Speciale

Dalla finestra / Quaranta dì, quaranta nott

7 Aprile 2020

31 marzo – Oggi si comincia a parlare di quando riaprire. Compare una data: 18 aprile. Perché è la prima data utile dopo Pasqua. Facendo i conti dalla chiusura generale, in quella data saremmo a quaranta giorni. Quaranta giorni esatti, esattamente come le vecchie quarantene. Dopo tutti i discorsi sul tracciamento digitale, sulle nuove tecnologie, sul formidabile progresso, colpisce che a valere sia la vecchia, cara, antichissima regola della Venezia del 1347, della peste nera, della lebbra, del colera. E, poiché siamo a Milano, è subito Lazzaretto. E, poiché siamo a Milano, è anche “quaranta dì, quaranta nott”, ché un po' in galera adesso ci siamo tutti.

Ma sarà così? Sarà il 18? O sarà dopo il 25 aprile, dopo il 1 maggio, quando non ci sarà più il pericolo di dilagare nei prati con il cestino del pic-nic? 

 

Dicono che la riapertura sarà graduale. Probabilmente prima le aziende e le fabbriche, poi le persone. Oggi più che mai, è anche produci, consuma, crepa.

Si comincia anche a parlare di bambini. Della loro sofferenza, del loro bisogno di uscire almeno dieci minuti, prendere il sole, giocare all'aperto, rafforzare le difese immunitarie. Subito si scatena il partito degli Erode vs la fantomatica, potentissima, lobby dei genitori con bambino. Chi chiede di poter fare almeno il giro della casa con un bimbo piccolo in braccio viene additato come il nuovo untore, il bastardo che farà fallire i sacrifici di tutti. Immagino schiere di dannati chiusi in casa come monadi rancorose armate di fotocamere, binocoli, orecchie bioniche che intercettano risate di infanti in strada. E rosicano, temono, annotano orari e uscite dei vicini. Lo schifo che è venuto fuori con tutta questa storia per me è iniziato il giorno in cui il Corriere Adriatico ha pubblicato una locandina che era praticamente una caccia all'untore “dei milanesi delle seconde case”. Mai pensato neanche un minuto di tornare a casa nelle Marche, io che approfitto di ogni occasione e ogni minuto possibile per andare giù, ma quando mi hanno mandato la foto di questa locandina ho proprio sbroccato. E ho cominciato a telefonare a destra e a manca urlando che così ci facevamo male tutti, per sempre. Che certe ferite non si sarebbero mai più rimarginate. All'improvviso mi sono sentita milanesissima, come mai prima appunto, tutta un “siamo la colonna infame”, siamo i monatti d'Europa, adesso arriviamo e vi lecchiamo tutti i citofoni e le maniglie dei portoni. Poi, con i giorni, è apparso che la follia ormai non riguardava più solo una piccola parte del paese, che non era “tutti contro la Lombardia”, ma proprio tutti contro tutti. E che la quarantena non stava rendendo le persone migliori, proprio per niente. E che sotto pressione e impauriti – terrorizzati – eravamo tutti, in tutta Italia e poi in tutto il mondo. 

 

Allora, personalmente, ho lasciato che la rabbia prendesse il sopravvento e ho cominciato a scrivere post e tweet a raffica, uno via l'altro, all'attacco, senza requie. Una sventagliata di pensieri, un pestare sui tasti ogni due minuti rispondendo a tutti. Segnare tutto, sì. Prendere nomi, ricordarsi le risposte da scemi, quelli che ripetono “state a casa” invece di “stiamo a casa”. E soprattutto giù a compulsare in rete per beccare i responsabili, curare nel senso di sorvegliare, e possibilmente punire, quelli che hanno in pugno le nostre vite. 

Gli stessi che oggi hanno inaugurato l'ospedale in Fiera Milano convocando giornalisti e creando un assembramento perfetto, identico all'assembramento di giornalisti e politici che si è visto al porto di Ancona quando è atterrato Bertolaso, poi subito ricoverato al San Raffaele in quanto positivo (e ci era partito, da su, in attesa del secondo tampone dopo un primo risultato positivo: di nuovo Milano e le Marche).

 

A fine pomeriggio è spuntato un timido raggio di sole dopo una giornata grigia. Più o meno all'ora del bollettino della Protezione Civile, che dopo una settimana devastante comincia a dare timidi segnali positivi.

Per festeggiare, mi chiudo in camera e metto “Be my baby” delle Ronettes, faccio un balletto solitario e casalingo fra il letto e l'armadio. La rimetto varie volte, producendomi in diverse danze. La posto su Facebook per condividere questa parvenza di gioia e ottimismo. Non ci credo tanto neanche io.

 

Opera di Rala Choi.


2 aprile – Oggi, senza sapere neanche bene perché, salgono tristezza e paura. Primo perché ci sono in giro tutti questi sceriffi che continuano a minacciare i cittadini. Minacciare, secondo me, non è affatto la cosa da fare in questa circostanza. Urlare, dare dei coglioni, fare delazioni, inseguire le persone: i giornali on line sono pieni di video di sindaci che si producono in spettacolini più o meno deleteri all'indirizzo della cittadinanza. A Roma il Comune ha addirittura aperto un sito dove si possono mandare le delazioni in forma anonima e pulita. A Bari il sindaco ha gridato contro due che giocavano a ping pong in mezzo al nulla sputazzandogli ben benino dei droplet in faccia. De Luca, in Campania, sta dando il meglio di sé, credo con lanciafiamme da usare alle feste di laurea, pastiere avariate e altre amenità. Poi c'è il sindaco di Messina, forse, ma quello lo salto perché c'è un limite a tutto. Circola un video di una sindachetta giovane di una paese del milanese che dice delle gran parolacce e invita i suoi paesani a tirare secchiate d'acqua dalla finestra contro quelli che escono. Molti di quelli che sono in strada sono persone che stanno andando a fare la spesa, o in farmacia, o a prendere servizio in ospedale o in caserma, chissà: niente, secondo questa esaltata, bisogna tirare secchiate d'acqua. 

Tutta questa roba non mi fa ridere, mi mette tristezza.

Posto “I shot the sheriff” di Bob Marley. La riascolto varie volte, in diverse versioni.

Dopo pranzo mi sale lo sconforto, anzi proprio la paura. La Lombardia, che non accenna a migliorare, mi appare per la prima volta un luogo altamente insicuro. Da dentro casa, riesco a percepire, insieme al suono delle sirene, ai numeri dei contagi e dei morti che non accennano a diminuire ascoltati in tv, il vuoto fuori. La depressione caspica – di nuovo loro, non ora non qui, questa pingue immane frana, la libertà una forma di disciplina ecc ecc.

Fuori, le poche volte che esco per procurare una spesa, c'è questo vuoto spaventoso da giorni, settimane. Piccioni perplessi in spazi improvvisamente silenziosi, le serrande dei negozi abbassate da fine febbraio, l'erba che cresce bella verde perché ormai è primavera, il sole che batte nel parchetto vuoto dei bambini. 

Le immagini più sinistre sono guanti di lattice abbandonati qua e là in strada. Hanno forme di pezzi di corpi che non vedi più in giro. Guanti blu che sono stati infilati in mani che non puoi più stringere, che restano in mezzo alla via con le loro dita sgonfie, impotenti, arrese e abbandonate.

Quando mio marito appende la sua mascherina in giro per casa o la appoggia vicino alla porta, gli urlo di farla sparire. Non le voglio vedere, quelle maledette mascherine. Sono il simbolo dell'orrore. Di notte, sogno la faccia di Fontana che incombe sugli schermi di computer e tv con quegli occhi brutti e cattivi sopra la mascherina, di tre quarti, in quel primo video da pirla mascherato che fece tanto tempo fa, all'inizio.

 

3 aprile – Ci sono analogie fra questa situazione e il terremoto. Non solo per le “zone rosse”, questa dannata definizione che ci accompagna dal 2001. Ci sono gli spazi improvvisamente interdetti. Nel terremoto i paesi transennati guardati a vista da militari armati: là eravamo improvvisamente fuori, qui siamo improvvisamente dentro. Ma, ugualmente, piazze e vie e parchi ci sono proibiti. Non possiamo raggiungerli, non possiamo percorrerli, abitarli. Ci rimproverano continuamente di pensare di fare i furbi, dicono “c'è troppa gente in giro”. Ma in giro dove? Se tutto è chiuso, negozi, biblioteche, cinema, palestre, giardini, musei, scuole, università, tribunale, chiese, alberghi, bar, ristoranti, da mesi, dove pensano che andremmo tutti, nel caso? Che cosa diavolo è una città, se chiudi tutto? Cosa rimane, a parte le case e le strade? Uno spazio metafisico, un insieme di costruzioni come un plastico, il rendering di urbanista dove collochi figurette senza fattezze qua e là, nel vuoto. Nelle linee pulite dei palazzi e dei viali senza vita. Davvero abbiamo questa smania di uscire? Davvero ardiamo di trasgredire le ordinanze dei nostri sceriffi? Io non credo affatto.

 

A una certa ora mi compare sul telefono la prima di Libération. È sulla situazione delle case di riposo in Francia. Il titolo, tradotto, è “A porte chiuse”. C'è la foto in bianco e nero di un anziano che si copre il volto con le mani. Anche da noi oggi sono cominciate a girare le notizie sulle Rsa (Residenze Sanitarie Assistenziali: il linguaggio in questi casi comincia a riempirsi di sigle, come TI che sta per terapia intensiva, o FP2 che è la sigla di una mascherina, così come ai tempi del terremoto dovevi sapere cos'è un Coc, o una scheda Fast, o una Sae, perché il linguaggio delle tragedie contiene sempre molte sigle). E per illustrare l'indicibile che sta avvenendo negli ospizi, le tv confezionano servizi con immagini di morbide pantofole poggiate su predellini di carrozzelle, pigiami di flanella, vestaglie, coperte, anziani allettati di spalle. Potresti pensare che scivolano via quasi di nascosto perché forse qualcuno, nei tg, ha del pudore, ma la realtà è che non si deve parlare troppo di quella cosa lì. Di quello che sta succedendo dietro quelle porte chiuse. Sparecchiando, quelle immagini sono un pugno nello stomaco. La morte era lì da prima, oltre che negli ospedali, e lì sta. Appostata.

 

4 aprile – Dall'inizio di questa storia, c'è la figura del medico star. Un essere nuovo (ma non troppo, in realtà) che ha fatto la sua comparsa negli studi televisivi e che da allora non li ha mai abbandonati. Sono scienziati, medici, professori universitari, che all'improvviso si ritrovano investiti di un immenso potere. Tutti pendiamo dalle loro labbra, tutti aspettiamo indicazioni, speranze, un cenno che ancora non abbiamo colto. Qualcuno di loro, a volte, mi sembra ubriaco. Non saprei se di alcol o di luci della ribalta, possono essere benissimo entrambe le cose. Di qualcuno cerco il curriculum. Mi incuriosiscono. Ci tornerò, così come tornerò sui giornali che stanno perdendo autorevolezza alla velocità della luce. Non tutti, ma i principali sì.

 

Di notte, quando qui tutti sono andati a dormire, comincio a cercare in rete notizie su curve, numeri, sull'andamento all'estero. Ci metto più o meno un'ora a fare tutto il giro dei siti, Il sole, il manifesto, Avvenire, Le Monde, il Guardian, le tv. Certo, lo so, non è la cosa più sana da fare di notte. A mezzanotte e venti arrivo a Vita, il giornale del terzo settore. Sulla scia della notizia dell'emendamento paraculo di Salvini che vuole salvare i suoi (dirigenti di ospedali piazzati dalla Lega e responsabili politici della sanità lombarda), leggo della denuncia dell'associazione case di riposo lombarde che racconta che Fontana e Gallera hanno autorizzato con una delibera dell’8 marzo l’invio dei pazienti Covid nelle case di riposo. “Come accendere un cerino in un pagliaio”, dicono. È una notizia di un'enormità spaventosa. Che in Lombardia stesse succedendo qualcosa di abnorme lo sapevamo da giorni, però, ecco, vedere nero su bianco queste ulteriori notizie, fa impressione, tanta. Fa paura.

 

5 aprile – Oggi sbrocco condominiale. Ero in bagno a lavarmi le mani prima di cucinare quando sento urli nel cortile (una parte di casa con cui io personalmente ho a che fare solo quando sono in cucina o in bagno). Mi affaccio e vedo una signora con due bambini che dal palazzo di fronte litiga con qualcuno alla mia destra, in basso. Non riesco a vedere chi è, perché è qualcuno del palazzo accanto e la sua finestra, rispetto alla mia, è sfalsata: nel cortile si affacciano cinque o sei palazzi, in realtà è un insieme di cortili divisi da muri e muretti. Capisco solo che sono stati attaccati due poveri bambini che ogni giorno giocano per qualche minuto a pallone. All'improvviso si affacciano tutti e tutti urlano contro tutti, anche io. Volano bestemmie, parolacce, accuse, si tirano in ballo regolamenti condominiali. Io grido come un'ossessa “Bambini liberi! Bambini liberi!”, dieci, venti volte, sono giorni che volevo farlo, pur non avendo bambini da liberare in quanto i miei figli sono grandi. “Bambini liberi” è il mio urlo, questa primavera. 

 

Urlo anche invettive contro Attilio Fontana. Urlo in questo impazzimento generale con tutto il fiato che ho in gola. 

Poi richiudo la finestra e mi dico che la cosa che mi manca di più, in questi giorni, in questa Milano che negli ultimi anni è anche diventata la città delle manifestazioni più grandiose e belle (l'8 marzo, il 25 aprile, i Friday for Future, il Pride, le manifestazioni contro il razzismo) è non poter andare in strada a urlare, a manifestare sotto Palazzo Lombardia in tanti, tantissimi.

Ecco, questa è la Milano che mi manca di più. In questa cattività schifosa, in questo maledetto distanziamento fisico e sociale. In questa solitudine. Rivorrei la mia città, democratica e libera.

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