Intanto il gatto di Schrödinger è morto / Pierre Bayard, Il existe d’autres mondes

4 Luglio 2018

«Biforcazione: separazione, nella Storia o in una vita individuale, tra più percorsi possibili. A ogni biforcazione nascono universi differenti» (Il existe d’autres mondes, Minuit, 2014, p. 153). Potremmo affermare che la biforcazione intrapresa da Pierre Bayard, quella della finzione teorica, dà vita a un universo alternativo che tenta di infrangere quella linea di demarcazione che da sempre separa la teoria dalla finzione. Questo modello ibrido ricompone la frattura tra due istanze in apparenza dicotomiche, mettendo a punto un mélange inestricabile che nasce nel momento in cui il narratore impone un’enunciazione in prima persona. Bayard, professore di letteratura francese all’Università di Parigi VIII e psicanalista, considera tale approccio fondamentale per rimettere il soggetto al centro delle discipline scientifiche, precisando, durante un intervento al Collège de France (11 maggio 2017), che «non ci sono parti di finzione nel libro teorico. È il narratore che è fittizio. È un personaggio che prende la parola e destabilizza l’enunciazione classica dei testi teorici o a carattere scientifico. E si tratta anche di prendersi un po’ meno sul serio». È un’esperienza intellettuale nuova quella della finzione teorica, che fa emergere alcuni elementi del testo che «altrimenti sarebbero rimasti nascosti». Si tratta in pratica di «dare forma all’inconscio, alla follia e al bambino che è in me» pur restando ancorato al suo ruolo di accademico e di teorico della letteratura. 

 

 

I vantaggi della finzione teorica sarebbero dei testi mobili, molteplici, più adatti a esprimere la pluralità di voci e la complessità del tempo, un approccio che consentirebbe insomma di abbandonare definitivamente l’enunciazione cartesiana. Il testo liminare in tal senso è stato Paradoxe du menteur (Minuit, 1993), libro che apre una lunga serie di peregrinazioni letterarie attraverso le quali Bayard ci racconterà, tra le altre cose, di opere che hanno cambiato autore, dell’impunità del reale assassino di Roger Akroyd, o ancora del Titanic che non è naufragato, diventando un vero e proprio caso editoriale nel 2007 con Comment parler des livres que l’on n’a pas lu? (Come parlare di un libro senza averlo mai letto?, Excelsior 1881, 2012). In questo corpus sui generis, simposio di ironia, idiosincrasia ed erudizione, si colloca Il existe d’autres mondes, testo del 2014 nel quale il narratore «non sta solamente scrivendo questo libro, ma sta anche dirigendo un’orchestra sinfonica, portando avanti un’indagine a Scotland Yard e facendo l’amore con una star del cinema». Qui Pierre Bayard decide di focalizzare il suo sguardo attorno alla teoria degli universi paralleli, teoria presa in considerazione da numerosi scrittori, ma che non ha mai attirato l’attenzione delle scienze umane, e Bayard intende colmare questa lacuna. Tale ipotesi si è sviluppata storicamente seguendo due linee possibili, quella della scienza e quella della fantascienza: il libro di Bayard tenta di far dialogare questi due campi disciplinari – scienza e letteratura – situandosi nel loro punto d’incontro. 

 

 

Nella prima parte del libro Bayard ritorna sulla storia della teoria; scopriamo così che l’idea degli universi paralleli esisterebbe da sempre nell’immaginazione degli esseri umani, ma è solo all’inizio del XX° secolo che l’ipotesi scientifica trova fondamento, grazie alla teoria dei quanti: particelle che, quando non vengono osservate, sembrano avere la capacità di situarsi simultaneamente in più punti. L’esperimento che viene considerato fondatore della teoria degli universi paralleli è l’esperienza del gatto di Schrödinger (1935). Un gatto viene chiuso in una scatola con un elemento radioattivo, cui è collegato un contatore Geiger legato a sua volta ad un sistema elettrico che può liberare un gas mortale non appena la radioattività viene rilevata. L’esperimento dura circa un minuto, e c’è una possibilità su due che il gatto muoia asfissiato: «La radioattività è un fenomeno quantico: fintanto che l’osservazione non ha avuto luogo l’atomo si trova contemporaneamente in due stati, quindi è sia intatto che decaduto. Legando il meccanismo al gatto questo fa sì che l’animale, finché non si apre la scatola, è sia vivo che morto» (Il existe d’autres mondes, op. cit., p. 24).

 

Non si tratta di un’incertezza del pensiero quella che descrive Schrödinger: il gatto non è o vivo o morto. È vivo e morto, perché partecipa alle due possibilità allo stesso tempo, condizioni che non sono contraddittorie ma sovrapposte. Ci troviamo quindi in uno stato mentale nuovo, che è quello della sovrapposizione, anche se l’incertezza non è stata dissipata del tutto: «Non sono sicuro che il lettore abbia capito bene quello che ho appena spiegato, e nemmeno io sono tanto sicuro di averlo capito perfettamente. Ma la lezione che abbiamo imparato è più importante dell’esperienza in sé» (p. 25).

 

Questa teoria, in apparenza paradossale, rivoluzionò la fisica e venne ulteriormente sviluppata a partire dagli anni ’50 tra gli altri dai fisici Everett, Wheller e DeWitt. Quest’ultimo in particolare, parlava, riferendosi all’esperimento del gatto, di due possibili alternative che si realizzano entrambe, ma un osservatore può coglierne solamente una, perché egli stesso fa parte di uno dei due stati possibili dell’universo. L’idea di DeWitt è che tutti gli universi si realizzano, ed il numero di biforcazioni è gigantesco: tutte le possibilità che si sono offerte a noi in un dato momento si sono realizzate in mondi differenti. Ma la domanda è: dove si situano? «Qui!» spiega Bayard, nello stesso luogo nel quale si situa l’universo in cui viviamo. Ma essi non possono interagire tra loro, perché, come affermava Steven Weinberg, «esistono attorno a noi centinaia di onde radio, ma possiamo sintonizzarci solamente su una frequenza alla volta» (p. 27). Queste varianti, secondo Pierre Bayard, ci invitano a rompere con la rappresentazione comune secondo la quale noi abiteremmo un mondo unico, e ci portano verso il postulato dei mondi plurimi: «Se prima l’idea degli universi paralleli era considerata un’illusione, oggi grazie ad un rovesciamento epistemologico, è l’idea di un solo mondo ad essere considerata fuorviante» (p. 28).

 

Nel cosmo letterario, i primi ad occuparsi della questione dei mondi paralleli sono stati gli autori di fantascienza, non solo a causa del carattere seduttivo di tale ipotesi, ma soprattutto in quanto essa offre una soluzione ad un problema fondamentale per la fantascienza: i viaggi nel tempo. Un autore che, secondo Bayard, ha saputo formulare in maniera chiara e netta il paradosso principale connesso ai viaggi temporali è stato René Barjavel, in particolare nel romanzo Le Voyageur imprudent del 1944 (Il Viaggiatore imprudente, Garzanti, 1999). Il protagonista, un giovane matematico di nome Pierre Saint-Menoux, inizia a viaggiare nel tempo per comprendere se è possibile deviare il corso della Storia; decide così di uccidere Bonaparte durante l’assedio di Tolone del 1793. Il suo progetto fallisce all’ultimo momento: uno dei soldati si butta davanti al futuro imperatore per proteggerlo e rimane ucciso dal proiettile sparato dal matematico. Solo che il soldato porta anch’egli il nome di Saint-Menoux, ed è uno dei suo antenati. Cosa succede allora? Che Saint-Menoux non può ritornare nella sua epoca, perché non esiste più. 

 

Si trattava però di un finale che non convinse appieno nemmeno lo stesso Barjavel. Così nel 1958, in una postfazione alla propria opera, l’autore apriva nuovi spiragli: «Non è in maniera alternativa che Saint-Menoux esiste e non esiste. È al tempo stesso. […] Essere o non essere?, si chiedeva Amleto. Essere e non essere, replica Saint-Menoux» (p. 34). Saint-Menoux, come il gatto di Schrödinger, può esistere e non esistere contemporaneamente, a condizione ovviamente che questo non accada nello stesso universo. Ciò che emerge qui è che i paradossi temporali si possono risolvere solamente modificando la nostra rappresentazione dello spazio. In pratica l’universo nel quale viviamo è in divisione permanente, e ogni universo generato da una biforcazione delle nostre esistenze continua ad esistere in un’altra dimensione. 

 

 

Nella seconda parte di Il existe d’autres mondes Pierre Bayard tenta di sviluppare quella che lui chiama una «topologia degli universi paralleli»: per capire come passiamo da un universo a un altro, e per mostrare in che modo questi mondi altri si manifestano nel nostro. Lo fa servendosi di alcuni testi della narrativa contemporanea, tirando in ballo tra gli altri Haruki Murakami e Frederik Pohl. Il libro di Murakami 1Q84 (Einaudi, 2001) permette una riflessione sui passaggi da un universo a un altro: quando Aomamé (la protagonista femminile) passa da un mondo a un altro «si sente tremare, come se si dissociasse dal suo corpo. Questo sentimento di vacillazione della realtà è l’esperienza maggiore che simbolizza l’incontro soggettivo con un universo parallelo» (p. 57). Freud parlava di Unheimlich, «inquietante familiarità», ovvero ciò che crea un’irruzione del preoccupante nel familiare, come la comparsa di due lune nel cielo. È un cambiamento improvviso, uno sdoppiamento della realtà che ne lascia trasparire un’altra. Secondo Bayard l’inquietante familiarità è fondamentalmente legata a tre esperienze quotidiane: il déjà-vu, l’alterità, e gli incontri amorosi. L’interesse della teoria degli universi paralleli è quella di fornire una spiegazione di tali esperienze familiari che sia più plausibile di quelle date dalle varie religioni, in primis la reincarnazione. 

 

Un’altra questione che bisognerebbe chiarire, secondo il teorico-psicanalista, è se non fosse possibile percepire delle eco di questi mondi paralleli e di dare loro una forma estetica. E chi sarebbe capace di farlo se non gli scrittori e gli artisti, dando per scontata la loro capacità di ascolto e la loro spiccata sensibilità? La dimostrazione di tale ipotesi passa dalla lettura bayardiana di un romanzo di Frederik Pohl (L’invasione degli uguali, Editrice Nord, 1987), partendo dall’idea che certi universi alternativi sono più vicini a noi rispetto ad altri, e che ne percepiamo gli echi lontani; eco alle quali gli scrittori o gli artisti sono particolarmente recettivi, al punto da esserne influenzati nelle loro opere. Esistono frammenti di vite possibili: «Le vite che non abbiamo vissuto, le persone che non abbiamo amato, i libri che non abbiamo letto o scritto, non sono assenti dalle nostre esistenze» (p. 68). Al contrario, non cessano di far sentire la loro voce, e la loro realtà talvolta ci sommerge con la sua dolcezza o la sua violenza.

 

Nella terza parte del libro Pierre Bayard tenta un’applicazione della teoria e dei vari elementi analizzati in precedenza, interrogando in successione gli universi di Kafka, Dostoevskij e di Nabokov; si tratta di una lettura ex novo di questi testi, fondata sull’ipotesi che esistono altre versioni di noi stessi e che lo scrittore sarebbe capace di coglierle per farsi eco di tali alterità possibili. Questo spiegherebbe secondo Bayard come Kafka abbia potuto descrivere in anticipo e in maniera così dettagliata i totalitarismi che si sarebbero imposti alcuni anni più tardi. Kafka descrive dei mondi che esistono nella realtà altra, e quelli che capta non sono i segni del futuro, ma i segni del presente, un altro presente rispetto a quello immediatamente visibile, con una propria consistenza e autonomia. Per quanto riguarda Dostoevskij, è nota la frequenza ossessiva del tema del doppio nella sua opera: questo si spiegherebbe con il fatto che non c’è un solo Dostoevskij, ma ce ne sono numerosi, in spazi paralleli e alternativi tra loro. Secondo la visione bayardiana «la tematica del doppio è intimamente legata a quella degli universi paralleli. È in effetti in questi universi che percepiamo gli altri noi stessi che ci buttano nell’angoscia al punto di possederci» (p. 95), perché queste figure incarnano ciò che avremmo potuto essere se avessimo preso un cammino differente.

 

Infine il caso Nabokov, ossessionato dalle giovani adolescenti. «Qual era il suo vero fantasma?» si chiede il teorico francese, procedendo attraverso un percorso tortuoso, con il suo vezzo destabilizzante di mettere in discussione qualsiasi certezza data. Nabokov è e non è i suoi narratori e «la creazione non è uno spazio di transizione che mira a appacificare le sue pulsioni per conformarsi alle esigenze della società, ma uno spazio per scoprire dei mondi possibili, di elaborazione e scrittura delle interferenze che ad essi ci legano» (p. 106). Ovvero, Nabokov non scrive per placare la sua voglia di giovani adolescenti, semplificazione teorizzata da una certa critica, «il suo gesto […] è quello di osservare attentamente le biforcazioni della sua vita e di partire alla ricerca di tutte le esistenze possibili che avrebbe potuto conoscere» (ibid.), delle quali le scelte fatte fin qui l’hanno privato per sempre. 

 

Possiamo affermare che Bayard in Il existe d’autres mondes richiama la nostra attenzione sui processi di creazione ma anche – e soprattutto – su quelli di interpretazione del mondo. Difatti il messaggio bayardiano è chiaro: tenere conto della pluralità dei mondi reali può arricchire la nostra comprensione dell’immaginario di scrittori e artisti, e delle fonti alle quali attingono per costruire la loro opera. L’opera letteraria è un “luogo di passaggio”, uno spazio intermediario tra il nostro e gli altri mondi, e considerarla in tal modo significa aprirne la lettura verso più direzioni, arricchirla sensibilmente, senza accontentarsi di leggere in essa solamente i presunti fantasmi dell’autore che l’ha concepita. Quello di Bayard è un modello aperto che conduce verso l’esplorazione di tutti i destini non realizzati che portiamo in noi. È l’idea della sovrapposizione perpetua, il bisogno di rileggere il mondo attraverso gli universi paralleli per «rileggere se stessi, riflettendo sulle nostre molteplicità psichiche» (p. 147), e su tutto quello che avremmo potuto essere se il destino fosse stato differente. In conclusione, Il existe d’autres mondes, come molti altri testi del copioso edificio critico bayardiano, è una lettura a tratti paradossale e dissacratoria, un’esperienza intellettuale problematizzante che ci porta a rimettere in discussione tutte le codificazioni che guidano la nostra interpretazione della realtà. 

 

Nell’epilogo finale, attraverso un ultimo scarto, la scrittura di Bayard si riaffaccia al romanzesco, come nel prologo, e il narratore si ritrova in auto, lungo i boulevard che costeggiano l’Oceano, dopo una giornata di duro lavoro: «E quando la notte scende sulle colline di Hollywood, […] mentre risalgo verso la casa di Benedict Canyon, dove mi attende Scarlett, non riesco a non pensare a tutte le esistenze meno appassionanti che conduco altrove, allo stesso momento, e mi dico che ho avuto l’immensa fortuna di abitare questo mondo» (p. 150). 

 

Post scriptum: Il existe d’autres mondes è dedicato al gatto di Schrödinger. Che oramai sarà morto e rimorto, in tutti gli universi possibili. 

 

La traduzione delle citazioni è di Roberto Lapia.

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