutamente più essere religiosa, perché uno dei principi fondanti del movimento è che l’arte non sia un mezzo adatto a esprimere storie religiose. Certo esistono esempi di arte religiosa contemporanea. Elkins ne cita diversi, come la cappella di Matisse a Vence, la cappella di Cocteau a Villefranche-sur-Mer o quella di Rothko a Houston, tuttavia non spostano i termini della questione perché sono piuttosto «commissioni religiose affidate ad artisti laici».

 

Corita Kent, Gods not dead.


 Oggigiorno si producono un’infinità di oggetti religiosi che nulla hanno a che fare con l’arte e, a mio parere, neppure col sacro. Il direttore del Museo San Fedele di Milano, il gesuita Andrea Dall’Asta osserva: «L’immaginario sacro medievale erano le figure di Giotto, Duccio e Simone Martini; quello rinascimentale Leonardo, Michelangelo e Raffaello…Oggi l’immaginario popolare è fatto di figure devozionali, santini, statuette di plastica perché la Chiesa … ha temuto e respinto il dialogo con gli artisti contemporanei… Il punto critico è che l’immagine rivela la nostra sensibilità di fede, il nostro modo di essere cristiano. Statuette e santini kitsch rimandano a una spiritualità evanescente, consolatoria, che promette un mondo di pace e riconciliazione zuccherosa quando la realtà è invece fatta di ambiguità, contraddizioni, assunzioni di responsabilità...» (cfr. «Jesus», novembre 2017).

 

Se, come ritengono alcuni, l’arte contemporanea non fosse altro che una delle tante tipologie dell’arte «l’arte religiosa sarebbe un tipo di arte, l’arte contemporanea un altro, e il fatto che una esclude l’altra» non sarebbe un problema. Se, invece, l’arte e tutti i discorsi critici, le idee, i significati che la riguardano derivano dalle belle arti di ogni epoca e all’origine di ogni tipologia di arte ci fosse l’evolvere della storia dell’arte, allora «l’esclusione della religione dall’arte diventa un problema molto più complesso e intrigante; non è più una questione di gusto né si tratta di ambiti che hanno scopi diversi; le ragioni di questa esclusione devono essere più profonde, qualcosa che riguarda la specificità stessa dell’arte dal Modernismo in poi», osserva Elkins; e aggiungerei qualcosa che ha a che fare con la società moderna stessa, con la mentalità e il sentire delle donne e degli uomini di oggi. 

 

 

Dicevamo che le radici del divario sono lontane. L’elenco che Elkins fa dei periodi dell’arte cristiana si ferma al Rinascimento, quando «il significato dell’arte cambia, per la prima volta è possibile creare opere che esaltano l’artista e, addirittura, invitano lo spettatore ad ammirare di più l’abilità di quest’ultimo che il soggetto dell’opera». È quello che Marko Ivan Rupnik, – gesuita, teologo e artista che ha decorato con i suoi mosaici chiese in tutto il mondo, ha fondato e dirige il Centro Aletti a Roma, una scuola di arte e spiritualità in cui un gruppo di artisti vive e lavora insieme condividendo anche una ricerca religiosa – definisce il soggettivismo dominante nell’arte contemporanea. «Anche se si raffigura qualcosa di religioso, precisa, a ispirare non è più semplicemente ciò che dice la Scrittura o la liturgia, ma prevale la comprensione che l'uomo ha di questi fatti. In un certo senso, la terza dimensione fa vedere il mondo – anche quello religioso – secondo l'uomo. Il soggetto divino è sostituito dall'uomo.» (cfr. Marko Ivan Rupnik, La via della bellezza nell’arte contemporanea).

 

L’artista di oggi attraverso la sua arte parla di se stesso, della sua situazione, offre il suo punto di vista sulla storia o sulla società. Inoltre, poiché l’arte è strettamente connessa con la vita dell’artista, egli esprime il suo universo, i temi che lo coinvolgono e lo interessano, che riguardano appunto la sua esperienza, la sua psiche o il suo ambiente. E la religione oggi ha un ruolo molto marginale nelle problematiche dell’uomo contemporaneo. Anche laddove sembra esserci una ripresa dell’interesse religioso, si tratta di radicalismo, se non di estremismo religioso, che ha poco a che vedere con i contenuti reali della fede; la religione non è che la veste esteriore di una presa di posizione politica.  

L’arte autenticamente religiosa, invece, vuole trasmettere un messaggio, una realtà sottesa al visibile; l’artista racconta la storia di qualcun altro, non la sua. Di suo mette la sensibilità, l’abilità tecnica, la percezione della bellezza. E anche il ruolo della bellezza nell’arte è divenuto problematico, perché l’artista di oggi non ricerca la bellezza in senso assoluto della sua opera, ma spesso è più sensibile al dolore, all’orrore, al disfacimento della vita. L’arte contemporanea, insomma, sembra muoversi tra la critica sociale, positiva o meno, e l’espressione soggettiva dello stato d’animo dell’artista. 

 

 

Un’intensa sensibilità religiosa, al contrario, soprattutto in ambito cristiano, non può prescindere dalla bellezza, perché nella filosofia che esprime il fondamento del pensiero cristiano bellezza e verità coincidono, e hanno un volto preciso. Se c’è un simbolo cristiano – e tutto nel cristianesimo è simbolico: arte, gesti, liturgia – ancora abbastanza ripreso nell’arte contemporanea è la crocifissione, perché il dolore di Cristo diventa immagine e simbolo della sofferenza umana, di oggi e di sempre. Eppure, la croce e il volto sofferente di Gesù – anch’esso spesso rievocato nell’arte contemporanea – dicono solo di un dolore umano col quale, appunto, chiunque si può identificare, ma non veicolano più alcun messaggio cristiano, perché vi è del tutto assente il mistero della risurrezione che è parte essenziale della storia di Gesù per il credente, e interrogativo per chi non crede. Il cristiano, infatti, non annuncia Cristo morto – che sarebbe un messaggio di disperazione o di esaltazione della sofferenza – ma Cristo morto e risorto. È interessante che per molti secoli, fino al medioevo inoltrato, il crocifisso fosse sempre rappresentato con gli occhi aperti, con il segno delle ferite ma non deturpato dal supplizio.

 

Nel saggio di Elkins, che ha il grande pregio di suscitare interrogativi e riflessioni senza pretendere di arrivare a conclusioni definitive, non si fa cenno a un’artista, Corita Kent (1918-1986), una suora cattolica americana che ha avuto molto successo (e molte difficoltà con la gerarchia) con la sua arte pop coloratissima che usava parole, lettere e citazioni come soggetti dei dipinti, comunicando un messaggio cristiano pieno di gioia e di vitalità. Una donna davvero originale e un esempio molto raro di sensibilità artistica, religiosa e sociale di indiscutibile qualità. A conferma di quanto lo stesso Elkins testimonia con questo libro, ossia che l’arte è un luogo straordinario e unico di osservazione e autocoscienza, specchio delle società e dell’animo umano, strumento interpretativo ineguagliabile e universale della vita degli uomini, dei loro sentimenti, della loro percezione di sé. 

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