Note dall’Andalusia

3 Settembre 2012

Trentuno luglio, mattina presto. Sbarcato a Siviglia con la famiglia, mi propongo di trascorrere due settimane in Andalusia. La macchina noleggiata è una Polo che profuma di nuovo. La meta è Cadice, dove la mia figlia più giovane è impegnata in uno stage di cinque settimane presso un gigantesco albergo a quattro stelle.

Ho in mente di completare il tour delle coste atlantiche europee, che negli anni ho percorso dalla Normandia ai Paesi Baschi, dalla Galizia all’Algarve.

Nella valigia ho messo La verità di Agamennone, raccolta di articoli di Javier Cercas uscita da poco; un vecchio romanzo di Paco Ignacio Taibo I sulla guerra civile nelle Asturie, Per fermare le acque dell’oblio, e un altro vecchio libro, Bartleby e compagnia di Enrique Vila-Matas. Conto su questi amati scrittori spagnoli per entrare meglio in sintonia con una terra che non visito da più di vent’anni.

 

Cadice è intasata dai turisti, decidiamo di sistemarci a Porto Santa Maria, sul lato opposto della Baia gaditana. I primi giorni, in attesa di un appartamento con l’indispensabile aria condizionata, ci si piazza all’Hotel Gazpacho, nella periferia di Puerto, un popolare due stelle, frequentatissimo da famiglie spagnole e, nelle ore della doppia colazione iberica, dai lavoratori del quartiere.

La televisione è costantemente sintonizzata sui giochi olimpici, i commenti degli avventori sono sconsolati: ancora non arriva la prima sospirata medalla. La mattina del primo agosto, mentre consumo la mia prima colazione a fianco dei commessi del vicino supermercato Mercadona, alle prese con pane, olio d’oliva e jamòn, secondo pasto della loro giornata, assisto ad una curiosa discussione. Tre operai in salopette blu chiacchierano della cerimonia di apertura dei Giochi col patron dell’hotel; i toni sono seri e misurati, ad un certo punto mi accorgo che stanno parlando degli italiani, sfilati con le tute Armani delle quali ironicamente l’operaio più anziano elogia l’eleganza. Il patron si fa pensieroso, guarda negli occhi i clienti abituali, si esprime con modi civili ma il tono alle mie orecchie risuona severo: troppo lusso, scandisce, così non va bene, gli italiani non cambiano mai.

Esco a fare due passi, l’hotel è attorniato da case popolari, condomini da quattro a sei piani, alcuni con gli intonaci delle facciate malamente scrostati. La stessa insegna dell’hotel si legge a malapena. Ho ancora in mente le cose lette in Italia sulla crisi spagnola e mi accorgo che da quando sono uscito dall’aeroporto di Siviglia non ho fatto altro che cercarne con lo sguardo i segni materiali. Sarà così per tutto il viaggio, non riuscirò ad evitarlo, sarà questo il sottotesto di ogni mia riflessione, come delle foto e degli scambi con la gente, e non farò che ricavarne conferme e smentite, ogni giorno, e spesso nelle stesse occasioni.

Un netturbino sta sparando potentissimi getti d’acqua sui cassonetti dei rifiuti, lavora di buona lena e mi chiedo in quale periferia del sud italiano mi sia già capitato di assistere ad una scena simile. Entro nel cortile interno di un condominio: i panni del bucato stesi dai balconi ad asciugare, le panchine di ferro battuto all’ombra delle bouganville, i bimbi che ritornano dalla spesa con la nonna. Tutto mi segnala lo scorrere civile e dignitoso della vita di qui.

 

 

Prima di decidermi ad affrontare la visita di Cadice, familiarizzo con la baia e la costa a nord, verso Sanlucar de Barrameda e l’estuario del Guadalquivir. Siamo nei dintorni di Jerèz de la Frontera, terra di grandi vini. Percorro chilometri fra i vigneti, visito bodegas e assaggio di tutto. A Sanlucar scopro che il Manzanilla è perfetto per accompagnare il jamòn. A Chipiona, poco distante, che una copa di Fino seco va a nozze coi gamberi, i popolari langostinos, che trovi dappertutto. L’Andalusia comincia a piacermi. Nonostante le urbanizzazioni sulla costa: distese di palazzine per turisti spesso incompiute, dallo stile a tratti delirante. A Puerto Sherry, ho l’impressione che abbiano consegnato le chiavi del cantiere all’architetto, al quale non deve essere sembrato vero potersi sbizzarrire fra new gothic moresco andaluso ma anche californiano tirolese.

 

 

La famosa bolla edilizia spagnola, eccola sotto i nostri occhi: a Rota sono riusciti a costruire anche a ridosso della base navale  NATO. La maggior parte delle case è vuota, dappertutto si legge “Se vende”, “Se alquìla” (si affitta). Penso che anche fra i costruttori spagnoli degli ultimi vent’anni sarebbero stati utili quegli eroi della ritirata di cui scriveva Cercas in Anatomia di un istante.

 

Sulle spiagge noto però una cosa che mi piace davvero: l’assenza degli stabilimenti balneari. Capita così di vedere distese multicolori di ombrelloni privati, come un tempo accadeva anche nel nostro sud. Agli spagnoli la spiaggia piace libera, ci stanno fino alle dieci di sera, si portano da mangiare e in genere lasciano tutto pulito. Il confronto con le abitudini italiane è impietoso.

 

C’è altro, tuttavia, che mi si rivela in quei centri balneari sull’Atlantico: l’ossessione degli spagnoli per il gioco. Cercano di venderti biglietti di infinite lotterie in ogni angolo di strada, ci sono quelli che si piazzano seduti all’ombra con interi carnet ingegnosamente disposti su tavolette di legno, altri si aggirano sconsolati mendicando l’acquisto di qualche biglietto che sventolano fra le mani, la sera si rifanno sotto fra i tavoli dei ristoranti all’aperto. Alla televisione, sulla prima rete nazionale, ogni mezz’ora due giovani piazzisti ridono come idioti mentre martellano gli utenti con la lotteria “El sueňo olimpico”. A farci caso, pare davvero un incubo, e qualcuno di sicuro ci avrà scritto su qualcosa:in tempi di crisi la povera gente si affida alla sorte, eccetera. D’accordo. Ma tutte quelle anziane signore in coda presso gli sportelli del lotto, insomma.

 

 

A Cadice si va spesso ma è un mordi e fuggi, giusto il tempo per mangiare un boccone con la figlia impegnata nello stage. La città è grande e vivace ma ne rimando ancora la visita. Mi riprometto di dedicarle un paio di giorni a fine soggiorno. Prima voglio puntare a sud: mi interessano due luoghi, la punta meridionale del continente europeo, Tarifa, di fronte alle montagne del Marocco, e Capo Trafalgar.

Lungo la strada (a proposito: bellissime le strade andaluse, larghe e ben tenute, da fare invidia al ricco nordest italiano, ci si viaggia che è un piacere), lungo la rotta per il sud - dicevo - operiamo alcune deviazioni verso l’interno: le cittadine di Vejèr de la Frontera e Medina Sidonia ricordano fin dai toponimi la lontana dominazione araba, non tanto nei monumenti, quanto nel bagliore bianco dei muri calcinati, nell’intrico delle viuzze, nella posizione dominante sugli immensi oliveti. Anche qui è arrivato il turismo, in queste antiche roccaforti moresche, ma il ritmo lento della vita con i vecchi riti della piazza e delle panchine all’ombra che attirano gli anziani mi fa tornare in mente le immagini dei film spagnoli degli anni sessanta e settanta: a Bergamo si vedeva anche quel cinema lì, Berlanga, Bardem, Saura, il Ferreri spagnolo…

 

 

Da Tarifa si vede l’Africa a occhio nudo, dal porto animatissimo partono i traghetti per Tangeri; le spiagge ventosissime attirano da tutta Europa gli appassionati di kite-surfing, che sarebbe surfare con indosso mute integrali, imbragati e poi trascinati in aria da coloratissimi aquiloni. Li avevo già visti all’opera in Toscana, dalle parti di Marina di Grosseto, ma qua sono centinaia e riempiono il cielo di fronte all’Africa. Il vento mi spaventa perché soffro di otiti croniche e in più comincio a sentire voci italiane, è la prima volta da quando sono in Spagna, e così scappo via.

 

 

Voglio tornare a Capo Trafalgar, dove siamo passati di sfuggita il giorno prima, quando eravamo andati a Zahara de Los Atunes a caccia della mojama, il fantastico tonno essiccato andaluso, che avevo promesso di fare assaggiare ad un vecchio amico goloso.

Arrivare a Capo Trafalgar con la mente rivolta all’epica battaglia del 1805 in cui la flotta franco-spagnola fu sbaragliata dalle navi inglesi di Nelson, che vi trovò la morte, rischia di deludere un po’. Dagli anni ’70 vi si è insediata una comunità di fricchettoni, che hanno dato origine ad una vera e propria cittadina turistica, Caňos de Meca, per cui il luogo appare ai miei occhi simili a molti altri posti tipici del vagabondaggio alternativo internazionale: botteghe di indianerie e marocchinerie sulla spiaggia, ristoranti carini e gelaterie italiane, troppa gente in giro nuda fra dune e scogli. Il promontorio vero e proprio, poi, è una sottile lingua di terra dominata da un faro e si fatica davvero a pensare che proprio in quelle acque si sia spento il sogno napoleonico di sconfiggere la flotta inglese.

 

 

La sera prima della visita “ufficiale” a Cadice, sono a casa e affetto la mojama per la mia famiglia e le amiche di mia figlia. Alla televisione spagnola scorrono le immagini di un episodio che mi ha molto colpito e che non so quanto sia stato raccontato in quei giorni in Italia: mi riferisco all’assalto ai supermercati di Arcos de la Frontera e di Ecija, due paesini andalusi non lontani da Siviglia. Le telecamere interne della catena Mercadona avevano ripreso tutto: ho visto gente uscire di corsa con i carrelli stracolmi di spesa, spintonare commessi e cassieri (che indossavano le stesse uniformi a righine dei miei commensali dell’Hotel Gazpacho di Puerto Santa Maria) e poi ritrovarsi in strada a festeggiare. Pare fossero braccianti che da settimane occupano terre di proprietà del Ministero della Difesa e che fossero guidati da un sindaco della zona, nonché deputato di Izquierda Unida, Juan Manuel Sanchez Gordillo, subito ribattezzato dai media il Robin Hood spagnolo.

Ho provato a immaginare cosa sarebbe successo in Italia in un caso simile ma poi m’è venuto in mente che da noi l’estrema sinistra non è rappresentata in Parlamento. E ho finito di condire il tonno per i nostri ospiti.

 

A Cadice si festeggia quest’anno il bicentenario della storica Costituzione del 1812, votata nella città durante l’assedio delle truppe napoleoniche e considerata la carta fondante del liberalismo ispano-americano: c’è un sito italiano che vi ha dedicato una serie accurata di articoli. Ricordo quante volte, negli ultimi trent’anni, m’è capitato di farvi cenno a scuola durante le lezioni di storia: i moti di Napoli e Palermo del 1820-21, gli ufficiali borbonici e poi piemontesi che guardavano a Cadice come a un faro di libertà… Gli spagnoli la chiamano “La Pepa”, perché è stata approvata il giorno di San Giuseppe, e scoprire questo dettaglio, devo dire, quel nomignolo così familiare e affettuoso, all’inizio m’ha dato un po’ fastidio. Poi, però, ho cambiato idea, soprattutto dopo aver visitato la mostra interattiva ospitata nell’Oratorio di San Felipe Neri, dove fu approvata la Carta. È una piccola mostra allegra e ne sono uscito pieno di simpatia per chi, di sicuro con scarsi mezzi, ha dovuto allestirla.

Certo nel 1912, per il primo centenario, si fecero le cose più in grande, come testimonia il grandioso monumento di Plaza de Espaňa.  

 

 

Ma i tempi sono cambiati e anche da noi l’anno scorso, per i 150 anni dell’Unità, soldi da spendere ce n’erano davvero pochi. Così, fa tenerezza la rilettura fumettistica dell’affresco retorico commissionato dalla corona un secolo fa.

 

 

Cadice è una città bellissima, nonostante il cemento della periferia e i cantieri navali chiusi: fondata dai Fenici tremila anni fa è forse la più antica dell’intero occidente e i segni del tempo vi sono ben conservati. Ma soprattutto è stata la città forse più aperta e tollerante di Spagna nei secoli bui dei re cattolicissimi, per il buon motivo che qui, un po’ come a Venezia, erano tutti commercianti e marinai. E anche questo ce la rende cara. Da qui partì Colombo per le Americhe, nella seconda e nella quarta spedizione, ma - come ci ha insegnato Altan - guai a chiamarlo col nome italiano: per tutti i gaditani lo scopritore delle Americhe è Cristóbal Colón, il cui venerato sepolcro è meta di un notevole flusso di visitatori all’interno della mastodontica e per certi versi inquietante Cattedrale di Siviglia.

 

 

Per tornare a Cadice, e chiudere queste note forse troppo lunghe, aggiungerò che dalla Torre Tavira si può vedere tutta la città: è una meraviglia che voglio condividere; che la sera, nei pressi della Caleta, la spiaggetta delle famiglie gaditane, si possono mangiare le puntillitas, i deliziosi, minuscoli calamaretti fritti (da noi ormai introvabili) che vanno accompagnati dal Barbadillo, il bianco secco e leggero di Cadice; che anche qui si incontrano italiani al lavoro nelle pizzerie, che si lamentano come da noi della crisi, ma tengono duro per pagare gli studi dei figli all’estero o per aiutarli ad emigrare, a loro volta, in cerca di fortuna.

 

L’ultima sera, in cerca di un buon caffè, ho incontrato un nostro connazionale, gestore di una piccola pizzeria. Era ora di chiusura, le sedie già rovesciate sui tavoli per le pulizie: il tipo era al telefono col figlio, sentivo la parlata inconfondibile del pugliese. Con gli occhi lucidi, tutto sudato, m’ha servito un caffè buonissimo e non ha accettato i miei soldi. Fuori, nella piccola incantevole piazzetta, il nostro saluto all’Andalusia.

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