Chi fa da sé, fa per tre. Cioè per tre like. / Neanche Nessuno si salva da solo

12 Novembre 2017

La Catalogna si stacca. Il Veneto ci prova ad allontanarsi: rivendica lo statuto speciale. E perché non il Lazio allora? Perché la Calabria no? O anche perché non Roma? Città a statuto speciale. Perché il proprio paese di 40.000 abitanti no? In fondo la capitale succhia tutto… Vogliamo 20 regioni a statuto speciale. Vogliamo l’Italia nazione a statuto speciale in Europa. Bramiamo l’Italia dei Comuni, l’Italia spezzatino del 1250 col capitalismo istallato di default. Come riporta Bauman nel suo ultimo saggio Retrotopia (Laterza), in un articolo del 2016 sul “Boston Review” Ronald Aronson scrive:

 

Ci fu un momento in cui i lavoratori capirono che facendosi valere collettivamente potevano migliorare le proprie condizioni; ora, invece, gli stessi lavoratori si rendono conto che la scelta migliore che possano fare è proteggersi da soli. Per chi pensa solo a sé stesso, le esperienze di classe e la solidarietà sono impossibili e irrilevanti. Come dice [Steve] Fraser, quando l’unico possibile ambito di miglioramento è l’io, quando agire collettivamente non offre alcun vantaggio, la coscienza collettiva appare «stolta, ingenua, svampita o, al contrario, immorale e sediziosa».

E non è diverso quanto accade nelle stanze più strettamente personali, nella nazione a statuto speciale del proprio io. Perché io mi amo. Io mi amo? Sì, embé?! «Ama il prossimo tuo come te stesso» era addirittura un comandamento: io ti comando di amare l’altro proprio con la stessa intensità con cui ami il tuo fesso io. Ora sarebbe meglio apportare qualche modifica: «ama te stesso come il prossimo tuo». Perché in fondo il prossimo lo amiamo: bene, avanti il prossimo. Prendete la fighissima quarantenne, istruttrice di fitness e sposata con se medesima: «Sì, mi voglio». (Valerio Magrelli: «Piccole macchine di grande solitudine, | là dove il celibato sposa l’alienazione | con me testimone alle nozze | fra la Mancanza e la Ripetizione.»)

 

E così ognuno vorrebbe essere la Catalogna: ci si sente abbastanza grandi e autonomi da potersi staccare dalla Spagna-moglie. Vogliamo divorziare e ne pretendiamo il diritto: stiamo benissimo pure da soli. «Vivere per il presente è l’ossessione dominante – vivere per se stessi, non per i predecessori o per i posteri», come scrive Christopher Lasch in La cultura del narcisismo. In Catalogna sono scesi in tantissimi in piazza, per sancire il diritto di ciascuno a dirsi indipendente. Lo stesso non accade certo per difendere la Spagna, la grande madre, nazione con una storia millenaria, cultura comune. Lo stesso non accade in Italia, forse perché sappiamo che qualcun altro ci guarda e ci giudica, magari guadagnando, lavorando alla faccia nostra mentre noi siamo in piazza per qualche fesso ideale.

 

 

E così accade con la scrittura. Io voglio scrivere. Case editrici non ne trovo. Quelle che trovo, mi chiedono soldi. Soldi per soldi, ergo selfpublishing. Voglio scrivere articoli. Non me li pubblicano. Apro il mio blog, d’accordo? Mi faccio la mia rivista, qualcosa in contrario? Fondo una rivista a statuto speciale. È la modernità del post: i social mi permettono d’essere editore di me stesso, costruire il mio lifebook. La foto è pubblica già prima di scattarla: è lo sguardo ad essere già proiettato sulla condivisione, cerca il punto di vista più pubblico. Il diario è pubblico già prima di scriverlo. Almeno Virginia Woolf lo ammetteva chiaramente venerdì 8 aprile 1921, 10 minuti alle 11 del mattino: 

E mentre scrivo, sorge in qualche angolo della mia testa la curiosa e assai piacevole sensazione di qualcosa che voglio scrivere; il mio punto di vista. Mi chiedo, però, questa sensazione di scrivere per mezza dozzina di persone invece che per 1500 arriverà a falsarlo? Mi renderà eccentrica? No, non credo. Ma, come ho detto, bisogna affrontare la spregevole vanità che è alla radice di questo perdersi in minuzie e stiracchiature.

 

Per questo i nostri progetti sono così fintamente progettuali, le nostre reti non prendono pesci manco a stare tre notti di seguito all’addiaccio (“fare rete”, non ho mai capito il significato), le associazioni culturali sono fintamente associative e non consociano niente. Il noi è solo tanti io. E magari tra qualche anno i corsi di formazione non saranno soltanto quelli in cui si insegna a scrivere (dunque, a come farsi pubblicare un libro), ma corsi in cui si insegna a leggere, non in pubblico, ma a essere un pubblico. Tra non molto ci sarà sempre più bisogno di pubblici, di attenzione, che di scrittori e editori. Sarà il giorno in cui il numero di pubblicazioni avrà eguagliato il numero di terrestri. Tempo fa un amico artista si lamentava di questo fatto: se tutti siamo attori, finiremo per mettere in scena opere di cui saremo i soli unici fruitori. Chi fa da sé, fa per tre. Cioè per tre like, al massimo. Per tre condivisioni. Sempre in Retrotopia lo ha denunciato Bauman in quello che è una specie di testamento (psico)sociologico.

I fenomeni del «ritorno alle tribù» e del «ritorno al grembo materno» – sono due grandi affluenti del fiume in piena del «ritorno a Hobbes» – sgorgano sostanzialmente dalla stessa fonte: dal terrore del futuro, incorporato nell’imprevedibile, esasperante e incerto presente. E si perdono nello stesso dedalo di vicoli ciechi. Non penso ci siano molte speranze di prosciugarli, a meno di riuscire a bloccare la sorgente da cui nascono, ossia di convincere, o costringere, l’Angelus Novus – l’«angelo della storia» – a voltarsi di nuovo.

 

Anche Paolo Fiore, medico scrittore, ha scritto dell’opera di Klee nel suo ultimo libro, Solo sabbia tranne il nome (Manni), ribadendo che «la vera immagine non è quella che si guarda, ma quella da cui si è guardati, questa è la forza di un’icona». C’è dunque bisogno dell’altro per esistere. Di una immagine, un Doppelganger, come se l’io dovesse comporsi di io altri, di io d’altri. Nel terzo libro delle Metamorfosi, Ovidio narra di Narciso e di sua madre Liriope che si reca dall’indovino Tiresia per avere notizie sul futuro del figlio e l’uomo dai poteri premonitori le rivela che avrebbe vissuto a lungo purché «non riconosca mai se stesso». La vicenda mitologica di Narciso è assai nota, seppure filtrata attraverso letture stereotipate: piuttosto infatti che dire “mi amo così come sono”, il bel cacciatore sembra dire “sono così come mi amo”, riflettendo dunque nella celeberrima acqua non soltanto la bellezza sua propria, ma la bellezza del mondo intero (come spiega in più punti Foucault in La cura di sé). 

 

Nel 2011 uscì un libro di Margaret Mazzantini dal titolo Nessuno si salva da solo e – naturalmente – due anni dopo l’omonimo film di Castellitto. Ho pensato che di per sé la frase ha un duplice significato: Nessuno si salva da solo. Nessuno è Ulisse nel frammento omerico dell’episodio di Polifemo. E la verità è che nemmeno Nessuno si salva da solo. Anche se arriva da solo all’isola dei Feaci. Anche se è l’unico a sopravvivere. Perché proprio i suoi compagni, tutti periti nel viaggio, si sono posti come da scudo davanti alle sue peripezie. Anche a Nessuno lo avevano predetto: «(…) e se pure | tu possa scampare alla morte, tardi e a fatica | farai in patria ritorno, vedrai la tua Itaca, | dopo che tutti avrai perso i compagni» (Odissea, libro XII, vv. 139-142). Ulisse non sarebbe sopravvissuto senza l’altro, senza il compagno, sebbene in una logica molto utilitaristica. Forse il problema è che l’altro è oggi ovunque e non sappiamo bene intercettarlo. Forse Google è l’altro cui chiediamo, pensando di essere abili a cercare, di poterlo fare da soli. L’opera d’arte nell’epoca della sua sostituibilità tecnica. Se Narciso rivivesse, si specchierebbe nella prima pagina dei risultati di Google. S’innamorerebbe del suo stesso algoritmo. Come ebbe modo di scrivere qualche anno fa il giovane poeta Bernardo Pacini, ciascuno si sente «un dante che ha lasciato virgilio/ per google».

 

Ps. Se non mi avessero pubblicato questo pezzo, lo avrei postato comunque sul mio blog.

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