Matria

17 Marzo 2011

Oggi, dopo le tragedie del Novecento, “patria” è forse una parola, se non inservibile, irrecuperabile. Patria è ancora la nazione maschia (o meglio – in un rovesciamento semantico – la nazione femmina la cui inviolabilità è garantita dagli italiani maschi), è il precipitato della peggiore retorica bellicista ed escludente, respingente e classista. Eppure queste parole di Levi, inaspettatamente, sembrano dirci che è possibile ancora restituirle un senso. Stefano Jossa, a un recente convegno dedicato a letteratura italiana e identità nazionale (Marzo 2011. Una d’arme di lingua d’altare/di memorie di sangue di cor) insisteva ragionevolmente sull’urgenza di dare pieno corso al lemma “matria”, quale possibile alternativa all’ormai inattingibile “patria”. Probabilmente è così.
Altrimenti si tratterebbe di risalire a una nozione che, proprio a cavallo del processo di unificazione nazionale italiana, preesiste al becero nazionalismo moderno. Recuperare quell’idea di patriottismo che Maurizio Viroli contrappone appunto alle degenerazioni nazionalistiche otto-novecentesche. Se è fondata questa tesi, anche quei classici che ci hanno surrettiziamente fatto leggere come peana del nostro nazionalismo, si rivelano piuttosto testimonianze postreme di un’idea di patria comunitarista. Non quali preconizzazioni delle sorti fauste di una nazione che si fa stato ed entra nella modernità, dunque, ma piuttosto come una delle ultime attestazioni di quella utopia di cittadinanza aperta e inclusiva che il nazionalismo moderno spazzerà via. Magari potremmo dipartire da là, per provare a restituire significati spendibili, oggi, alla parola “patria”: rileggere, per esempio, Marzo 1821 di Manzoni e soffermarci su “gente”, “fratelli”, “compagni” (non vi è alcuna occorrenza di “patria”, “nazione” o di parole derivate dalle loro radici, nell’ode. Se non in quell’epigrafe che affranca programmaticamente il testo da qualsivoglia nazionalismo chiuso e retrivo, evocando le sorti di ogni popolo oppresso).
Se la modernità comincia con il Rimbaud che scriveva giustamente “j’ai horreur de la patrie”, insomma, gettiamocela finalmente alle spalle. E ricominciamo da Leopardi, che proprio in quel marzo 1821, a proposito di patrie e cittadinanze linguistiche (quasi preconizzando una famosa sentenza di Chomsky: “una lingua è un dialetto con un passaporto e un esercito”) scriveva: “conchiudo che la giudiziosa novità, (e massime tutta quella che si può derivare dalle nostre stesse fonti) l’arruolare al nostro esercito nuove truppe, l’accrescere la nostra città di nuove cittadinanze, in luogo che pregiudichi per natura sua, e quando si faccia nei debiti modi, alla purità della lingua, è anzi l’unico mezzo sufficiente di difesa, di far testa, di resistere alla irruzione della barbarie, la quale sovrasta inevitabilmente a tutte le lingue che mentre il mondo, e le cose, e gli uomini, e i suoi stessi parlatori camminano, e avanzano, o certo si muovono; non vogliono più, o sono impedite di più camminare né progredire, né muoversi in verun lato o modo: e vogliono, o son forzate a volere (inutilmente) quella stabilità, che non ebbero mai né avranno gli uomini e le cose umane, al cui servigio elle son destinate, e al cui seguito le costringe in ogni modo la natura. Conchiudo che impedire alle lingue la giudiziosa e conveniente novità, non è preservarle, ma tutt’uno col guidarle per mano, e condannarle, e strascinarle forzatamente alla barbarie”.

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