L'insorto / Metafisica del populismo
Liquidare il populismo come mero non-pensiero, ripetendo il ritornello della “pancia” contrapposta alla “ragione critica”, non solo ne sottovaluta la potenza, ma impedisce all'antifascismo di dotarsi delle armi necessarie per combatterlo. L'antifascismo della “sinistra” è vittima della perversa illusione che attribuisce al suo avversario. Fare della semplificazione demagogica la chiave di volta del successo del populismo su scala planetaria non è forse una semplificazione altrettanto grave di quella che vorrebbe denunciare? La tesi della semplificazione è una tesi “comoda” che, semplificando, esonera dallo sforzo dell'analisi. Le conseguenze sono gravi. Già negli anni Trenta del secolo scorso, filosofi come Ernst Bloch o Georges Bataille gridavano (nel deserto) che non si sarebbe andati molto lontani limitandosi a stigmatizzare l'irrazionalismo dell'avversario nazionalsocialista. Il fascismo non era mera ciarlataneria da fiera, anche se come imbonitori si presentavano i suoi alfieri agli occhi dell’élite intellettuale europea (a un Benedetto Croce, ad esempio). Il fascismo era una metafisica; il fascismo apparteneva alla storia dello spirito europeo. Se si voleva essere veramente antifascisti, si doveva allora comprenderne la matrice “teorica” della sua potenza di fatto. Lo stesso, credo, si deve ripetere oggi di fronte all'affermarsi di qualcosa che è certamente diverso dal fascismo storico, ma che appartiene alla stessa “famiglia”.
La questione è, dunque, la metafisica del populismo. La domanda concerne il suo fondamento teorico. La risposta non la si ritroverà ovviamente nelle dichiarazioni dei suoi esponenti. È il segno della vitalità di una pratica il potersene infischiare delle sue premesse teoriche. Quando le cose funzionano la riflessione è tempo perso. Possiamo allora chiedere aiuto al metodo psicoanalitico. Per risalire alla causa di un fenomeno psichico estremamente complesso Freud prendeva le mosse dall'apparentemente irrilevante (un lapsus, un sogno, un atto mancato...). Nel caso che ci interessa un buon punto di partenza è la tendenza populista a fare proprie le più sgangherate rivendicazioni anti-scientifiche, dal negazionismo sul clima alla polemica sui vaccini. La critica della casta, la contestazione del livello istituzionale della politica, l'antiparlamentarismo, che costituiscono il cuore del populismo politico, si prolungano in una insofferenza generalizzata per il sapere e per i suoi detentori: nella retorica populista, nient'altro che ottusi esecutori di un potere tanto invisibile quanto odioso (i “professoroni”). Chiedersi perché questo avvenga mi pare allora una buona domanda. Permette di fare chiarezza sull'idea di libertà che il populismo fa propria e che promuove incessantemente, guadagnando, grazie ad essa, un crescente consenso presso masse che, a differenza di quanto si vorrebbe credere, sono altamente alfabetizzate e assai poco masse (certo, sarebbe tutto più semplice se si potesse rubricare il fenomeno populista nella categoria astorica della eterna “ignoranza delle plebi”...).
Il populismo si radica nel terreno della moderna metafisica della libertà. La libertà è una sua parola d'ordine. Essa risuona nel suo appello alla sovranità e all'autonomia (“padroni in casa propria!”). Da questo punto di vista è fenomeno squisitamente “moderno”. La modernità è stata segnata in modo inequivocabile dalla rivendicazione della autonomia del soggetto contro l'eteronomia (la verità di fede, la verità dogmatica). Lo abbiamo appreso sui banchi di scuola: la critica del principio di autorità è la cifra da cui si riconosce la modernità nel suo insieme. Kant ha portato ad espressione nel modo più sublime lo spirito della modernità nel celebre incipit del suo articolo del 1784 sull'illuminismo: “L'illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a stesso”. Fa uno strano effetto citare questa immortale proposizione kantiana in sede di analisi di un fenomeno dalle tinte ferocemente anti-illuministe, eppure il populismo, nella sua radice metafisica, è un modo di corrispondere all'appello moderno a diventare soggetti autonomi, a “liberarsi” dai vincoli che impediscono di lasciare il fondo della platonica caverna, ad “insorgere”, infine, contro l'autorità. Questo particolare modo della soggettivizzazione è stato ben mappato dalla metafisica classica. L'anarca populista, perché così andrà chiamato, ha, insomma, un illustre pedigree filosofico.
Fin dalla sua fondazione cartesiana, l'autonomia del soggetto ha avuto due sensi. In prima istanza ha avuto il senso della rivendicazione della libertà dell'intelletto giudicante. La libertà per cui ci si batte e per cui si è pronti anche a morire è la libertà della scienza. La libertà rivendicata da Kant nell'articolo sull'illuminismo consiste infatti nell'uso pubblico della ragione. Per difenderla e per promuoverla presso sovrani “illuminati”, Kant pratica l'understatement e la battezza “la più inoffensiva di tutte le libertà”. Essa si risolve nel “fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi... intendo l'uso che uno ne fa come studioso davanti al pubblico dei lettori”. La libertà dell'intelletto giudicante è, insomma, la libertà scientifica dello studioso, la liberta di chi parla rivolgendosi alla comunità scientifica accettando la sua autorità “razionale”. Questo primo senso della libertà dei moderni è un senso invero molto antico. Essere liberi per gli antichi significava lasciarsi educare dal vero, esporsi alla sua luce, “indiarsi” nella verità oggettiva. Non di altro parla il celeberrimo mito platonico della caverna. Bisogna “rialzarsi” e procedere in direzione del sole splendente anche se gli occhi fanno male. Per i moderni cartesiani essere liberi significa, dopotutto, “onestà intellettuale”. A ben considerarla, l'onestà non è altro che un rinnovato esercizio di sottomissione, non però all'irrazionalità del dogma, bensì alla luce della evidenza. Si “deve” acconsentire al vero che l'intelletto ci mostra, anche se quel vero non ci piace e contraddice la fede... La libertà che così assaporiamo è perciò una libertà che prescinde dalle differenze individuali, dalle passioni degli “ego” in essa implicati; è una libertà astratta, impersonale, una libertà frigida, come lo sarà la maestà della Legge alla quale “deve” sottomettersi, che gli piaccia o meno, ogni potere esecutivo in uno stato costituzionale. Nel suo primo senso la libertà cartesiana è, quindi, libertà dal dogma ed è libertà per la verità, cioè per la necessità riconosciuta come necessità (2 + 2 = 4, ci piaccia o meno).
La libertà dei moderni ha però anche un altro senso che la differenzia da quella degli antichi. Essa è anche, nello stesso tempo, e, forse, a un livello più profondo della libertà dell'intelletto, libertà del volere. Di questa libertà non c'era traccia negli antichi per i quali il volere era guidato all'intelletto, al punto tale che per un Platone era inconcepibile che chi vedesse intellettualmente il bene potesse poi praticamente agire male. Per Cartesio, invece, le cose non stanno affatto così. Il consenso al vero oggettivo, in cui si risolve l'attività dell'intelletto che giudica, presuppone la possibilità (che i filosofi direbbero “trascendentale”) del rifiuto. Per lui, come per tutta la tradizione filosofica, il giudizio (2 + 2 = 4) è sì il luogo della verità, vale a dire il luogo in cui il vero è riconosciuto come tale, ma il giudizio non è una facoltà dell'intelletto: il giudizio è una facoltà della volontà. La potenza di acconsentire o rifiutare appartiene insomma a quella parte dell'anima che è estranea al dominio dell'intelletto, la parte “peggiore”, secondo il Platone della Repubblica, la parte passionale, quella che i “poeti” sanno sedurre. E questa parte dell'anima non è affatto una parte, perché la facoltà del volere, che si pone al cuore dell'uomo, è da Cartesio ritenuta infinita, a differenza della facoltà dell'intelletto che è ovviamente finita. A causa di questa differenza tra le due facoltà può darsi allora l'errore (2 + 2 = 5). Anzi l'errore non può non darsi perché la sua presenza testimonia della libertà infinita del soggetto come soggetto del volere. L'errore è il garante della libertà. E la libertà cui qui si fa menzione non è la frigida libertà dell'intelletto, ma è una libertà concretissima, è una libertà individuata, è la libertà dell'ego che io sono e che, errando, dà prova della sua sovranità.
La tesi veramente stupefacente di questo Cartesio è che ciò che fonda la possibilità dell'errore, vale a dire l'eccedenza della volontà sull'intelletto, è anche quanto eguaglia l'uomo a Dio. Non è infatti l'intelletto che può eguagliarli. Finito nell'uomo, è infinito in Dio. Solo la volontà infinità si dice invece, secondo Cartesio, univocamente dell'uno e dell'altro. Cartesio era una ipercristiano. Credeva talmente nell'onnipotenza del creatore da non tollerare nessuna limitazione alla sua libertà, nemmeno quella che lo vincolava al rispetto delle cosiddette “verità di ragione”. Se Dio lo avesse voluto 2 + 2 avrebbe potuto fare tranquillamente anche 5 e una montagna avrebbe potuto esistere senza la valle. Essendo la fonte di ogni verità, Dio ne è al di qua, in una condizione di sovranità assoluta. In questa prospettiva l'errore umano prende allora un altro aspetto. Se per i classici del razionalismo era ciò che si doveva emendare come perversione della verità, esso diventa ora la similutudine, ma meglio sarebbe dire la caricatura dell'onnipotenza divina. La scorrettezza diviene così segno della trascendenza della condizione umana. Questa strada delirante non è certamente battuta dal buon Cartesio. Egli l'ha resa tuttavia praticabile con la sua concezione della libertà infinita del volere e lo ha fatto proprio mentre con il suo cogito emancipava definitivamente l'intelletto da ogni vincolo trascendente inaugurando la stagione dell'illuminismo europeo. Spetterà ad altri maestri della nostra modernità percorrerla fino in fondo. Essi ne faranno la bandiera di una liberazione integrale e definitiva dell'uomo: la liberazione dell'esistenza dall'obbligo nei confronti della verità.
La più completa espressione di questa libertà “esistenziale”, direi quasi il suo manifesto, si trova nelle Memorie del sottosuolo di Dostoevskij (1864). Se il populismo dovesse assegnarsi un padre nobile è allo scrittore russo, inteso come autore di quel formidabile racconto, che dovrebbe guardare (e, insieme a lui, a Max Stirner, la cui grande opera L'Unico e la sua proprietà è di venti anni precedente). Il protagonista delle Memorie – un uomo meschino, segnato dalla impotenza e dal livore verso il mondo che non lo riconosce – afferma infatti il suo diritto assoluto a ribellarsi alla verità razionale, rivendica il suo diritto assoluto all'errore come errore. Nell'errore come errore fissa tutta la sua libertà sovrana. Non vuole, dice (o meglio, biascica tra sé e sé), inginocchiarsi di fronte al muro della evidenza che ipnotizza i filosofi razionalisti. “Due più due fa quattro, questa è matematica. Provatevi un po’ a replicare (…) Voi siete obbligati ad accettarla così com’è, e perciò dovete accettare anche tutti i corollari. Un muro, quindi, è un muro… eccetera. Signore Iddio, ma a me che importa delle leggi di natura e dell’aritmetica se poi, chissà perché, queste leggi e questo due più due quattro non mi piacciono? S’intende che non cercherò di abbattere quel muro a testate se non avrò davvero la forza di abbatterlo, ma non mi concilierò con esso soltanto perché mi trovo davanti un muro di pietra e le mie forze non sono sufficienti”. Caterve di filosofi, poeti e letterati novecenteschi sono caduti in estasi di fronte a questa dichiarazione scorgendovi il culmine del processo di liberazione del singolo dall'ultima forma di autorità rimasta dopo la morte di Dio, quasi essa fosse la perfezione del dettato illuminista. E con loro, non pochi movimenti “progressisti” hanno scommesso su questa idea di libertà. In effetti la libertà esistenziale reclamata dall'uomo del sottosuolo è la libertà della volontà infinita dal giogo della verità necessaria.
Egli infatti rivendica a sé la proprietà di Dio di creare la verità: ne vuole essere la scimmia (le fake news sono la caricatura della verità creata...). Il suo omologo Max Stirner non edificava forse il proprio anarchismo sull'ipotesi che il “singolo”, cioè il dostoevskiano uomo del sottosuolo, potesse essere causa di sé come causa di sé era il Dio della metafisica tradizionale? Troviamo qui, riferito però all’uomo, il senso della libertà assoluta di Dio, cioè la tesi cartesiana della verità creata. Dio, sostenevano i teologi che piacevano a quel Cartesio ipercristiano, non vuole il bene, perché se così fosse sarebbe sottomesso ad una legge trascendente, ma il bene è ciò che vuole Dio per il semplice fatto che lo vuole. Se si cambia soggetto e si mette l'io al posto di Dio, ecco che appare il volto poco gradevole dell'uomo del sottosuolo. È il volto dell'anarca, il volto del ribelle o, come meglio sarebbe dire, dell'insorto. Un volto luminoso, quando ad aureolarlo era la luce della verità per la quale testimoniava con la sua ribellione, ma che adesso si presenta con un tratto perverso, perché la sua causa è la non-verità, il sonno della ragione. Se infatti la libertà razionale era la libertà del soggetto per la verità, la libertà esistenziale è la libertà del soggetto dalla verità, oppure è la verità posta nell’esercizio stesso della soggettività assunta nella dimensione della sua più sfrenata singolarità (il “capriccio”, il “non mi piace che 2 + 2 = 4”) e della sua irriducibilità all’universale, una libertà al di là della legge e fuori da ogni legge, una libertà che si risolve, in ultima analisi, nel diritto, gridato oggi a gran voce, ad essere finalmente “cattivi”, contro il “buonismo” di chi si sottomette all'impersonalità del bene.
Ad ogni latitudine del pianeta, il populismo si è fatto paladino e portavoce degli “insorti”. Da qui il suo successo, la sua capacità universale di fascinazione. Esso si rivolge infatti a quanto vi è di più astratto da ogni contesto storico, vale a dire alla singolarità irriducibile (e rabbiosa) che è racchiusa nel pronome “Io”. Un “Io” lo siamo tutti. Un “Io”, soprattutto, vogliamo esserlo tutti. Da qui trae anche origine la convergenza tra populismo anti-istituzionale e la forma più pura del liberalismo: l'anarco-capitalismo. Per quanto la propaganda populista sia infarcita di retorica anticapitalista, l'anarca, il soggetto della volontà infinita, è veramente il soggetto neoliberale. Il grande teorico liberale Isaiah Berlin (che certo non può essere ascritto all'anarco-capitalismo) lo ha dovuto francamente riconoscere. A fondare il diritto assoluto di una convinzione, scrive, è il solo fatto di essere una mia convinzione. La sua verità o fondatezza è del tutto inessenziale. “L'essenza della libertà è sempre consistita nella capacità di scegliere come si vuole scegliere e perché così si vuole, (...) di schierarti per le tue convinzioni per il solo fatto che sono tue. La vera libertà è questa, e senza di essa non c'è mai libertà, di nessun genere, e nemmeno l'illusione di averla”. E ancora: "L'essenza della libertà sta nel diritto di opporsi di difendere le nostre convinzioni solo perché sono le nostre convinzioni" (corsivi miei). Da qui anche l'anti-intellettualismo feroce che fa da collante ideologico a questa santa alleanza tra populismo e individualismo proprietario. La scienza è sospetta perché sembra vincolare il volere a dei principi indipendenti dal volere stesso. La scienza va benissimo come tecnica al servizio della volontà e del suo capriccio, ma diventa sopruso insopportabile quando pretende di farsi sapere e di legiferare sul reale (affermando, ad esempio, che i bambini “vanno” vaccinati o che le emissioni “devono” essere ridotte).
Se tale è la metafisica del populismo, bisogna rettificare il giudizio che lo bolla di fascista e razzista. Il suo fascismo non è quello gentiliano dello stato etico ma quello mussoliniano del “me ne frego”. Il suo razzismo non è quello codificato, ideologico e, in un certo senso, ammantato da una pretesa cornice teorica del Mein Kampf, ma quello per così dire “estetico” del “non mi piacciono i negri, gli zingari, i froci ecc.”. Contro questo fascismo e contro questo razzismo sono però inefficaci gli appelli alla libertà razionale, alla terzietà del giudizio, al tribunale della ragione critica. La grande onda della cultura postmoderna ha contribuito a metterne in questioni i fondamenti. Lo ha fatto con le migliori intenzioni, credendo di assicurare all'umanità un futuro di libertà, ma il risultato è stato quello di dare armi teoriche al nemico. A forza di sospettare della verità, della verità non ne è infatti più nulla e a dominare la scena è ormai solo il diritto assoluto dell'uomo del sottosuolo a insorgere contro ogni verità. Per poter essere combattuta su tutti i campi (sociale, politico, istituzionale, giuridico, pedagogico), la battaglia antifascista deve perciò ritornare sul terreno metafisico nel quale si è generata la concezione moderna della libertà nella sua doppia versione, intellettuale ed esistenziale, libertà per la necessità e libertà dalla necessità. Come pensare, come praticare, come sperimentare “qui e ora”, in queste situazioni determinate, una libertà del terzo genere, una libertà che sia finalmente “reale” e non immaginaria come lo è quella dell'anarca populista?
Questo articolo rielabora la lectio magistralis tenuta ad Ancona in occasione del Kum! Festival il 20 Ottobre 2018 con il titolo Kum! Dal soggetto razionale all'“anarca” populista.