Parole e immagini (1) / Qui Odessa. La statua e il cane
7 aprile 2022
Quando tutto è iniziato ho deciso di restare, non me la sono sentita di andarmene. Ho pensato che dovevo restituire qualcosa alla mia città, Odessa. Mi rendo utile come posso. Vado a casa delle persone anziane e porto medicine e cibo acquistati coi miei soldi. Non sono di quelli che entrano in un’organizzazione non profit. Siamo in tanti a fare così. Vado anche in un forno ad aiutare a cuocere il pane. Poi esco in giro per le strade e fotografo persone e facce, senza idee preordinate.
Conosco Anna Golubovskaja sin dall’infanzia, mia e sua. È la figlia di Evgenij Golubovskij, uno scrittore e giornalista sempre in prima linea quando si tratta di celebrare Odessa, i suoi intellettuali e artisti, le vicende storiche ufficiali e non: un archivio vivente della città. Si occupa di riviste, mostre, premi e almanacchi, tiene insieme l’intellighenzia e tiene i contatti con gli odessiti illustri che si sono sparpagliati in giro per il mondo. Fra loro c’è anche Evelina Schatz, mia madre, nata a Odessa. Evelina è stata fra quelli che fino all’ultimo continuavano a dire che i russi non avrebbero invaso l’Ucraina, non ne vedevano il senso. Quando è successo, è rimasta sotto shock. Passa le giornate a guardare le maratone giornalistiche alla televisione. “I miei primi ricordi sono di quando dovevo correre nei rifugi durante i bombardamenti. Non avrei mai pensato che verso la fine della mia esistenza mi sarebbe toccato rivedere immagini di bambine con lo zainetto che scendono ubbidienti nei rifugi.”
Anna è molto attiva su facebook, pubblica anche fotografie di colleghi e maestri della fotografia, è un piacere seguirla. Un giorno, guardando le fotografie che ha iniziato a scattare dopo l’inizio della guerra, ho intravisto una possibilità: far conoscere in Italia il racconto della guerra negli occhi degli abitanti di Odessa, raccontare la guerra non degli obici, dei crateri e dei cadaveri, ma di una città in bilico, in attesa – c’è stato il lampo, ora verrà il tuono – spaventata ma dignitosa e coriacea, un po’ spavalda e anche fatalista, quel lasciarsi levigare dalla vita, il senso del tempo che si deposita sulle facciate e sui volti come una fuliggine trasparente, una sorta di rassegnazione sardonica, come una sprezzatura. Le ho telefonato, si è commossa. Poi ho scritto a Doppiozero, e dopo mezz’ora mi hanno detto di sì. La guerra è anche questo: accelerazione.
La guerra ci ha unito come mai prima. Ci sentiamo una cosa sola, indipendentemente dalla lingua che parliamo, dalla nazionalità e dalla regione del Paese in cui ci troviamo. Siamo una cosa sola nella volontà di difenderci. L’Ucraina è casa nostra e pronunciando i nomi di Bucha, Irpin’, Mariupol’ e Kherson, stiamo parlando di noi, non di altri. E nello stesso tempo ci sentiamo parte dell’Europa, parte di quella civiltà mondiale in cui non dovrebbero avere cittadinanza il totalitarismo e gli assassinii.
Il formato è semplice. Ogni settimana escono cinque fotografie di Anna (solo in questa prima puntata ce ne sono due in più, risalenti a un periodo precedente alla guerra), che è il nostro agente sul posto per raccontare la vita interiore della città. I testi in corsivo, quando non indicato diversamente, sono sempre suoi. È un’operazione in tempo reale, aperta. Il senso lo scopriremo insieme ai lettori. Usiamo in modo improprio un artista come se fosse un reporter. Non sappiamo quanto durerà. Non sappiamo se l’invasione, mirabile dictu, diventerà occupazione della città, che ricordiamo essere una delle dieci Città-Eroe dell’Unione Sovietica per aver resistito strenuamente alle armate tedesche durante la Seconda Guerra mondiale.
Non sappiamo quando e come finirà la guerra. Sappiamo che il nostro reporter non è un fotografo di guerra, non ricostruisce la verità come una stampante 3d, non ha la pretesa di sintetizzare il senso degli avvenimenti a vantaggio dei posteri. Fa lavorare lo sguardo d’artista, che si posa libero come le api dove meglio crede per scandagliare l’anima delle persone. Ma se scandagliamo l’anima delle persone di una città, mi azzardo a dire che stiamo scandagliando l’idea stessa che ha di sé questa città. Le diamo forma e la proiettiamo in modo che lei stessa – la città – possa rispecchiarsi e interrogarsi. Mica solo delle persone si fanno i ritratti. Anna sarà per noi il latore del sostrato umano, sociale e culturale che a Odessa è molto vivido ma non semplice da raccontare a chi non è mai stato lì. Un feuilleton, un racconto a puntate. Cinque foto alla settimana. Poi si vedrà.
Mi piace vivere qui, è confortevole, abbiamo dei ritmi rilassati. Mi piace uscire al mattino, bere il caffè, sentire le persone che scherzano. Sono molto attaccata alla mia città. Le mie foto vengono ripostate e cliccate di continuo, ma non me ne curo troppo. Penso che il bianco e nero trasmetta il senso del dramma, è giusto. Perché lavoro con la pellicola? La macchina digitale è più intelligente di me, e mi fa sentire stupida. Le foto le stampa un mio amico di Kharkiv, una qualità strabiliante, non so bene come ci riesca.
Chiamo Anna su whatsApp, lei mi risponde mentre sta camminando per strada. A un certo punto si sente una musica forte. Chiedo spiegazioni.
Odessa è vuota, non esce nessuno, peggio che quando c’era il Covid. Le autorità hanno organizzato della musica all’aperto per provare a rasserenare gli animi e dare una parvenza di vita normale.
Le persone oscillano fra paura e un orgoglio ironico alla Hemingway. Grace under pressure. Molti esibiscono una vita normale come forma di resistenza, o di sopravvivenza. First, keep calm. Poi si vedrà. Ma Odessa è piena di personaggi eccentrici, che traboccano di storie, e molto attaccati alle tradizioni culturali della città. Le città portuali hanno quasi sempre un certo humour. Keep calm and carry on, di nuovo, in mezzo a una guerra che era solo andata in letargo.
La fotografia ha tanti poteri, alcuni noti, altri meno. Il potere di raccontare il passato e quello di documentare il presente. Il potere di interpretare il mondo e fornirne versioni aperte, assai più delle parole, che mi pare piuttosto costruiscano il mondo. Un giorno mi sono imbattuto in un potere della fotografia di cui non sospettavo l’esistenza: quello della profezia. Stavo scrivendo un saggio sulla fotografia del lavoro nel dopoguerra per gli Annali della Storia d’Italia 1945-2000 Einaudi, un volume curato da Uliano Lucas, e mi sono imbattuto in una fotografia di Ugo Mulas del 1968 che poi abbiamo deciso di pubblicare. Si vedono operai e tecnici all’interno di una fabbrica di prodotti alimentari.
L’ambiente è sterile, sicuro, ben illuminato, tutto pare ben congegnato e adeguato. Ognuno sa cosa deve fare e qual è il suo posto, la sua missione. Ognuno è perfettamente consapevole della propria natura di ingranaggio assimilato a un mosaico superiore. Era la perfetta profezia di come la fabbrica sarebbe diventata il paradigma del mondo. Tutto sarebbe diventato fabbrica, e così è stato. Le autostrade, l’agricoltura, il leisure, l’amore, la sanità, l’industria culturale… Quella foto mi ha colpito per la tagliente capacità di raccontare come sarebbero andate le cose. Da allora mi diverto a scovare nelle fotografie il senso della profezia. A scovare il cigno nero.
C’è una foto di Anna che mi ha catturato dal primo momento che l’ho vista: un cane solitario vicino al monumento in bronzo più famoso della città dedicato a Emmanuel Armand Emmanuel de Vignerot du Plessis, duca di Richelieu, governatore di Odessa dal 1803 al 1814, che plasmò la città come centro portuale. Indossa una toga da antico romano ed è amabilmente chiamato il Duca. Si trova alla sommità della scalinata Potjomkin, quella immortalata nel celebre film di Ėjzenštejn. È curioso che Anna, così antiretorica, abbia fotografato a più riprese il simbolo turistico di Odessa. Nel 2013 il cane è bianco. Il padrone si trova poco distante, e solo per un caso non è finito nell’inquadratura. La scena è avvolta nella nebbia. Il cane è calmo, saggio, interrogante.
Uso la nebbia per eliminare quel fastidioso senso finto delle immagini per i turisti. Il Duca ne ha viste tante. Le cannonate della squadra di navi turche durante la Guerra di Crimea, che poi di colpo levano l’ancora senza un apparente perché. Una palla di cannone è rimasta conficcata nella facciata del Palazzo Vorontzovskij. E poi i cosacchi che sparano contro la folla sulla scalinata Potjomkin. Ma lui, il Duca, è sempre lì.
Poi, quattro anni dopo, nel 2017, Anna ripete lo scatto. La scena si fa spettrale. Il cane è un bastardo nero senza padrone, vive per strada e si ciba dei rifiuti che gli passa una spazzina. È sordo. Il cane bianco è diventato nero. Come il cane bianco, è in attesa, ma la sua attesa rasenta il pericolo, rende inquieti. È Anubi, la divinità-cane degli Egizi dalla testa nera che presiede l’aldilà e a cui si deve rendere conto quando viene effettuata la pesatura del cuore da morti. Se vedi Anubi in giro, non è quello che si dice un buon segno. I cani per strada senza padrone fanno pensare al day after, a branchi di animali con la rabbia che azzannano e si sono impossessati dello spazio urbano. Non so da dove venga ma pensando alla terza guerra mondiale tante volte ho usato la locuzione “ci saranno i cani per strada”.
Nascerà dal terrore atavico dei lupi? La foto della statua col cane nero è una profezia della guerra? A guerra iniziata, Anna scatta ancora una foto con al centro il Duca rivestito di sacchetti di sabbia, questa volta senza cane. La nebbia ha lasciato il posto alla neve. Il Duca sembra indossare un abito di gala con lo strascico. Mi vengono in mente le parole di Mao Tse-Tung “La rivoluzione non è un pranzo di gala”, un refluo degli anni della contestazione nel ’68. Hanno usato un riguardo al Duca di Richelieu lasciandogli la testa scoperta, che però si è fatta piccolissima. Anche in guerra deve continuare a farsi vedere e a salutare il mare, almeno con lo sguardo. Poi è arrivata forte la nebbia, quella vera. La profezia si è avverata, e l’indicibile ha avuto corso. Odessa come New York in 1997: Fuga da New York? Il Duca diventa the Duke, il capo di una gang che si sposta a bordo di una Cadillac con due enormi e improbabili lampadari installati sul cofano. I pendagli di vetro emettono il suono di un carillon sinistro.
Questa invasione sembra uno spettacolo surreale. Non è facile per noi crederci.
Ti mando la foto domani mattina presto. Di nuovo suonano le sirene. Ho spento la luce e anche il computer per paura degli sbalzi di tensione.