La rivoluzione digitale tra memoria e oblio / Ricordati di me
Il passato è solo una storia che raccontiamo ai nostri follower
Il passato è solo una storia che raccontiamo a noi stessi. Con queste parole Samantha, il sistema operativo OS 1 protagonista del film Her di Spike Jonze, cerca di consolare Theodore Twombly. L’uomo, infatti, immagina continuamente di parlare con l’ex moglie Catherine. Riprende vecchie conversazioni, mai dimenticate, e si costruisce con la mente – a posteriori – le giustificazioni che non è stato capace di dare quando la donna, prima di lasciarlo, evidenziava le sue ripetute mancanze. Il passato non esiste realmente. Lo sottolinea, senza mezzi termini, Jonathan Gottschall ne L’istinto di narrare: sebbene realmente accaduto, tuttavia, per come ce lo rappresentiamo, non sembra altro che «una simulazione prodotta dalla mente». I nostri ricordi sono ricostruzioni, non certo registrazioni esatte, di ciò che è davvero avvenuto e la maggior parte dei loro dettagli non è affidabile. È probabilmente questa la ragione che spinge Desmond Morris, all’indomani della morte della donna con cui ha vissuto sessantasei anni, a compiere una scelta radicale: cancellare i ricordi materiali che rendono insopportabile il lutto appena patito. «Cancellando una traccia – osserva Aleida Assmann – la sopravvivenza di una persona o di un evento nella memoria dei posteri diventa altrettanto impossibile che la scoperta di un delitto». Pertanto, si chiede lo zoologo britannico, perché non eliminare tutte le sue tracce? Le migliaia di libri, i dipinti e gli oggetti di antiquariato comprati insieme alla moglie nel corso di oltre mezzo secolo di matrimonio. Ma anche i semplici utensili – una tazza, per esempio – in cui sono conservati simbolicamente i più naturali gesti quotidiani di una vita condivisa. Le fotografie. Addirittura, l’intera casa. «Deposito, materiale e insieme interiore, di ricordi ancora condivisi», la casa rappresenta infatti «l’estremo baluardo di un tempo faticosamente sottratto […] al ritmo incalzante della perdita, al penoso dileguare dei mondi vitali». Per Morris conta la seguente regola: se mi lasci ti cancello.
Theodore Twombly, nella finzione cinematografica, e Desmond Morris, nella realtà quotidiana, condividono lo stesso destino: la fine del mondo nella sua totalità, per usare una nota espressione di Jacques Derrida. Tanto la conclusione di una relazione sentimentale quanto la morte effettiva di una persona amata cancellano di colpo la presenza fisica a cui si era legati e, insieme, tutto ciò che è stato materialmente ed emotivamente condiviso fino all’istante precedente. All’improvviso, Twombly e Morris si ritrovano al punto di partenza della propria vita, come se ogni esperienza finora vissuta fosse stata azzerata. Si oppone alla fine di tutto il mondo nella sua totalità soltanto la presenza spettrale di chi non c’è fisicamente più, la copia trasparente che si moltiplica nei ricordi materiali e mentali, rimanendo viva e attiva nei resti dispersi. Quella copia su cui fa affidamento – secondo Umberto Eco – ogni essere umano il quale, consapevole di avere tanto una debolezza fisica («prima o poi morirò») quanto una psichica («mi dispiace di dover morire»), identifica la sopravvivenza al corpo della propria anima con la memoria che ne rimane. Sia la morte di una persona amata sia la conclusione di una relazione sentimentale determinano, in altre parole, il passaggio dall’identità alle immagini dell’identità, le quali trasformano l’assente in un oggetto da collezione, il baluardo contro la fragilità della memoria verso cui dirigere i propri duraturi rimpianti.
L’inevitabile cortocircuito tra la scomparsa della presenza fisica e la vivacità della presenza spettrale genera, di solito, un profondo sconvolgimento emotivo in colui che rimane: l’amara consapevolezza della fine di tutto il mondo è messa di continuo in discussione dall’esuberanza imperitura delle sue ombre e delle sue immagini, le quali rendono pensieri e oggetti, un tempo condivisi, esclusiva eredità di colui che soffre. Ecco perché, nei casi in cui il dolore è particolarmente insopportabile, può essere utile ricordare il suggerimento di Samantha, quindi considerare il passato come una storia raccontata a sé stessi, spezzando il suo soffocante legame con il presente. Si tengono a debita distanza gli spettri, come fa Desmond Morris, per evitare di rimanerne prigionieri, come accade invece a Theodore Twombly. D’altronde, ce lo insegna Thomas Hobbes, se mettiamo da parte il trascorrere del tempo non abbiamo modo di distinguere il ricordare dall’immaginare. E, ce lo conferma infine Bertolt Brecht, «senza l’oblio della notte che cancella le tracce» l’uomo mai troverebbe, al mattino, la forza di alzarsi.
Morris deve, però, fare i conti con un problema in più rispetto a Twombly: ha l’obbligo di pervenire al corretto equilibrio tra il proprio sacrosanto bisogno di dimenticare e il desiderio della moglie morta, altrettanto legittimo, di essere ricordata.
Ora, cosa succede quando il passato diventa una storia che raccontiamo non solo a noi stessi, ma anche ai nostri follower, registrandolo all’interno dei profili social e del web in generale?
Se la casa è, secondo tradizione, l’archetipo della memoria ibrida, giacché stipa il passato nei diversi luoghi dello spazio domestico, divenendo così l’estremo baluardo di un tempo sottratto al ritmo incalzante della perdita, la dimensione online rappresenta oggi una nostra seconda abitazione. Abitare, spiega Walter Benjamin, significa «lasciare impronte»; lo conferma l’invenzione di «fodere e copertine, astucci e custodie in quantità, dove si imprimono le tracce degli oggetti d’uso quotidiano».
All’interno delle innumerevoli stanze online non facciamo altro che registrarne, accumularne e conservarne in quantità smisurate, creando veri e propri depositi digitali dei ricordi e delegando a strumenti artificiali la nostra claudicante memoria. Rispetto alla prima casa, la porta d’ingresso di internet è sempre socchiusa se non addirittura spalancata: condividere è diventato, d’altronde, uno degli imperativi che lo delineano. È inoltre, come scrive Kevin Kelly, «la più grande fotocopiatrice del mondo»: a causa del suo essere in continuo aggiornamento, «copia ogni azione, ogni digitazione, ogni pensiero che facciamo mentre stiamo navigando». Copia, quindi, la nostra stessa presenza psicofisica, smaterializzandola: disgiunge dall’io biologico, presente fisicamente in un unico posto nel mondo offline, più io digitali, i quali vagano – raramente spensierati, il più delle volte nevrotici – in tutti i possibili luoghi del web, lasciando indelebili impronte a partire da una moltiplicazione incontrollata delle loro identità personali e sociali. Gli esseri umani, costrutti storici la cui contingenza dipende dai continui progressi tecnologici in itinere, hanno cioè imparato a sviluppare – ciascuno – più “anime informazionali”. Reciprocamente connesse all’interno dell’infosfera, tali anime occupano spazi in cui non vi è distinzione tra individui naturali e agenti artificiali. Manifestano, quindi, un’inedita virtù rispetto alle anime “spirituali”. La virtù di accontentare in egual misura i «due smaniosi di immortalità» a cui fa riferimento Elias Canetti: sia colui che vuole continuità infinita nel tempo, sia colui che invece desidera ritornare a intervalli. Come emerge infatti dagli studi interdisciplinari che riguardano la Digital Death, i nostri io digitali pervengono, sotto forma di spettri tecnologici, a quella vita eterna preclusa al loro gemello biologico, ancora in balia dei capricci del Tristo Mietitore.
Ne segue che, a differenza degli oggetti custoditi tra le pareti domestiche i quali facilitano la scelta di Desmond Morris, essendo esemplari perlopiù privati, unici e rari (fisici in senso lato), i dati accumulati nei depositi digitali – messaggi scritti, immagini fotografiche, registrazioni audiovisive, ecc. – sono difficilmente cancellabili: in quanto condivisi, non sono ovviamente privati, godono inoltre del dono dell’ubiquità e risultano moltiplicabili all’infinito. Alcuni sono condivisi volontariamente (i post nei profili social), altri in maniera inconsapevole (ogni traccia informatica che un utente dissemina mentre sta navigando), altri ancora da terzi soggetti (la problematica abitudine dei genitori di pubblicare – di solito su Facebook – le fotografie dei figli minorenni). Tutti possono vivere autonomamente e in un numero non determinabile di copie, occupando lo spazio interno di una quantità altrettanto imprecisata di dispositivi elettronici e di luoghi online. Ciascuno di questi dispositivi e luoghi rappresenta, a sua volta, un punto di accesso privilegiato – 24/7 – ai ricordi digitali. La distinzione tra interno ed esterno è, oramai, diventata superflua rispetto a epoche storiche in cui, in assenza di tecnologie digitali, la casa, quale custode delle memorie private, delimitava concretamente la linea di confine tra il dentro e il fuori.
Se è, dunque, relativamente facile “svuotare” i depositi materiali, una volta avuto luogo un lutto, ponendo una barriera protettiva tra il mondo finito e il mondo da costruire, molto più difficile – se non impossibile – è fare lo stesso con i depositi digitali. Come l’«invisibile cascata di cellule della pelle» che lasciamo tra le vie delle nostre città, l’insieme dei dati, delle tracce e delle informazioni registrate online, costantemente fotocopiate e a cui deleghiamo le nostre memorie in misura sempre più crescente, rende pervasivi a tempo indeterminato i fantasmi che assillano la mente di Twombly, nonché vani i tentativi di sbarazzarsene da parte di Morris.
Il mondo odierno pare colpito da una vera e propria epidemia di ricordi, la quale fornisce al passato l’occasione per emanciparsi dal controllo del presente. Man mano che si rende autonomo come una realtà oggettiva e a sé stante, il passato si sovrappone al presente, interponendosi tra un istante e l’altro. Si libera, di conseguenza, della spettralità che gli ha attribuito chi, fino a oggi, lo ha pensato o come una storia raccontata solo a sé stessi o come una mera simulazione prodotta dalla mente. E si prepara, infine, a sovvertire le regole alla base del nostro modo di ricordare e di dimenticare.
Facebook e lo sguardo al passato: #10YearsChallange, Accadde Oggi, Ricordi
Mark Zuckerberg, principale responsabile della recente moltiplicazione delle nostre anime informazionali, ha intuito per primo il radicale cambiamento in corso del nostro modo di ricordare e dimenticare. Cogliendone soprattutto i lati positivi, egli ignora il consiglio di Samantha e decide di anteporre all’oblio la memoria totale. «L’impulso ad archiviare – scrive Kenneth Goldsmith – nasce in noi come un modo per esorcizzare il caos della sovrabbondanza». Zuckerberg ne prende atto, trasformando Facebook da social network più popolare al mondo a scrigno tecnologico dei ricordi, un gigantesco archivio digitale capace di: 1) conservare i dati condivisi nel corso degli anni dai suoi utenti, ricreando e riplasmando costantemente il rapporto tra il presente e il passato; 2) selezionare con dovizia i ricordi per mezzo degli algoritmi; 3) rendere facilmente accessibili i documenti e le tracce che ognuno ha registrato al suo interno. Un archivio interattivo il quale, distinto dal canone, custodisce «quelle tracce e quei resti del passato che non sono parte di una cultura del ricordo attivo». Riguardano, cioè, aspetti biografici della memoria individuale, privi – almeno, in apparenza – di utilità primaria per la società, ma al tempo stesso in grado di mantenere perennemente in vita i nostri io digitali riprodotti in ogni singola testimonianza resa pubblica.
La metamorfosi di Facebook, tutt’ora in corso, è testimoniata dal fatto che lo sguardo al passato è diventato da qualche anno il suo gesto per eccellenza. La perenne riesumazione di ciò che è stato sembra, al suo interno, tradurre letteralmente il pathos e la risonanza che Vilèm Flusser attribuisce alla rete digitale in generale quale «tecnica dell’amore del prossimo».
In prossimità degli ultimi giorni di dicembre, Facebook propone puntualmente a ciascuno dei suoi due miliardi di utenti un video che si intitola «Il tuo anno su Facebook», alternando – in poco più di un minuto e su uno sfondo strategicamente colorato – le immagini e i post che, condivisi nei dodici mesi trascorsi, hanno ricevuto il numero più cospicuo di like e commenti. Proprio come nei brevi video, creati ad arte dai quotidiani nazionali online, in cui il rapido susseguirsi dei gol più importanti riassume la marcia trionfale della Juventus verso il suo ennesimo scudetto. O in quelli, trasmessi in televisione, in cui il collage dei momenti salienti di un talk show ne celebra la fine stagionale. In conclusione del video proposto da Facebook leggiamo: “a volte, uno sguardo al passato ci aiuta a ricordare quali sono le cose più importanti. Grazie di esserci!”.
Tutt’altro che estemporaneo, lo sguardo al passato trova il suo habitat naturale, nel corso dell’anno, all’interno di singole iniziative come, per esempio, #10YearChallange. Basta un semplice hashtag, reso virale in pochi minuti durante il gennaio 2009, per convincere milioni di utenti di Facebook a mettere a confronto pubblicamente, sulle proprie bacheche, una foto di sé attuale con una di dieci anni prima. Gli osservatori più disincantanti hanno interpretato questa sfida come l’ennesima strategia scaltra per ottenere sostanziose raccolte di dati personali e di immagini con cui addestrare gli algoritmi in vista del riconoscimento facciale. Resta il fatto che, al di là dei probabili doppi fini, milioni di persone, riesumando le fotografie personali risalenti al 2009, si sono per alcuni giorni crogiolati collettivamente nella nostalgia. Questa ha preso forma nel rimpianto autocompiaciuto per una presunta stagione aurea distante, sì, un decennio ma tutt’ora a portata di mano. Una stagione che, se osservata con il tipico disincanto del presente, non comprende le scelte più o meno avventate prese nel corso degli anni, non contiene le delusioni in cui sono mutati gli ideali di un tempo, non include gli insuccessi che inevitabilmente hanno fatto visita né conosce, molto più banalmente, le rughe e i capelli bianchi quali impietose testimonianze dell’insensibilità di Chronos. Un crogiolarsi nostalgico a cui non si sottrae Instagram, coinvolto nella sfida e quindi partecipe dell’invasione di milioni di immagini accompagnate dall’hashtag indicato. L’iniziativa assume un significato ulteriormente importante, se si tiene conto che la maggior parte degli avvenimenti personali dell’ultimo decennio, a cui essa si richiama in maniera esplicita, sono stati documentati, giorno dopo giorno, proprio all’interno dei social network menzionati.
Dalla tarda primavera 2015 lo sguardo retrospettivo diventa il protagonista quotidiano del cosiddetto Accadde Oggi. «Hai un nuovo ricordo» è il testo della notifica che celebra il rito, rimandando automaticamente i nostri dispositivi digitali a un post, un video o una fotografia condivisa su Facebook (o in cui si è stati taggati) lo stesso giorno di uno degli anni precedenti.
Escluse ricorrenze o fatti storici, Accadde Oggi riesuma in modo rapsodico, tramite gli algoritmi, avvenimenti biografici o narrazioni personali. In un primo momento, lo sguardo al passato spetta al solo utente, il quale è poi libero di decidere se ricondividere – dunque, riattualizzare – il ricordo con i suoi followers. Se sceglie la ricondivisione, può riproporlo così com’è o modificato in parte, mediante un commento che lo contestualizzi nel presente. Può anche, in alternativa, riviverlo nella sola dimensione privata o eliminarlo del tutto. Lo scopo dichiarato di Accadde Oggi consiste nel coniugare il presente con l’amarcord, stimolando un dibattito inedito tra gli utenti volto a riconsegnare all’attualità ciò che, una volta accaduto, dovrebbe – in teoria – essere irrimediabilmente terminato. Propende, in altre parole, per una sola delle due strade che, secondo Johann Jakob Bachofen, caratterizzano qualsivoglia atto di riconoscimento: non la strada lunga, lenta e faticosa della ricostruzione razionale, ma quella corta «che si percorre con la potenza e la velocità della corrente elettrica, la strada della fantasia che coglie la verità di colpo, in un lampo, nell’immediato contatto con i resti archeologici, senza elementi di congiunzione». Di colpo, in un solo istante, presente e passato si ritrovano infatti mescolati insieme, rendendo ardua una loro limpida distinzione. Ciò emerge in modo chiaro quando il singolo utente utilizza come immagine attuale del profilo una fotografia riesumata dal passato: i commenti dei follower scritti nel giorno in cui è stata originariamente condivisa si amalgamano con quelli successivi alla riesumazione, confondendosi tra loro. Le conseguenze, il più delle volte, sono alquanto curiose: capita, per esempio, che sotto l’immagine di una donna vi siano i commenti tanto dell’attuale coniuge quanto dell’ex marito, se ovviamente non è stato bannato, i quali si rivolgono a lei come se fosse la moglie di entrambi.
Solo una scrupolosa osservazione della data della condivisione originaria evita, a chi legge, il dubbio della poligamia.
Dal 13 giugno 2018 ha luogo un passaggio, tanto decisivo quanto emblematico, dall’Accadde Oggi a Ricordi. Se l’Accadde Oggi propone all’utente un singolo post condiviso nello stesso giorno di uno degli anni passati, Ricordi (www.facebook.com/memories) è una vera e propria timeline parallela, inclusa nella sezione Esplora, all’interno della quale sono accumulati tutti i post condivisi nello stesso giorno di tutti gli anni passati. Ricordi fa suo «il mistero semplice della concomitanza», che Roland Barthes attribuiva alla fotografia considerando la data dello scatto come sua parte integrante: la data infatti non denota uno stile, ma «induce a fare mente locale, a considerare la vita, la morte, l’inesorabile estinguersi delle generazioni». La sezione Ricordi forse non mira a tanto. Tuttavia, il suo obiettivo è chiaro dall’istante in cui, entrati nel suo spazio, ci accoglie con la seguente dicitura: «speriamo che ti faccia piacere rivivere i tuoi ricordi su Facebook, da quelli più recenti a quelli più lontani» (corsivo mio). Scorrendo la bacheca, ritroviamo tutto ciò che abbiamo condiviso nel dato giorno, disposto in ordine decrescente. Oggi, 25 febbraio 2019, clicco su Ricordi e, immediatamente, scopro che nello stesso giorno del 2018 ho condiviso due fotografie: una raffigurante la mia città – Torino – completamente innevata, a causa dell’arrivo in Italia del vento gelido siberiano definito enfaticamente dai metereologi «Burian», l’altra raffigurante il biglietto del concerto che i Nirvana tennero il 25 febbraio 1994 a Milano, in quello che allora si chiamava Palatrussardi, e a cui partecipai da adolescente. Numero d’ingresso: 8211. Costo del biglietto: 32.000 lire. Tale concerto fu il penultimo in assoluto tenuto dalla band grunge di Seattle, perché un mese e mezzo dopo Kurt Cobain si suicidò.
Un evento, dunque, rilevante da un punto di vista storico, oltre che personale. Scendendo nella pagina, rileggo due miei post: il primo, datato 25 febbraio 2017, riguarda la claudicante situazione politica italiana di quel preciso momento mentre il secondo, datato 25 febbraio 2016, concerne alcune considerazioni personali dal taglio vagamente esistenziale, a farlo apposta, sul tempo che passa. Più leggero il tema condiviso con i miei followers l’anno precedente: un pezzo di cioccolato fondente mangiato all’una di notte. “Evento” che richiama subito alla mente una colorita espressione dialettale romana poco confacente a un posato studio di natura filosofica, come quello che state ora leggendo. Andando ancor più a ritroso, scopro che, nel 2013, un amico che vive in Finlandia ha scritto un post sulla mia bacheca per rendermi partecipe del fatto che si stava recando a un concerto heavy metal, sapendo quanto ne sono appassionato. Nel 2012, invece, sono taggato da un altro amico, dopo una serata trascorsa a San Salvario, il quartiere della movida torinese. E così via, fino al primo 25 febbraio vissuto su Facebook, quello del 2009. Concluso il viaggio a ritroso nelle memorie personali del giorno, sono elencate le amicizie strette nei diversi anni passati, con annessi video speciali o collage che celebrano i nuovi contatti. Successivamente, qualora avessero avuto luogo nel tal giorno, sono menzionati gli avvenimenti importanti della vita personale: l’anniversario di un matrimonio o della laurea conseguita o, ancora, dell’inizio di un nuovo lavoro. Lo sguardo al passato termina con un lapidario: «per oggi è tutto». Ovviamente, è data la possibilità a chiunque entri in Ricordi di ricondividere uno o più di questi ricordi, riattualizzandoli proprio come avviene con Accadde Oggi. Nel caso in cui non vi siano post condivisi nel dato giorno, Facebook lo sottolinea e invita l’utente a controllare il giorno successivo, magari attivando le notifiche specifiche per i ricordi di modo da non perderne nessuno.
L’invenzione della sezione Ricordi – secondo il product manager di Facebook, Oren Hod – è giustificata dal fatto che sono circa novanta milioni le persone che, ogni giorno, utilizzano Accadde Oggi per rivivere all’interno del social network le esperienze concluse, dunque per riesumare il proprio passato. Di conseguenza, la creazione di Ricordi fornisce a tutti gli iscritti un luogo apposito dedicato alle memorie personali, il quale permette di consultarle in maniera semplice, intuitiva e senza dover ripercorrere a ritroso le centinaia o migliaia di post condivisi nel corso degli anni. Sembrerebbe, in definitiva, che per novanta milioni di persone non sia sufficiente raccontare il passato soltanto a sé stessi.
Tali numeri lasciano presagire che Facebook, in un futuro non così lontano, creerà un vero e proprio database universale dei ricordi, consultabile mediante una semplice ricerca per singoli termini. In tal modo, metterà definitivamente a frutto l’indicizzazione tramite parole chiave, introdotta nel 2013, in vista di un’analisi delle nostre condivisioni volta a individuare correlazioni, schemi ricorrenti, anomalie, incoerenze nella vite registrate al suo interno. Questa previsione, pur consapevole della difficoltà di maneggiare un numero assai cospicuo di contenuti, è avvalorata dall’attuale presenza di un sistema che permette a ogni iscritto di fare ricerche singole per anno, mese e giorno all’interno del proprio profilo e di quello dei suoi contatti. Basta recarsi nella sezione denominata «registro attività» e selezionare l’anno e il mese di interesse, indicando poi i post, le immagini o i link condivisi da recuperare. A ciò si aggiunge un archivio delle «storie», facilmente consultabile e scaricabile sul proprio computer. Le «storie», sempre più utilizzate sia su Facebook sia su Instagram, nascono inizialmente per dare ragione a Samantha: sono, infatti, condivisioni temporanee di fotografie, video e testi scritti. Rimangono visibili per ventiquattro ore, superate le quali si autocancellano, esattamente come succede per i contenuti su Snapchat. Il loro obiettivo è la creazione di una specie di live streaming della nostra esistenza, per cui sono l’immediatezza, l’istantaneità e la fuga dalla registrazione le loro prerogative fondamentali. Tuttavia, il desiderio collettivo di conservarle e di riesumarle a proprio piacimento ha spinto i responsabili di Facebook e di Instagram a istituire uno specifico spazio che ridimensioni prepotentemente il carpe diem insito nella loro originaria natura.
Facebook permette, addirittura, di fare il download di tutta la vita digitale trascorsa nei suoi meandri. Recandosi nella sezione del proprio profilo dedicata alle informazioni, a cui si accede dalla pagina generale delle impostazioni, si trova la funzione necessaria per archiviare sul proprio computer i vari contenuti: post, foto e video, commenti, like e reazioni, amici, storie, messaggi, gruppi, ecc. Il download riguarda sia singole pubblicazioni, una volta selezionato il tipo di informazioni e gli intervalli temporali desiderati, sia tutto l’insieme dei documenti. Si può scegliere tra il formato HTML, più semplice da visualizzare, e il formato JSON, che consente a un altro servizio di importare i dati in modo immediato. Il download, il quale richiede un tempo di attesa sostanzioso per i profili maggiormente attivi nel corso degli anni, è una procedura protetta tramite password e a cui accede solo il proprietario dell’account e per pochi giorni, prima di essere in automatico eliminato. In alternativa, è concesso al contatto erede, in caso di morte del proprietario e solo se è stato da lui preventivamente indicato. Il contatto erede, una volta certificata la morte avvenuta dell’amico, esegue il download, e quindi archivia sul proprio computer, una copia dei contenuti del profilo del defunto, eccezion fatta per la messaggistica privata. Conserverà, così, per sempre la memoria digitale che il defunto ha costruito pazientemente durante la sua permanenza dentro il social network di Zuckerberg.
Dal video celebrativo dell’anno appena concluso agli hashtag estemporanei come #10YearChallange, da Accadde Oggi a Ricordi, fino ad arrivare alla copia in unico file di tutte le memorie digitali prodotte su Facebook nel corso degli anni, Zuckerberg sembra far suo, in senso ottimistico, il pensiero invece inquieto espresso da Mark Fisher: «nell’era del digital recall anche la perdita è andata perduta». I ricordi sepolti nella memoria hanno oggi la possibilità, in virtù delle tecnologie digitali, di essere dissotterrati in un qualsiasi momento della nostra quotidianità e riportati in vita, riguadagnando la stessa attualità che li ha caratterizzati nel momento in cui sono stati vissuti.
Questo libro, partendo dalle riflessioni sulla Digital Death svolte ne La morte si fa social, intende analizzare le conseguenze filosofiche che questo dissotterramento digitale dei ricordi provoca all’interno del nostro modo di ricordare e di dimenticare, portando altresì alla luce gli effetti paralleli della graduale emancipazione del passato dal controllo del presente. Per raggiungere tale scopo, è necessario – per prima cosa – ripercorrere le tappe fondamentali del percorso che ha determinato, in meno di vent’anni, la metamorfosi dei social network come Facebook in scrigni tecnologici dei ricordi o in archivi digitali.
Davide Sisto - Ricordati di me. La rivoluzione digitale tra memoria e oblio, © 2020 Bollati Boringhieri editore, Torino