Quasi una favola di Natale
C’era una volta, in un paese non meglio precisato, un uomo politico. Lui era un vecchio uomo politico, uno che ne aveva viste di tutti i colori in tanti anni di attività. Il paese, che non nomino, era un paese dove tutti telefonano urlando per la strada, sia che vadano a piedi in macchina o in bicicletta, e dove la televisione trasmette in continuazione esclusivamente due tipi di servizi: o cronaca nera o gastronomia. Sicché in quel paese tutti, oltre a telefonare vociando, pare che non facciano altro che due cose: ammazzare o cucinare (e/o mangiare).
Il vecchio politico era rimasto, non si sa come, un idealista. E ciò per tutta la durata della sua lunga carriera. Aveva fatto la gavetta, nel suo partito. Perché allora, quando aveva cominciato lui, i partiti c’erano ancora, e c’era anche la politica. Ora non ne era più sicuro, che ci fossero politica e partiti. Il suo partito, per esempio, aveva cambiato nome e simbolo svariate volte. Ma sempre rimanendo, il simbolo, nell’ambito vegetale-mangereccio: partito del carciofo, del cavolo-rapa e, ora, del cavolo e basta.
Il nostro politico aveva l’abitudine di spedire, a ogni Natale che Dio mandava in Terra, una lunga lettera ai suoi elettori. Aveva cominciato già quand’era un semplice consigliere comunale. Poi, da assessore comunale, aveva proseguito, ampliando la lettera. E così anche aveva fatto nella sua veste di consigliere provinciale e poi assessore, provinciale e regionale. E così pure quand’era assurto ai fasti della Camera dei Deputati. Per quest’occasione più che di una lettera, per quanto lunga, s’era trattato di un vero e proprio opuscolo. Quando, infine, pervenne al Senato, e il suo partito aveva già attraversato le mutazioni simbolico-onomastiche di cui sopra, e si era quindi cristallizzato nella sua ultima ipostasi di Partito del Cavolo, per il Natale inviò agli elettori un volume di mole cospicua. E che c’era, di così importante, in queste missive sempre più consistenti che il nostro politico mandava a chi lo aveva votato?
Per una singolare forma di proporzionalità inversa, più la carica era limitata e locale, più i temi erano di portata generale. E viceversa. Per esempio, quando era consigliere comunale aveva vergato una missiva di poche pagine sì, ma il cui contenuto rispondeva al titolo altisonante: COME SVILUPPARE E CONSOLIDARE LA PACE PERPETUA NEL MONDO INTERO, RIFLESSIONI NATALIZIE.
Nella sua funzione di assessore regionale (a che non so, né ricordo) s’era prodotto in una complessa (e prolissa) relazione che recava in cima l’eloquente esortazione: ABOLIAMO LA FAME IN AFRICA! RIFLESSIONI NATALIZIE. L’opuscolo che partì a suo nome, sempre in occasione delle festività, dalla Camera dei Deputati, era dedicato invece al tema MULTICULTURALISMO NELL’EUROPA OCCIDENTALE: RIFLESSIONI NATALIZIE. Come si vede l’obiettivo era sempre un po’ più ristretto. La specificazione che si trattava comunque di pensate legate alla Natività, si vede anche questo, non mancava mai. Perché proprio a Natale devo far riferimento alla Pace, alla Fame, all’Integrazione? Si chiedeva il vecchio politico. Il Natale che è notoriamente un periodo in cui tutti mangiano a strafogarsi (e nel suo paese, del resto, mangiavano così anche nel resto dell’anno), in cui ci si ritrova in famiglia, a litigare, a rinfocolare vecchi e antichi rancori mai sopiti, a dividersi su tutto, anche sul presepe, a disintegrarsi, ad atomizzarsi… Già, perché si sentiva in dovere di proporre temi così elevati e impossibili ai cittadini-elettori?
Erano anni, anni e anni che, ad ogni Natale si poneva il quesito inutilmente. Finché un giorno, un bel giorno, e l’ennesimo Natale senza neve, senza gioia, senza quiete, senza tregue (nemmeno armate), gonfio di cibi inutili e regali vani, l’ennesimo simulacro di festa-senza-festa si stava materializzando, si stava approssimando, sfiatato, bolso, come un ronzino recalcitrante, il nostro vecchio uomo politico che ne aveva viste di tutti i colori, e che aveva scritto troppe lettere e letterone di Natale, su temi troppo più grandi di lui, pensando che solo quelli fossero adatti al Natale, cambiò idea. E si convinse che ai suoi elettori avrebbe dovuto scrivere una letterina semplice semplice, di poche righe (adesso che era sottosegretario se lo poteva permettere, tanto uno come lui, un idealista, ministro non lo sarebbe diventato mai). E scrisse, a mano, con la stilografica, la seguente breve missiva, che venne poi, con procedura archeologica, e sbavante, ciclostilata:
Da oggi, che effettivamente è anche Natale, cerchiamo tutti almeno di salutarci, persino sorridendo, se del caso, timidamente.
Poi evitiamo di andare in bici sul marciapiedi. E di telefonare, urlando, mentre andiamo in bici. Non buttiamo cartacce e cicche per terra. Passiamo col verde. Col rosso stiamo fermi. Non lamentiamoci più, in generale. Poi, col tempo, quando avremo imparato il saluto, e a passare solo col verde, senza buttare cicche e cartacce, e senza telefonare, forse, forse, potremo anche imparare a pagare le tasse, ma solo in un secondo momento, senza fretta, tanto fino ad oggi non è successo quasi niente a quelli che non le pagano.
La lettera andava ancora avanti, ma per poco, con formulazioni di questo tenore e si concludeva con un progetto preciso: il nostro vecchio politico del paese dei telefonanti-urlanti esprimeva a chiare lettere il proposito natalizio di abbandonare per sempre il suo vecchio Partito del Cavolo, per formarne uno nuovo, il novantottesimo partito del paese dei telefonanti, il PARTITO DELLE PICCOLE COSE.
Auguri a tutti.