Valérie Donzelli. La guerra è dichiarata

6 Giugno 2012

La guerra è dichiarata. Un titolo, un assunto: trattenete il respiro, serrate i pugni, spalancate le orecchie, assolutamente non chiudete gli occhi e gettatevi in questo film che, per una volta, è perfettamente rappresentato da quel manifesto rosa shocking con una coppia che gira su una giostra del luna park, bocca spalancata e un urlo liberatorio nella gola.

Valérie Donzelli e Jérémie Elkaïm hanno scritto, interpretato e diretto, lei, la storia che ha segnato il loro passato più recente, la storia della malattia di un figlio al quale, a soli diciotto mesi, viene diagnosticato un tumore al cervello. Hanno archetipicamente chiamato i propri personaggi Romeo e Juliette, il figlio Adam e hanno raccontato un viaggio nell’inferno personale che ciascun genitore potrà riconoscere come il peggiore degli incubi.

Paura? No: il risultato è un film sorprendente, assolutamente unico, un’esperienza esistenziale più che una visione cinematografica tout court, un film paradossale e mai tragico. Perché se c’è una cosa che questo film non fa mai è speculare sulla tragedia o essere minimamente sadico: Adam si salva e si capisce subito. Donzelli non tiene lo spettatore in sospeso, non lo fa temere o tribolare: della vita e della propria storia personale salva solo il buono, il positivo, il buffo, regalandoci un’ora e mezzo di preziosissima energia.

 

 

Il male c’è, è lì: visite mediche, analisi specialistiche, chirurghi, infermieri, letti e lettini, più della metà del film si svolge all’interno di corsie e stanze d’ospedale. Nulla è nascosto, tutto è guardato in faccia, deriso, affrontato, preso a schiaffi. A volte si soccombe ma sempre ci si rialza perché se c’è una cosa che a questi protagonisti non manca è l’amore: rischiamo di sembrare retorici, cosa che gli autori non sono mai, ma è proprio così. Romeo e Juliette sono innanzitutto molto amati, da genitori, amici, parenti, famiglie più o meno convenzionali ma, quel che più conta, unite, Romeo e Juliette si amano e amano il proprio figlio ma, cosa più forte di tutto, amano loro stessi, si vogliono bene, si prendono cura anche del proprio dolore, lo ascoltano e lo rendono partecipe di una vita che non smette mai di chiedere. E allora non si smette di uscire, di divertirsi, di andare a correre nel parco, di ubriacarsi con gli amici, di fare battute ciniche, di avere delle derive erotiche, di ridere, di fare stupidi elenchi che provocano attacchi di riso incontenibile, di andare sulla spiaggia e di voler vedere il mare. Non si smette mai di essere vivi in questo film e in questa storia, non si cede mai il passo al dolore e alla tragedia, si tiene sempre la testa alta e non per essere ottusamente “speranzosi” ma per essere testardamente presenti a se stessi e a quanto di meravigliosamente imprevedibile, buffo e bello ogni giorno può offrire come sostegno alla lotta, alla guerra.

 

 

Non ci sono parole che riescano ad essere così poco retoriche e prevedibili quanto riesce ad esserlo questo film. Donzelli ed Elkaïm hanno fatto del loro personale percorso catartico, che per loro passa necessariamente per quello che conoscono meglio ovvero il cinema, un condensato di dialoghi unici per verità ed intelligenza. Donzelli ha scelto una mise en scène inclassificabile che mescola momenti di duro realismo a sequenze da musical dove lavora sull’armonia musicale del movimento di coppia, perfettamente sincronizzato: Romeo e Juliette sono sintonizzati, si muovono all’unisono e creano coreografie piene di humor, sembrano un piccolo esercito della salvezza che conosce i passi, le mosse e gli strumenti di una sopravvivenza che passa, necessariamente, per la coesione, l’ironia e la dolcezza.

E se ha qualche difetto questo film è proprio la sua inclassificabilità, che è poi anche il suo immenso pregio, perché è uno di quei film che riconcilia con il mondo e anche con il cinema che può, ancora e sempre, essere uno strumento meraviglioso, che cambia la vita e la migliora.

 

 

In Francia il film è stato un piccolo fenomeno anche di pubblico. Speriamo che lo sia anche nell’Italia della testa sotto la sabbia dove d’habitude di drammi, di bambini malati, di sofferenza non si vuole sentir parlare, se non coi toni finti ed enfatici da polpettone americano, nell’incapacità di concepire un modo “altro” di guardare alla vita, di uscire dal classificato e dal noto, di provare ad essere estemporanei, bizzarri, divertenti, di imparare che ci si può salvare in tanti modi e che ce n’è sempre uno che non abbiamo ancora imparato. Tipo andare al cinema pensando di vedere un dramma ed uscirne radiosi, sorridenti, positivi, pieni di energia, di musica e di colore.

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