Nonostante il pico del sole
La percezione che ho di questo luglio è diversa da quella dell’anno scorso. Me ne accorgo mentre sto camminando, perché inaspettatamente mi focalizzo su certi elementi fisici che percepisco sul mio corpo. Sono il caldo già familiare, alle tre del pomeriggio nella pianura padana, e il peso sperimentato della mia macchina fotografica che tengo in mano. Queste due costanti mi riportano, passo dopo passo, a un anno fa. Come oggi andavo in giro per le vie periferiche di questa zona a sud di Milano; stessa calura stesso carico sul braccio e allora emerge il ricordo del mio stato d’animo. Guardavo e fotografavo altre cose.
Nei miei scatti per Fotogiornale ora c’è un’altra estate, la seconda. Sì certo, questo stesso mese nel 2013 fu più infuocato, per il caldo mi rifugiai prima in un bar e poi dentro una chiesa.
Stavolta sono da quest’altra sponda del naviglio Pavese, che rimane meno popolare, più residenziale e desolata; non c’è anima viva e per sfuggire al sole le scelte sono due: l’atrio esterno del supermercato, riparato dai portici; o l’ombra degli alberi. A uno di questi c’è appesa una targa, con scritto l’anno in cui fu piantato in concomitanza della nascita di un pargolo e poi i nomi della pianta e dell’ormai giovanotto. Mi chiedo se sia un albero abusivo, messo lì per ispirazione e buona volontà di un residente, insomma fuori da un piano regolatore del verde comunale.
La fila di alberi, anonimi i restanti, si allinea su uno dei lati lunghi di un campo da calcio aperto a tutti, non c’è recinzione. Il campo è fiorito e l’erba rigogliosa: segnali che per il momento nessuno ci va a giocare.
Nonostante il pico del sole (dal dialetto palermitano: sole battente), rinuncio all’ombra degli alberi ed entro in campo.
Non ho con me un pallone, ma la porta esercita un forte potere d’attrazione. Del resto è un’altra estate da campionati mondiali. La sera prima si è giocata la semifinale tra Argentina e Olanda: 4 a 2 per i sudamericani ai tiri di rigore. Mi posiziono d‘impulso e per scherno della squadra perdente, agli undici metri. Immagino che il punto di vista scelto per fare questa foto offra lo stesso campo di visione che, nello stadio strapieno a San Paolo del Brasile, i giocatori osservavano durante l’esecuzione dei loro tiri dal dischetto.
Il resto del pomeriggio lo passo camminando e senza riuscire a fare altre foto. Quando decido di tornare a casa, è quel momento poco prima del crepuscolo; così, prima di scattare un’ultima foto e di prendere un mezzo che mi riporti in centro, aspetto che si accenda il neon della pensilina.
Il fattore comune (per me) di queste fotografie è l’assenza di persone. Ero partito con l’idea di fotografare gente e ho finito col guardare i vuoti.