Paolo e Vittorio Taviani. Cesare deve morire

7 Marzo 2012

I grandi classici avevano incontrato la camorra dieci anni prima che i fratelli Taviani portassero Shakespeare nel braccio Alta Sicurezza del carcere di Rebibbia, dove di camorra se ne respira parecchia.

Si trattava dell’Orestea di Eschilo (già tradotta da Pier Paolo Pasolini per Vittorio Gassman - XVI ciclo delle Rappresentazioni Classiche, 1960) e Antonio Capuano usava il testo classico per raccontare la tragedia, ascesa e soprattutto caduta, della famiglia dei Cammarano in epoca contemporanea. Un film dove Oreste parlava napoletano, Clitemnestra aveva il volto di Licia Maglietta, Agamennone quello di Toni Servillo ed Egisto quello di un immenso Antonino Iurio.

Riuscito o meno che fosse, il film era potente, duro come quasi tutto il cinema di Antonio Capuano. E Luna Rossa non faceva eccezione: deflagrava e turbava.

Questo Shakespeare dei fratelli Taviani ha la stessa forza deflagrante, al di là qualche limite, primo fra tutti quello di far rimpiangere la “cattiveria” di Capuano.

 

 

Fabio Cavalli, nobile regista teatrale che opera nelle carceri con uno spirito necessariamente missionario, allestisce un nuovo corso di teatro che deve portare all’allestimento del Giulio Cesare, opera shakespeariana datata 1599. Vediamo un folto gruppo di detenuti che più o meno timidamente partecipa alla presentazione dell’evento. Già lì, tutti ammassati che ascoltano Cavalli raccontare un’idea, fanno uno strano effetto, corpi sgraziati, segnati, duri, cupi, guardinghi, tutti attenti e quasi intimiditi. Si ha da subito l’impressione di guardare un’umanità altra, lontana.

Fanno seguito dei provini per la scelta degli interpreti principali: sequenza di volti che vuole essere – ed inizialmente ci riesce – forte come uno schiaffo che non ti aspetti, ma che per eccesso di lunghezza scivola un po’ nella noia. Il bianco e nero sgrana i volti segnati come carte geografiche di territori sconosciuti, le voci tuonano echeggiando nelle stanze di cemento.

 

Subito dopo il gruppo è scelto, gli attori principali selezionati: Cesare, Bruto e Cassio sorridono timidi in camera, con la vergogna di un entusiasmo che faticano a mostrare.

Quasi come un monito ad affezionarsi ma non troppo, didascalie veloci ci raccontano, senza violarne troppo il privato, perché questi uomini sono lì e per quanto ancora dovranno starci. Cassio è un “fine pena mai”, per omicidio, evidentemente plurimo o con aggravanti. Informazione che si fatica a mettere da parte per tutto il film e che traspare con l’evidenza della colpa sul suo volto dolente, triste eppure intenso e brillante, di un’intelligenza talmente pura che in ogni singolo momento in cui calca la scena si soffre di una partecipazione e di un conflitto emotivo che, già di per sé, fanno di questo film un’esperienza interattiva rara.

 

 

Cassio, alias Cosimo Rega, e Bruto, alias Sasà Striano, sono l’anima e il corpo di questo film.

I fratelli Taviani non hanno dovuto fare molto, il più l’hanno fatto avendo l’idea. Il resto è un meccanismo innescato che ha dalla sua una potenza senza cedimenti: il braccio di Alta Sicurezza di Rebibbia, Shakespeare e i carcerati, i colpevoli, gli assassini, i traditori, gli uomini reietti e rifiutati che nessuno vuole vedere, che nessuno vuole amare o tantomeno capire. Una miscela fatale che può mettere alla prova qualsiasi resistenza, un incontro perfetto perché il Giulio Cesare è più di altre l’opera dell’amicizia tradita, del potere, della libertà, dei rapporti umani spezzati. Chi meglio di un uomo che si porta sulle spalle il tradimento, la vita interrotta, la libertà perduta, che ha nel proprio passato vissuto un potere che lo ha traviato e destinato a rendersi colpevole, può incontrare nella congiura delle idi di marzo il proprio testo d’elezione?

 

I Taviani mettono in scena una catarsi e lo fanno nel modo cinematograficamente più classico: apertura e chiusura sulla stessa scena, uso didascalico ma funzionale del colore e di un bellissimo bianco e nero, che ci salva dal rischio neorealista televisivo delle riprese in interno carcerario, e ambientazione dell’opera nei luoghi del carcere. Non c’è confine né soluzione di continuità tra l’opera e la vita: si fondono, sono la stessa cosa e l’opera prende vita nei corridoi, nel cortile durante l’ora d’aria, nella cella mentre si guarda il soffitto, nella biblioteca del carcere o mentre si lava un pavimento.

 

 

I carcerati parlano Shakespeare e Shakespeare parla per loro, tant’è che si sceglie di lasciarlo declamare nel dialetto di origine, in modo che ognuno possa farlo proprio e non sentirlo distante.

E qui s’insinua il vero limite del film, che pecca di retorica in due scelte stonate. La prima è quella di inserire il privato degli attori carcerati, scelta che allontana, distrae e non è necessaria: l’opera parla per loro molto più di quanto loro stessi riescano a fare. La seconda è quella di mettere in bocca a Cassio una frase dalla retorica a dir poco disturbante: “da quando ho conosciuto l’arte questa cella è diventata una prigione”. Eccesso di enfasi inutile per un film che nei suoi essenziali 76 minuti il concetto l’aveva espresso molto bene e in termini già ridondanti. La sottolineatura per lo spettatore che non se la merita davvero stona e infastidisce.

Un po’ di ruvidezza e di coraggiosa sgradevolezza sarebbe stata più apprezzata.

 

Resta la potenza delle immagini, delle parole, dei volti e dei corpi. Resta la forza di un’idea nobile e non priva di coraggio. Resta un gran bel film, meritevole e nobile, ma certamente non il capolavoro strombazzato da una stampa faziosa con l’unico scopo di glorificare un intero cinema nazionale.

 

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