Letto in un’altra lingua / Philippe Sollers, Femmes

21 Aprile 2018

Che cos’è un refrattario? Soltanto le autorità ne conoscerebbero l’esatta definizione secondo lo scrittore e logico russo Aleksandr Zinov’ev, che tentava di darne comunque una personale interpretazione: «Un refrattario è un ibanese che ha la sfacciataggine di esprimere pubblicamente un’opinione non conforme a quella delle autorità, a quella cioè di tutto il popolo ibanese, giacché le autorità non fanno che esprimere i pensieri e le aspettative del popolo ibanese». Va detto però che di refrattari ne esistono pochi, ed essi vengono continuamente stigmatizzati dal popolo; tuttavia ne compaiono sempre, e non si capisce da dove saltino fuori. Se ne vanno sbraitando per l’intero paese, denunciando le menzogne del potere costituito. «Così accade anche a me» dichiarava Zinov’ev in Appunti di un guardiano notturno (Adelphi, 1983); così accadrebbe anche a Philippe Sollers (1936), uno dei più prolifici e discussi autori francesi contemporanei. In Portrait des femmes (Flammarion, 2013) lo scrittore, critico letterario e fondatore di riviste quali Tel Quel e L’Infini, scrive: «Supponiamo un refrattario di nascita. Molto presto egli sarà cosciente di una falsificazione massiva. La sua famiglia è un montaggio aleatorio, il suo paese una favola, la scuola una prigione di futuri cadaveri, l’esercito una commedia penosa, la religione, qualunque essa sia, un oppio di pessima qualità». Tutto ciò che il refrattario capterà attorno a lui non farà che aumentare i suoi dubbi, afferma Sollers, e questo gli permetterà di cogliere il vero edificio sul quale si fonda il regno in cui vive: una profonda stupidità. E più gli verrà chiesto di fare l’uomo più egli avrà voglia di fare il contrario: perché il refrattario di nascita, promesso a una carriera d’uomo, ha reperito velocemente una fessura in quel bel programma mortale. Qualche cosa che gli fa segno da un angolo abbandonato: le donne. 

 

 

Difatti Philippe Sollers considera che l’osservazione del sesso presunto debole sarebbe la chiave di volta per comprendere la storia sotterranea, quella storia che si scrive da sempre. Ma questa centralità della figura femminile nella sua poetica e nel suo impianto romanzesco s’impone solamente a partire dai primi anni ’80, quando per Sollers la politica si metamorfizza in estetica, e il suo sguardo si concentra attorno alla questione dell’erotismo e della sessualità. In questo senso risulta centrale Femmes (Gallimard, 1983), vero punto di rottura nella narrativa sollersiana, opera che viene dopo gli esperimenti di écriture textuelle quali Drames (Seuil, 1965) e Nombres (Seuil, 1968), l’insurrezione del linguaggio di Lois (Seuil, 1972) e H (Seuil, 1973) e la qûete dantesca priva di punteggiatura di Paradis (Seuil, 1981). Femmes esprime un ritrovamento, un ricongiungimento con l’arte romanzesca nella sua dimensione dialogica, nella sua ambizione narrativa e nella sua necessità figurativa. Così, dopo Femmes un nuovo spazio di finzione e di pensiero si apre e s’impone, riprendendo una certa visione precedente, senza rinnegarla, ma ampliandola; visione attraverso la quale si sviluppa e si coglie l’impresa poetica globale di Sollers, da lui condotta fin dal suo romanzo d’esordio del 1958 (Une curieuse solitude): una certa percezione del tempo perpetuamente ritrovato dell’esperienza estetica, una concezione dell’artista come eccezione, vissuta opponendosi a tutte le forme di negazione del discorso ideologico e sociale; un’idea forte del romanzo, inteso come lo spazio conflittuale in cui si parla la parola nel rifiuto delle lingue imparate

 

 

A ben vedere, il progetto letterario sollersiano s’impone come uno spazio conflittuale, nel quale ogni singola opera rappresenta un vero e proprio terreno di battaglia, per dirla con Calvino; si tratta di una scrittura che con forza e insistenza intende mettere in discussione la scala dei valori e il codice dei significati stabiliti. A tal proposito, Sollers stesso affermava in un saggio del 2006 intitolato Logique de la fiction: «A cosa serve parlare di letteratura, di scrittura, se dietro questa parola non si producono gli effetti più fisici?». Perché in fondo non desideriamo, infantilmente, che ci vengano raccontate delle storie, «ma vogliamo forse aprire gli occhi, rischiando di accecarci», con la consapevolezza, secondo Sollers, che una tale attività è e deve essere colpevole in relazione alle storie e ai miti dominanti.

 

Ogni scrittura allora deve immergersi nelle aporie, per cercare in esse il luogo da cui partire per scuotere l’edificio delle rappresentazioni ordinarie della realtà. E agli occhi di Sollers, il romanzo, la letteratura, la scrittura, devono sempre uscire dall’ordinario. La questione che si pone a questo punto è: come uscire dall’ordinario? Nell’opera dell’autore francese la clandestinità, la dissidenza e il libertinaggio servono a fare appunto da scarto rispetto alla regola. In particolare il libertinaggio si organizza in Sollers, come in Ovidio, attorno a una attraversata ironica della società, nelle acque torbide dell’ideologia repressiva e regressiva impiegata dal potere. Ed è qui che s’installa lo scarto intellettuale, che investe ipso-facto l’artista come spirito-libero che disinnesca le istanze di controllo. Ma il libertinaggio non è solo dissidenza politica. Al suo interno si pone anche la questione primordiale della donna. Del suo ruolo e posizionamento all’interno della società. Ma questo significa toccare delle vene scoperte, come ha sottolineato Pierre Marlière nel saggio Variations sur le libertinage. Ovide et Sollers (Gallimard, 2014): «Ogni scrittore che si applichi, nelle sue opere, a sconvolgere le rappresentazioni idealizzate della donna attraverso i secoli, punta il dito su uno degli argomenti più sensibili. In effetti il “gentil sesso” si ritrova all’incrocio tra tensioni e feroci questioni di potere» (p. 46).  

 

In Femmes Philippe Sollers mette in scena dei libertini e delle libertine, che come elettroni liberi penetrano la camera oscura delle mutazioni moderne, interrogando senza sosta il senso della nuova geografia amorosa, sessuale e sociale post-sessantottina. Qui il narratore, Will, un giornalista americano, ha il compito smisurato di esplorare questo nuovo continente e il libro risulta alla fine una sorta di ecografia letteraria dei cambiamenti e del grado di assoggettamento nel quale si ritrovano nuovamente le donne. Sì, perché se le donne si erano riappropriate dei loro corpi (in particolare in seguito all’invenzione della pillola contracettiva, legalizzata in Francia nel 1967), la società del consumo ha fatto di quei corpi lo strumento di una nuova ideologia: quella del mercato, sacrificandoli così in nome di un principio normativo di godimento e di redditività edonista. Questa riappropriazione, insomma, è stata rapidamente accompagnata da una de-possessione individuale, perché come sosteneva il filosofo Jean Baudrillard, «bisognava liberare e emancipare il corpo per poterlo sfruttare razionalmente per fini produttivi». Se il sistema patriarcale è crollato, l’ideale femminile come alienazione del soggetto e del suo corpo è sopravvissuto. Solo che ha cambiato veste. 

 

 

Will avrà a che fare, lungo la pantagruelica narrazione sollersiana (667 pp.), con delle donne molto diverse tra loro, più o meno libere. Kate per esempio: donna in apparenza autosufficiente e libera dall’influenza degli uomini, è invece infeudata dal diktat della forma e dell’apparenza, prigioniera di un sistema di vasi chiusi, che «pensa continuamente, ma non vede niente, non sa niente». Come una specie di Sisifo, cui il problema fondamentale (libertà e emancipazione femminile) ricade continuamente e contraddittoriamente addosso. Kate è vettore di numerosi stereotipi, ma allo stesso tempo personaggio sofferente, alienato, che tenta nonostante tutto di resistere a questa nuova de-possessione. Ysia invece è la contraddizione di Kate: un’esistenza singolare e un corpo libero. La sua bellezza è al di sopra del suo fisico squisito. Tutto in lei parla silenziosamente. E al narratore fa venire in mente Baudelaire: «À l’âme en secret / Sa douce langue natale». Ciò che traspare è che Sollers sembra propendere per l’unicità del soggetto, che sia maschile o femminile. Per la singolarità dell’individuo, dietro il quale si cela la società consumista che intende eliminare quella singolarità per farne una massa di parassiti inetti. Per rendere uguale il diverso. Ed è qui che s’inserisce l’artista; è qui che inizia il suo lavoro: quello di smascheramento (si veda a proposito un altro romanzo di Sollers, Les Voyageurs du Temps, Gallimard, 2009. Qui in particolare l’autore divide la società nietzscheanamente in parassiti e bestie; un rapporto patologico nel quale la bestia rappresenterebbe proprio l’artista, continuamente attaccato dalle mosche velenose che si gettano sul «creatore, strappandolo alla sua solitudine grande»). 

 

Femmes è stato accusato in Francia di essere un romanzo misogino. Pierre Marlière e Philippe Forest, al contrario, parlano di un elogio della donna (ma non di tutte). Di un romanzo che si pone come una crociata libertina contro un ideale femminile alienante. «J’écris une apologie des femmes, bien sur. Des unes-femmes» dichiarava Sollers stesso a proposito del libro. Un’ apologia delle donne lontane dalla catena di montaggio del pensiero comune, delle donne che come epifanie compaiono furtive nell’esistenza di Will; e di Sollers, se ci spostiamo verso Portrait des femmes del 2013 (esattamente trent’anni più tardi; un caso?). 

 

«Avete una madre, delle sorelle, delle zie: cominciate da loro. Portandole dalla vostra parte». Si chiude così il primo capitolo del libro, che non è un romanzo e nemmeno un saggio, ma una sorta di ritratto di Sollers stesso attraverso le epifanie della sua esistenza. Un ritratto di una serie di figure libertine, dissidenti. Refrattarie. Ma anche un ritratto di quel romanzo del 1983, Femmes appunto, le cui protagoniste, o meglio, alcune di esse, ritroviamo in questo testo con il loro vero nome. Se lo stile appare profondamente mutato (viene abbandonata la scrittura celiniana di Femmes, caratterizzata da un uso compulsivo dei punti di sospensione) il messaggio polemico e l’attitudine provocatoria non sembrano essersi smorzati col passare del tempo. Tra i ritratti più coinvolgenti sicuramente quello di Eugenia (Flora in Femmes), anarchica spagnola che ha iniziato Sollers ai piaceri di un’ars amatoria libera e senza complessi, ma anche all’opera di Picasso; oppure quello di Dominique Rolin, scrittrice belga con il quale l’autore ha intrattenuto una relazione semi-clandestina per circa cinquant’anni (sono state pubblicate nel 2017 da Gallimard le Lettres à Dominique Rolin, ovviamente di Philippe Sollers); o ancora il ritratto di Julia Kristeva (Deb in Femmes), scrittrice, filologa, psicanalista, nonché moglie di Sollers: «Viviamo un’altra vita. Un altro romanzo». Ma ricompaiono in questo testo anche alcune protagoniste di altri romanzi sollersiani (Viva di Voyageurs du temps, Lucie di L’Eclarcie, o ancora Marion di Studio); oltre alle numerose prostitute dei bordelli parigini, perché «la mia riconoscenza le accompagna, la loro umanità mi impressiona». Appare chiaro, insomma, che gli uomini hanno sempre annoiato Sollers, che non ha mai avuto eroi, ma solo eroine. Ed è questo il principio fondatore di una specie di dandysmo sollersiano, definizione che si deve alla giornalista di France Inter Laurence Garcia. 

 

In Portrait des femmes a un certo punto leggiamo: «Le ho incontrate queste artiste della vita, tutti i miei romanzi parlano di loro. Sono riconoscibili dal fatto che hanno dovuto superare delle situazioni difficili e delle tonnellate di pregiudizi. Conoscono il nero, amano il blu. Una sorta di gaia scienza le accompagna. A loro devo molto». Viene da chiedersi se non siano state loro, le donne, a portare il refrattario dalla loro parte e liberarlo dal bel programma mortale. Perché finalmente, parafrasando la madre di Sollers (cfr. Portrait des femmes, p. 15), con loro almeno è chiaro: «Les hommes n’ont aucune importance». 

 

La traduzione delle citazioni è di Roberto Lapia.

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